Film > La strada per El Dorado
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Autore: Lady R Of Rage    16/08/2014    6 recensioni
Il punto era che la sua vita in quel momento non era altro che questo: degradante. Una miscela sgradevole e sozza di spintoni, fame e polsi scarnificati dalla corda. Per il resto, niente: non sapeva dov’era, quanto tempo era passato, e perché nessun dio fosse ancora venuto in suo soccorso. Non importava cosa avrebbero fatto i soldati, dove sarebbero andati, e cosa avrebbero trovato: avrebbero continuato a spintonarlo, avrebbe sempre avuto fame e la corda avrebbe continuato a scarnificargli i polsi.
[...]
Tremava, mentre il capo dei soldati continuava ad accarezzargli il viso sporco di terra. Gli passò una mano nei capelli: il codino gli si era sciolto da tempo immemore, e i capelli lunghi fino alle spalle gli coprivano metà del volto come una maschera da sacrificio.
[...]
-Mi chiamo Tzekel Kan. Sono il Gran Sacerdote di El Dorado, e tutti voi pagherete per questo.-

[Post-movie | Tzekel Kan!Centric | Dedicata a Raven Cullen]
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hernán Cortés, Tzekel-Kan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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You Won't Have Me - Ricordati Chi Sei

Sound the bugle now - play it just for me
As the seasons change - remember how I used to be
Now I can't go on - I can't even start
I've got nothing left - just an empty heart

 
Durante i primi giorni del viaggio, non aveva capito più nulla. Il tempo si era come fermato, e nonostante gli innumerevoli segni provenienti dall’esterno –la sensazione di sfregamento dei lacci ai polsi e alle caviglie, la gola riarsa dalla sete, le risate crasse e volgari dei soldati- in un certo senso aveva dormito quasi tutto il tempo. A volte dormiva per davvero, legato a qualche albero lontano dal fuoco e dalle armi, col capo reclinato su una spalla in un gesto di incondizionato abbandono. Quando si risvegliava, semincosciente per il freddo e con le ossa doloranti per l’immobilità forzata, a malapena osava aprire gli occhi. Forse la sua mente aveva sviluppato un qualche sesto senso divino che gli impediva di vedere le situazioni troppo degradanti?
Il punto era che la sua vita in quel momento non era altro che questo: degradante. Una miscela sgradevole e sozza di spintoni, fame e polsi scarnificati dalla corda. Per il resto, niente: non sapeva dov’era, quanto tempo era passato, e perché nessun dio fosse ancora venuto in suo soccorso. Non importava cosa avrebbero fatto i soldati, dove sarebbero andati, e cosa avrebbero trovato: avrebbero continuato a spintonarlo, avrebbe sempre avuto fame e la corda avrebbe continuato a scarnificargli i polsi. E se quella doveva essere la sua vita, tanto valeva morire. O almeno dormirci su.
 
I'm a soldier - wounded so I must give up the fight
There's nothing more for me - lead me away...
Or leave me lying here

 
I soldati lo chiamavano “esserino”. Nessuno gli chiese mai il suo nome: gli esserini non hanno un nome. Non hanno una storia, delle passioni o dei sentimenti; nemmeno lui ne aveva, ma in compenso aveva uno stomaco da riempire, un corpo, seppur minuto, da trascinare in giro, e possibilmente il viso più brutto mai visto a memoria d’uomo. Esattamente il tipo di cose che facevano innervosire i soldati.
Accadeva dunque che lo stomaco non venisse quasi mai riempito, il corpo minuto si ricoprisse presto di lividi e segni di pedate, e quel viso così brutto spesso grondasse sputi o fango. Non lacrime, quelle no. Aveva sempre avuto la lacrima facile, lui, ma nessun soldato era mai riuscito a strappargliene una.
Incosciente com’era, sarebbe benissimo potuto essere morto. E i morti, si sa, non piangono. Eppure non era morto: respirava, mangiava, e seppur il minimo possibile, a volte si muoveva anche. E nel suo silenzio, aveva bevuto fino in fondo il suo amaro calice, senza lamentarsi, perché gli esserini non si lamentano.
Quello che i soldati non sapevano era che, per incosciente e selvaggio che fosse, l’esserino conservava la capacità di ascoltare. E la notte, pur con lo stomaco che ringhiava e le mani blu per la corda stretta ai polsi, l’esserino ascoltava anche le loro conversazioni. E nonostante non lo mostrasse minimamente, l’esserino aveva paura.
-Comandante, siamo stanchi di portarcelo appresso. Spariamogli un colpo in testa e lasciamo il suo cadavere a marcire qui nella foresta.-
-Non lo sopportiamo più. Continuiamo a dargli il nostro cibo, e dobbiamo tirarcelo dietro come un peso morto. E quello sguardo poi… sembra sempre che stia tramando qualcosa.-
-Avete visto quanto è brutto? Piccolo, scuro… e non parliamo del viso, per pietà. Io non ne posso più, lasciamolo a morire di fame qui.-
A me va bene, pensava lui battendo i denti per il freddo. Tanto non ho più niente.
 
Sound the bugle now - tell them I don't care
There's not a road I know - that leads to anywhere
Without a light feat that I will - stumble in the dark
Lay right down - decide not to go on
 

Eppure, il loro capo sembrava convinto che, almeno al momento, l’esserino doveva vivere.
-Non lo uccideremo, non ancora. Potrebbe venirci utile.-
Ormai appurato che non si trattava di un dio, ne aveva paura. Era alto e grosso, portava vesti di metallo e stringeva in mano un bastone che produceva tuoni e lampi. Lui che era basso, minuto, seminudo e disarmato si sentiva come un bambino capitato per sbaglio sull’altare dei sacrifici.
E continuava a farsi trascinare in giro, come un pacco di vettovaglie, assistendo a una conquista dopo l’altra senza battere ciglio. Con le mani legate non poteva tapparsi le orecchie, così le urla delle persone uccise gli trapanavano i timpani come tafani impazziti. A volte uno schizzo di sangue gli atterrava sul corpo o sul viso. Era abituato ad avere del sangue addosso, e non provava disgusto né orrore. Qualcuno dei prigionieri a volte lo intravedeva, legato e seminudo com’era, in mezzo ai soldati, con lo sguardo rivolto a terra con quella deferenza che solo un sacerdote poteva avere. Forse provavano pietà per lui, ma non lo seppe mai. Non conosceva la pietà come non conosceva l’affetto e la compiutezza. Conosceva solo il sangue, la paura e i sacrifici, e dopo settimane di viaggio, incredibile a dirsi, cominciava ad averne abbastanza.
Finché una sera il loro capo non gli si era avvicinato. Con le sue stesse mani gli aveva porto una scodella di minestra, accostandogliela alla bocca come un infermiere. Alle sue spalle erano accatastati i sacchi con l’oro e l’argento trafugati dalle città conquistate. Forse anche i suoi orecchini erano là in mezzo, sul fondo di un sacco. Per qualche ragione quel pensiero lo fece impallidire.
E il capo dei soldati –come si chiamava? Qualcosa con la C…- gli accarezzava le guance smagrite con gesti talmente teneri da apparirgli falsi.
-Voglio essere buono con te. -
 
Then from on hight - somewhere in the distance
There's a voice that calls - remember who your are
If you lose yourself - your courage soon will follow

 
Tremava, mentre il capo dei soldati continuava ad accarezzargli il viso sporco di terra. Gli passò una mano nei capelli: il codino gli si era sciolto da tempo immemore, e i capelli lunghi fino alle spalle gli coprivano metà del volto come una maschera da sacrificio.
-Sei uno strano esserino. Sei brutto e selvatico, ma sei anche obbediente. Sei stato zitto e buono per tutto questo tempo. Ho avut0 meno noie da te che dai soldati.-
Continuava ad accarezzargli il viso infangato, con una curiosità poco ingenua e molto minacciosa. Era una cosina magra, lurida e ripugnante –perché, in nome del cielo perché l’appendice del naso iniziava nel mezzo della fronte?-, aveva anche osato mentirgli riguardo all’esistenza della città d’oro, ma c’era qualcosa in quel corpicino sottile e in quel volto orrido che lo affascinava. Cosa fosse, non lo sapeva.
-Ce l’hai un nome?-
Nessuna risposta. L’esserino aveva perso la lingua. Ogni secondo che passava lo odiava sempre di più. In fondo cosa costava prendere un fucile e finire quella vita miserabile in un colpo solo?
Ma l’esserino non aveva perso la lingua. Aveva perso tutto – la dignità, il potere, il dominio della paura su El Dorado, persino gli orecchini d’oro e i sandali- ma non la lingua. E la sapeva usare. Era la sua unica arma, e per quanto inutile contro i bastoni del tuono e del fulmine, doveva usarla.
E per la prima volta, l’esserino parve ricordarsi chi era e che era vivo.
Sfoderò il suo sguardo assetato di sangue e il suo miglior sorrisetto compiaciuto, quello che riservava sempre a quel bestione di Tanabok quando lo intralciava nel suo compito, e si decise a parlare.
-Mi chiamo Tzekel Kan. Sono il Gran Sacerdote di El Dorado, e tutti voi pagherete per questo.-
 
So be strong tonight - remember who you are
Ya you're a soldier now - fighting in a battle
To be free once more -Ya that's worth fighting for

 
Ebbe appena il tempo di sorridere nuovamente prima che il calcio di un fucile lo colpisse al volto, facendolo cadere di fianco privo di sensi. Un fiotto di sangue gli scendeva dalle narici. Il capo alzò le spalle.
Quando riprese i sensi le corde avevano lasciato il posto a pesanti catene di ferro. Due soldati lo trascinavano come un sacco lungo il ponte della nave più grande che avesse mai visto. Non aveva mai visto il mare. Aveva di nuovo paura, e continuava a perdere sangue dal viso. Decise di ripiombare nel silenzio. Guardava i soldati con occhi di fuoco mentre inchiodavano i ceppi alla chiglia della nave. Lo avevano gettato in una stiva assieme a piante e altri oggetti. Era di nuovo solo, e quando la nave partì sentì le lacrime bruciargli le palpebre. Si accoccolò di fianco alla chiglia della nave, e col viso tra le mani scoppiò in un pianto violento.
Passarono i giorni senza che vedesse mai il sole. Riceveva del cibo ogni tanto, ma per il resto era solo. In mezzo al mare la sua nudità gli pesava maggiormente, e trascorse tre notti a tremare come una foglia fino a che un soldato particolarmente misericordioso non gli portò una coperta da equino.
Poi ci fu quella notte. La nave era in preda a una fortissima tempesta che la agitava come un ciottolo. Nella stiva sentiva le urla dei soldati che cercavano di governare la nave. Le onde provavano a sballottarlo, ma le catene lo tenevano ancorato alla chiglia della nave. In preda alla nausea più forte, gli sembrava di essere di nuovo nel vortice. Solo che stavolta non aveva possibilità.
Si accasciò a terra sullo stomaco, e pregò gli dei che tanto venerava di portarlo alla morte.
Invece successe qualcos’altro. Improvvisamente gli parve che uno dei nodi nel legno della nave cambiasse forma. Rimase a guardarlo sbattendo le palpebre mentre il legno si trasformava lentamente e silenziosamente in una piramide d’oro.
Trasalì, troppo stordito per gridare. Il legno continuò a mutare forma, nodo dopo nodo, trasformandosi in quella che sembrava, ed era, la sua El Dorado.
Apparvero i visi conosciuti di tutta quella gente che odiava tanto, che avrebbe desiderato far precipitare uno dopo l’altro sul fondo di quel vortice, e che Shibalba potesse accogliere le loro anime sozze. Si strinse nelle braccia mentre vedeva gli artefici delle sue sventure che gli sorridevano beffardi attraverso il legno: quell’orrido Tanabok, i due falsi dei, la giovane ladra (poteva giurare di averla vista in mezzo alle rocce mentre i soldati lo conducevano via, che lo salutava con la manina con quell’odioso sorrisetto sul volto).
Se avesse potuto gli avrebbe sputato in piena faccia. Bramò di avere un coltello con sé, per compiere la giusta vendetta. Ma non aveva coltelli, e anche se ne avesse avuti non avrebbe potuto fare niente, incatenato e stanco com’era. Si limitò a stringere i pugni, mentre l’immagine svaniva come un riflesso in uno specchio d’acqua spezzato dal lancio di un sasso. Cosa gli restava?
Sentì un soldato gridare da sopra la coperta, e come un lampo divino capì d’un tratto cosa gli restava.
La sua identità. Quella non l’avrebbe mai persa. Non sapeva dove sarebbe andato e cosa gli avrebbero fatto, ma decise che non importava. Era un prigioniero e uno schiavo, ma soprattutto era un sacerdote. Era quello che aveva scatenato il Giaguaro di Pietra, e che aveva e avrebbe sempre servito gli dei.
-Ricordati chi sei.- si disse, mentre un bagliore verde dalle sue mani riaccendeva una volontà che non era mai stata uccisa.
 

Angolo della Cuin
Siete belli e basta *cerca di blandire il pubblico*.
Allora *si sistema i capelli imbarazzata*, questa roba è... enniente, chiamasi delirio abissale, leggesi fanfiction su Tzekomesikiama (perchè i soprannomi non sono cosa per me *disse colei che chiama il capo Tanabok "Chanabocc" perchè C'ha na bocc... - credits a Raven Cullen per la battuta geniale- sono fuori e basta ehh...*), dicevo, 'sta roba qua.
Anzitutto chiariamo: io Tze-coso lo adoro. Mi fa tenerezza (anche se con quel naso che si ritrova è brutto forte ahilui) perchè sembra sempre che non sappia quello che fa. Poi se avete letto Finchè Morte Non Vi Separi troverete l'Headcanon per eccellenza che lo riguarda (*canticchia "Yzma e Facilier, seduti sotto un pino..." beh, qualcuno deve pur sposarli no?). Poi con quella magia nera è troppo forte (anche se quel naso... vabbè mica fa il cantante teen!).
Odio a MORTE Chanab Tanabok perchè è un lardone con le labbra a canotto che deve solo che andare a... e soprattutto Cortès, perchè è SLEALE (ma dico siete in trentadue, che andate a prendervela contro un uomo da solo? Bastardi spagnoli *senza rancore per gli spagnoli*).
Ho deciso di inventarmi quello che poteva succedere a Tzekerazzadinome dopo il finale (ovvido) del film, e pregando che non muoia di colera subito... dovrebbe andare così. Ringrazio in anticipo Makochan per l'idea di Tze che viene portarto via in Spagna (anche se sappiamo che in realtà è stato salvato da Yzma e Facilier perchè li doveva maritare...).
Ringrazio la mia sorella Dea Raven Cullen per avermi sostenuto in questa idea, la storia è dedicata a te e così sia. Divina Rayquaza ti adoro (il mio nome da Dea è Quetzalcoatl... noo, non è prenotato). 
Perchè poi Tze mica mi ha ispirato in niente, nooo *nasconde coltello sporco di sangue*.
La canzone è Sound The Bugle dall'ALTRO film della Dreamworks Spirit - Cavallo Selvaggio, che mio fratello mi ha fatto riscoprire tempo fa e che ora e sempre mi da Feels! Il titolo deriva da un altra canzone di Spirit, You Don't Have Me, appunto. Grazie mio meno divino fratello per avermi ispirata *puccioseggia ferocemente le sue guance*
Grazie ancora e a presto (preghiamo ogni divinità esistente esistita ed esistibile per la sorte del povero piccolo Tze)
MiticaBEP97

 
  
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