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Autore: LindaBaggins    17/08/2014    1 recensioni
Sono tempi bui: Voldemort, appoggiato da un numero sempre crescente di seguaci, si prepara a salire al potere, e nel mondo magico cominciano a levarsi i primi venti di guerra. Attraverso una storia di vent’anni e sullo sfondo di due Guerre Magiche, si sviluppano le vicende di Catherine Swire - prima Grifondoro timida, gentile e insicura, poi Auror del Ministero, e infine membro del nuovo Ordine della Fenice – legate a doppio filo a quelle dei Malandrini in un intreccio di amicizie, tradimenti, amori e perdite.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sirius Black, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Più contesti
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PROLOGO
 

31 OTTOBRE 1959
 
Isabel non credeva che per un essere umano fosse possibile provare tanto dolore. Aveva sentito parlare, ovviamente, della sofferenza che si provava in situazioni del genere, e in un certo senso era arrivata a quel momento preparata: in fondo, aveva sempre creduto che la sua soglia del dolore fosse abbastanza alta da permetterle di affrontare il tutto con sufficiente stoicismo. Ma aveva dovuto presto ricredersi, e accettare il fatto che i limiti della sua resistenza fisica fossero stati di gran lunga superati.
Fece del suo meglio per non urlare, ma non poté impedire ad un gemito di dolore di fuoriuscire dalle sue labbra strette fino allo spasimo. Sentì il sudore colarle copioso giù per il viso rosso e congestionato, e non poté fare altro che sperare, per l’ennesima volta, che tutto finisse il più presto possibile. Da quanto era in quella stanza? Due, tre ore? Non si ricordava nemmeno se fosse notte o giorno: le uniche cose di cui era consapevole erano gli spasmi lancinanti che la aggredivano fino a mozzarle il fiato, i muscoli del proprio corpo tesi fin quasi a spezzarsi e i tuoni che, di tanto in tanto rimbombavano nella stanza penetrando a fatica la coltre di dolore che le annebbiava il cervello. C’erano delle persone, tutto intorno a lei, ma al momento riusciva a distinguerne solo le sagome sfocate, gli occhi appannati da un misto di lacrime e sudore.
«Coraggio, Isabel! Ancora poco e ci sei!»
La voce femminile, calda e rassicurante, proveniva da un punto molto vicino a lei, ma stranamente le arrivò come da miglia e miglia di distanza. Isabel, con un gesto istintivo, strinse ancora di più la mano della donna bionda in piedi al suo fianco ed emise un grido strozzato, costringendo il suo ventre a contrarsi per l’ennesima volta nello sforzo. Si sentiva come se il suo corpo dovesse disintegrarsi da un momento all’altro, e per un breve, folle momento desiderò morire piuttosto che sopportare quell’indicibile dolore ancora per un secondo.
«Non ce la faccio … non ce la faccio …»
Si rese conto di aver parlato senza rendersene conto, senza nemmeno sapere quello che diceva.
«Certo che ce la fai!» le fece eco l’infermiera in tono incoraggiante, asciugandole premurosamente il sudore dal viso e ricambiando la stretta alla sua mano per rassicurarla. «Ci sei quasi, ancora un ultimo sforzo … così, bravissima!»
«Riesco a vedere la testa!» esclamò in quel momento una voce maschile di fronte a lei. «Forza, Isabel, forza!»
Fu come se qualche incantesimo le avesse appena restituito la facoltà di pensare lucidamente. Una violenta scossa di adrenalina la attraversò dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi, e all’improvviso persino il dolore sembrò farsi meno intenso. Serrò le palpebre e, respirando rapidamente come le era stato insegnato durante le sue innumerevoli visite di controllo al San Mungo, si preparò a compiere l’ultimo sforzo di quella interminabile nottata.
«Stai andando benissimo, Isabel, continua così!» esclamò ancora la voce del guaritore, con crescente entusiasmo. «Ecco che arriva … ecco che arriva … le spalle e il busto sono fuori, ci siamo quasi!»
La stretta sulla mano dell’infermiera era così forte, che Isabel era convinta di sentire saltar fuori le nocche dalla pelle da un momento all’altro. Si ripromise di scusarsi per averle stritolato la mano, non appena si fosse ripresa dalla fatica, ma un momento dopo pensò che probabilmente la donna era abituata ad assistere giovani madri al primo parto sconvolte dal dolore.
Proprio in quel momento, il mondo intorno a lei cominciò a comportarsi in modo strano. I rumori e le voci concitate, compresi i suoi gemiti di dolore, si smorzarono fino quasi a scomparire, e i minuti presero a dilatarsi in maniera quasi inconcepibile. Fu dopo quelle che a Isabel sembrarono ore, che, finalmente, uno strillo acuto e lamentoso invase la stanza, spezzando il silenzio ovattato nella sua testa e riportando il tempo a scorrere ad un ritmo normale. Sfinita, ebbe una fugace visione di minuscoli piedini e manine che si agitavano tra le braccia del guaritore, e per un attimo fu convinta che di lì a qualche secondo avrebbe perso i sensi.
«Ce l’hai fatta, Isabel!» la voce dell’infermiera, accanto a lei, era incrinata dalla commozione, la sua mano piacevolmente ruvida le accarezzava i capelli con fare materno. «Ce l’hai fatta, è finita!»
Senza che potesse fare niente per fermarli, violenti singhiozzi di felicità e sollievo cominciarono a scuoterla dall’interno, rendendole impossibile persino prendere fiato. Ci volle qualche minuto prima che il respiro affannoso le permettesse di parlare in modo comprensibile.
«E’ … è un maschio o … una femmina?» fu tutto quello che riuscì a chiedere tra le lacrime. Fu il guaritore a risponderle, avvicinandosi al lettino con un involto di coperte tra le braccia e un sorriso soddisfatto stampato sulla faccia madida di sudore.
«E’ una bambina, e sta benissimo» disse, porgendole con cautela il fagotto. Isabel, tiratasi su a fatica con l’aiuto dell’infermiera, si sistemò goffamente l’involto tra le braccia, e per la prima volta, con le labbra salate di lacrime e il cuore che le rimbombava violentemente nel petto, posò lo sguardo sul viso di sua figlia.
Era rosso e minuscolo, con gli occhi ancora semichiusi e un’incredibile massa di finissimi capelli scuri sulla testa. Aveva smesso di piangere a squarciagola e, emettendo solo qualche sommesso piagnucolìo, la fissava con uno sguardo di blando interesse, esausta apparentemente quanto lei.
Isabel rise tra i singhiozzi e le sfiorò una guancia con un dito, frastornata. «Ciao, piccolina …» sussurrò, beandosi della sua vista come davanti ad un’opera d’arte. «Ciao … finalmente ci conosciamo …»
Come per magia, il mondo intorno a lei si era ridotto ad una vaga e indistinta massa di sagome, colori e brusii; le ore appena trascorse, la fatica e il dolore, sembravano appartenere ad un’altra vita, o somigliavano al pallido ricordo di cose che erano successe a qualcun altro. Dentro di lei, in quel momento, c’era posto soltanto per un’enorme, totalizzante e assoluta felicità. Una sensazione così forte, e dimenticata da così tanto tempo, che Isabel per un attimo temette di rimanerne travolta. Fu soltanto quando una mano si poggiò delicatamente sulla sua spalla e una voce chiamò con gentilezza il suo nome, che fu di nuovo consapevole della presenza, in quella stanza, di altre persone che non fossero lei o sua figlia. 
«Isabel» la chiamò l’infermiera bionda, con la stessa cautela con cui si sveglierebbe un sonnambulo. «Desideri metterti in contatto con qualcuno? Vuoi … avvertire il padre della bambina?»
Isabel non distolse nemmeno per un attimo lo sguardo da sua figlia. In quel momento, le sembrava impossibile che i suoi occhi potessero rivolgersi verso qualcos’altro che non fosse quel minuscolo uccellino sgambettante. A quelle parole, tuttavia, il dito che accarezzava delicatamente la guancia della bambina si immobilizzò, mentre il suo cuore pareva dimenticare per un istante come si faceva a battere.
Sapeva benissimo a cosa si riferiva l’infermiera. Isabel era arrivata in ospedale poche ore prima, piegata in due per il dolore, senza nemmeno sapere come aveva fatto a racimolare la concentrazione necessaria per visualizzare nella mente il San Mungo e Materializzarsi nel posto giusto, ed era completamente sola. Nessuno la accompagnava. I guaritori, considerato il suo stato, non avevano perso tempo e l’avevano trasferita direttamente in sala parto, rimandando le domande a quando tutto fosse finito e lei si fosse ripresa. Quel momento, a quanto pare, era arrivato. E Isabel, suo malgrado, era preparata a quello che avrebbe dovuto dire.
Deglutì impercettibilmente. «Non c’è nessuno da contattare» rispose alla fine, controllando il più possibile il tremito che minacciava di incrinarle la voce. «Suo padre non c’è più.»
Anche senza voltarsi, riuscì a percepire chiaramente sulla pelle il gelo che era calato nella stanza alle sue parole. Con la coda dell’occhio scorse l’infermiera scambiare uno sguardo imbarazzato con il guaritore che l’aveva aiutata a partorire, e subito voltarsi verso di lei.
«Oh, Merlino … mi … mi dispiace molto» si scusò la donna, mortificata. «Non volevo essere inopportuna.»
Isabel scosse lievemente la testa, facendole capire che non ce l’aveva affatto con lei e che la sua domanda era stata più che legittima.
«Non c’è bisogno di scusarsi» disse con aria assente, lo sguardo ancora fisso sulla piccola fra le sue braccia. «Penso fosse così che doveva andare … purtroppo.»
Le lacrime minacciarono di nuovo di gettarsi a capofitto lungo le sue guance, ma questa volta la felicità non c’entrava proprio niente. Qualcosa di simile ad una voragine si era aperta nel petto di Isabel, quella voragine con cui aveva imparato da tempo a convivere e che negli ultimi mesi non l’aveva abbandonata nemmeno per un secondo. Era la voragine della perdita, della mancanza, della paura, un residuo del dolore che l’aveva divorata nei primi tempi e che ora si era trasformato in sorda rabbia intrisa di nostalgia.
La bambina emise un piccolo gorgoglìo e smise per un momento di lamentarsi, mentre le microscopiche dita della sua manina si poggiavano sul polso di Isabel. Era un gesto del tutto inconsapevole, Isabel lo sapeva bene, ma questo non le impedì si sentire il cuore gonfiarsi di commossa felicità. Fu allora che, per la prima volta dopo mesi, sentì finalmente chiudersi la voragine nel petto, e fu allora che sentì in modo chiaro che non solo era possibile per lei ricominciare a vivere, ma che la sua nuova vita stava cominciando in quel preciso momento. Forse – sicuramente - la voragine sarebbe ricomparsa, ma da quel giorno in poi Isabel avrebbe avuto qualcuno in grado di riempirla, qualcosa che le avrebbe ricordato, giorno dopo giorno, che la vita valeva la pena di essere vissuta.
«Staremo benissimo, sole io e te» bisbigliò sorridendo, il dito che riprendeva a sfiorare teneramente la guancia della bambina. «Staremo benissimo … non è vero, Catherine?»



 


 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Catherine era nella mia testa ormai da molti anni. Ha dovuto affrontare un lungo viaggio per venire fuori – un viaggio fatto di trame inadeguate, caratterizzazioni sbagliate, ripensamenti, cali di ispirazione – ma alla fine è riuscita a trovare la forma e la storia che più le si addiceva. Catherine è maturata, è cresciuta e si è evoluta insieme a me, e forse è per questo che, tra i personaggi delle mie storie, è quello che amo di più. Qui, in questa piccola stanza dell’Ospedale San Mungo per Malattie e Ferite Magiche, in questa tempestosa notte di ottobre, inizia il suo viaggio e la sua storia, e se riuscirò a trasmettervi anche solo un po’ dell’impegno che ho speso per idearla e dell’amore sconfinato per la saga a cui si ispira, potrò ritenere il mio scopo raggiunto.
Buona lettura

MrsBlack90

P.S. Il titolo della storia, come forse qualcuno avrà intuito, è tratto dalla canzone One and only di Adele, che mi ha fornito molta dell’ispirazione necessaria a concepire questa storia.
 

 
   
 
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