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Autore: LimoneMenta    17/08/2014    1 recensioni
Davide è un giovane uomo in carriera che da Torino si è trasferito a Dublino. Sta per tornare a casa per le vacanze natalizie, quando, all'improvviso, la locandina della nuova stagione del Gaiety Theatre gli si piazza avanti agli occhi. In quel momento la decisione d fermarsi e tentare di rivedere quella ballerina che lui conosce da moltissimi anni e che non ha mai scordato. Tra lezioni di danza, ricevimenti in hotel di lusso e l'aiuto di una nuova amica riuscirà Davide a capire cosa prova? Si tratta davvero di una vecchia amicizia a lungo dimenticata oppure di qualcosa di più? Cosa c'è tra lui e quella ballerina?
Se qualcuno avesse voglia di perdere cinque minuti per una breve (o anche lunga!) recensione, mi farebbe davvero contenta! Grazie mille e buona lettura!
(sinceramente, non so perchè il testo sia un po' spostato. Comunque, è leggibile tranquillamente, quindi... don't worry)
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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1. La Danza dei Ricordi

Finalmente. Ancora poche ore e avrebbe rimesso piede a casa. Dopo quattro lunghi mesi sarebbe tornato a Torino per le vacanze natalizie. Certo, Dublino era bella e amava vivere lì, il suo lavoro di assistente sociale gli piaceva e lo riempiva di soddisfazioni, ma l’Italia restava sempre la sua patria e Davide non vedeva l’ora di tornarci. Inoltre, se così non fosse stato, sua madre gliel’avrebbe fatta pagare cara, molto cara. Doveva ricordarle ad ogni telefonata che aveva da poco superato la soglia dei trent’anni, eppure lei continuava imperterrita a ripetergli di non nutrirsi di porcherie, di chiudere a doppia mandata la porta di casa e altre raccomandazioni da dodicenne. Ma, nonostante tutto, non vedeva l’ora di riabbracciarla e di infilarsi nel suo caro, vecchio letto adorato.                                                                                                                      
Nel taxi sgangherato che lo stava trasportando fino all’aeroporto risuonava forte una melodia indiana stile Bollywood, cantata a squarciagola dall’altrettanto indiano autista che non accennava a smettere. Non che questo lo turbasse, era da sempre stato un amante dei più svariati stili musicali. Ci mancava poco che non si unisse all’uomo per terminare la canzone, ma non conosceva le parole. Sempre che ne avesse. Osservava concentrato l’ambiente fuori dal finestrino, per memorizzare ancora quei dettagli che notava tutti i giorni recandosi a lavoro. Finché…                                                                                                                                                                      
 
«Si fermi! Si fermi subito, per favore!» Il suo urlo colse di sorpresa l’autista indiano, che inchiodò bruscamente in mezzo alla strada. Inutile dire che in meno di due secondi la strada era invasa dagli insulti degli automobilisti in coda dietro di loro.                                                                                                                                                                                     
«Tenga il resto» esclamò lanciando sul sedile a fianco al conducente una banconota pescata a caso dal portafoglio. Saltò fuori dall’abitacolo, rischiando anche di grattuggiarsi la faccia contro l’asfalto.                                                                               
 
«Ma sono cinquanta euro!» ribatté l’uomo guardandoli sbalordito. Non fu la sua unica protesta, ma Davide lo liquidò con una mano, facendogli segno di andarsene. Cosa a cui l’altro ubbidì ben volentieri, ringraziando chissà quale dio per la fortuna ricevuta quel giorno. Lui invece si avvicinò di corsa fino ad un muro, la facciata principale del Gaiety Theatre, rischiando un paio di volte di essere investito e scusandosi un po’ in inglese e un po’ in italiano con gli automobilisti un pelino inferociti. E poi eccola lì, ciò che lo aveva mandato in tilt: un’enorme locandina, appesa vicino all’ingresso di cristallo, che annunciava “La splendida rappresentazione dell’opera ‘Lo Schiaccianoci’, con le due étoiles Alberto Pecetto e Rebecca Petrini”, testuali parole.
E così ci era riuscita. Non solo aveva realizzato il proprio desiderio, ma era anche diventata étoile. E se il suo poverissimo dizionario francese non sbagliava, ciò voleva dire che era la ballerina principale dello spettacolo. “Inizio delle rappresentazioni: 21/12/2018”. Inizio delle rappresentazioni: 21/12/2018. Il 21… proprio quel giorno. Oh, Rebecca. Avrebbe riconosciuto il suo viso fra mille, anche se a pensarci bene non ne sapeva il motivo. Era cresciuta: l’aveva conosciuta quando aveva dieci anni, lui diciannove, ed era il suo animatore in una di quelle colonie estive che organizzano le aziende per i figli dei dipendenti. Da quell’estate, quell’estate di vent’anni fa, quando tutto era facile come in un gioco, ne erano seguite altre sei. Ogni inverno era per lui un supplizio, un’agonia nell’attesa dell’estate e di poter finalmente riprendere a fare quel lavoro che amava tanto, a contatto con i bambini. Anno dopo anno, colonia dopo colonia, li aveva visti crescere, maturare, crearsi delle idee proprie e prendere consapevolezza di sé stessi, passando da bambini ad adolescenti fino ad essere adulti. E tra loro c’era stata anche Rebecca, l’unica che non aveva subìto alcun cambiamento. Certo, era cambiata molto nell’aspetto fisico, non vedersi per tutto l’inverno contribuiva ancora di più ad accentuare questi mutamenti. Diventava ogni anno più bella, ma poi finiva lì. Lei non era mai stata prima bambina e poi adulta, no, era da sempre entrambe le cose. Devota ai propri sogni, li inseguiva fin dalla loro nascita, sacrificando tutto il necessario per avverarli. Quando l’aveva conosciuta si era presentata con un fiero «Ciao, io sono Rebecca e da grande farò la ballerina», lasciando intendere che niente avrebbe potuto ostacolare quell’affermazione. Aveva solo dieci anni. Quando finiva una colonia, veniva messo in scena lo spettacolo finale e c’era sempre, sempre, almeno un balletto. Eppure tra le diverse ragazze che danzavano sul palco, chi meglio chi peggio, lei era quella su cui si puntavano meravigliati gli occhi di tutti, nonostante tentasse di mettere in risalto le altre compagne e la musica di sottofondo fosse la Macarena.                                                                                                                                  
A diciassette anni, poi, lo aveva contattato chiedendogli di darle delle ripetizioni di matematica. Voleva concludere quell’anno scolastico in modo da poter poi partire e esprimere il suo talento per il mondo. Quell’anno si erano incontrati ogni settimana: pranzavano insieme, a casa di lui, e terminavano il pasto con i muffin che Rebecca comprava in una delle panetterie più care di Torino. Poi affrontavano due estenuanti ore di matematica, a cui avrebbe volentieri rinunciato dopo la prima lezione, se non si fosse trattato di lei. Quando finivano, la osservava allungare il braccio e gli porgergli i soldi che doveva: erano dieci euro all’ora, ma lui gliene restituiva sempre cinque, «per i muffin» ribatteva al suo sguardo arreso. In realtà, il miglior pagamento che potesse chiedere gli veniva dato proprio in quel momento: lei si alzava dal tavolo, sfiorandogli un braccio nel mentre, e si stiracchiava, contenta che quel supplizio fosse finito. Poi afferrava Gipsy, il suo gatto, che all’epoca aveva un paio di mesi, e piroettava per tutto il salotto tenendolo stretto fra le mani. Era lo spettacolo più bello del mondo. Era ancora più emozionante, però, vederla buttarsi di peso sul suo letto, quello che i suoi amici neppure sfioravano, perché sapevano quanto gli desse fastidio che qualcuno oltre lui lo usasse. Lo sapeva anche lei, eppure ci si gettava sopra con slancio, sistemandosi Gipsy sullo stomaco. Davide si appoggiava allo stipite della porta e li guardava rapito, scuotendo la testa con una piccola risata quando la piccola palletta di pelo avanzava fino al morbido petto di Rebecca e cominciava a traballare. Poi li raggiungeva, si sistemava tra lei e il muro, facendo aderire la sua schiena al proprio petto e lasciando che Gipsy incespicasse tra i loro fianchi. Era una cosa che facevano da quando lei era piccola, dormire insieme. Era successo tutto quando, l’anno in cui l’aveva conosciuta, per sbaglio si era addormentato nel suo letto. Ogni sera si faceva la ronda notturna, a turno, e quel giorno era toccata a lui. Sebbene odiasse quel compito, adorava fermarsi nelle camere delle ragazze e chiacchierare degli altri compagni. Per avere solo dieci anni, erano delle vere pettegole quando volevano, ma era esattamente quello che lo divertiva. Rebecca, al contrario di loro, stava zitta e ascoltava, per ciò lui sceglieva sempre di sedersi sul suo letto. In quei pochi centimetri di distanza che c’era tra loro scorrevano pensieri, tacite domande e mute risposte che si scambiavano fingendosi interessati ai pettegolezzi sui “ragazzi”. E poi si era addormentato. Non ricordava come era successo, ma il risveglio sì, quello se lo ricordava benissimo. Aveva aperto gli occhi e aveva notato subito qualcosa di strano: la luce del sole non arrivava dal lato giusto. Lo aveva capito in fretta perché nella sua stanza aveva scelto il letto che non veniva colpito dal chiarore. Cosa che invece stava succedendo. Poi i suoi occhi avevano incontrato un cuscino troppo basso per i suoi gusti, di quelli che venivano distribuiti ai bambini e che misuravano circa due centimetri di spessore. Ecco perché aveva portato da casa il suo. E infine una massa di capelli tra il biondo e il castano, di un colore che non avrebbe identificato neanche negli anni a seguire. Avevano un buon profumo. Aveva appena alzato la testa dal cuscino, prima di saltare a sedere per lo spavento. Rebecca dormiva tranquilla, il petto che si alzava e abbassava al ritmo lento del suo respiro… sul bordo del letto! Si fosse mossa di mezzo centimetro sarebbe caduta, e proprio mentre formulava questo pensiero lei si era girata, affondando il viso nel suo petto. Continuava a dormire sul bordo.                                                                                                                    
 
A quella notte ne era seguita un’altra, esattamente allo stesso modo. Quella dopo, invece, era stata leggermente diversa. L’aveva beccata che tentava di sgattaiolare fuori dalla struttura alle due del mattino. Le aveva chiesto dove volesse andare, e lei aveva risposto con un’alzata di spalle che voleva soltanto fare un bagno in piscina, perché non riusciva a dormire. Alla sua faccia sbalordita aveva continuato dicendo che non era la prima volta che lo faceva. Era la prima colonia di Davide, lei aveva dieci anni e quella era l’ottava notte. In preda a non seppe neppure lui quale delirio la prese per mano e la condusse in una stanzetta molto più piccola delle altre. Era la sua camera da letto. La condivideva con un altro animatore, che fortunatamente non era ancora rientrato dalla sua serata libera. Aveva detto a Rebecca che se non riusciva a dormire si sarebbe potuta fermare lì. Lei gli fece un largo sorriso e si distese sul letto. La raggiunse subito dopo aver infilato anche lui il pigiama (un semplice paio di pantaloncini consumati del Toro). Si sistemò dietro di lei, tra la sua schiena e il muro. Le avvolse un braccio intorno alla vita, perché, per tutta la notte, dormì sul bordo del letto. Come avrebbe continuato a fare per anni a seguire.                                                                                                                              
Ogni inverno trascorreva in preda all’agonia che portava l’attesa dell’estate. Non vedeva l’ora di poter incontrare di nuovo i suoi ragazzi, scoprire se erano cambiati e di accorgersi che erano cresciuti. Balle. Sapeva benissimo che l’unica che davvero non vedeva l’ora di rincontrare era lei. Una mattina, nell’estate in cui avevano rispettivamente sedici e venticinque anni, si erano alzati tutti quanti, animatori e ragazzi, alle quattro del mattino per vedere l’alba che, con molte proteste da parte dei suoi spettatori, era poi uscita alle sette e mezza. Era stato poi concesso di dormire fino alle undici e mezza, cosa che aveva sollevato gli animi di molti. Lui e gli altri animatori naturalmente avrebbero dovuto lavorare mentre i ragazzi riposavano. Non avrebbe dovuto sorprendersi di trovarla fuori dal letto, in fondo si aspettava che andasse contro ciò che era stato detto loro. Aveva passato circa un quarto d’ora a guardarla, da dietro una piglia, sotto il sole, mentre lei ballava in un piccolo salone dove di solito si radunavano tutti quanti per svolgere delle attività insieme. Era avvolta da un ritmo latino, lei che amava tutti gli stili esistenti al mondo, e ballava con la massima concentrazione e allo stesso tempo spensieratezza possibile. I capelli sciolti che ondeggiavano in ogni direzione, il costume da bagno allacciato dietro il collo, pantaloncini di jeans inguinali e piccoli cuscinetti sotto le piante dei piedi per non farsi male quando atterrava dopo una rondata in aria.                                                                                                     
Aveva sedici anni e la forza della natura scorreva nelle sue vene.                                                                                    
Sarebbe stato il loro ultimo anno insieme, in quella piccola cittadina lontana da tutti, solo loro, amici e tanto divertimento. Non sapeva più a quale santo rivolgersi per poter trascorrere ancora un’estate con lei. Non aveva motivo per contattarla durante l’inverno, non era mai accaduto. E quale motivo aveva per farlo, poi?  Erano stati animatore e “animata”, nulla di più. Ogni volta che formulava quel pensiero il suo cuore moriva.               
Quando, l’anno dopo, lo aveva chiamato per quelle famose ripetizioni di matematica era andato nel panico più totale: cos’erano adesso? Eppure ritrovarsi era stato più facile che respirare, più vero di un sogno. Era come se avessero ripreso ad essere sé stessi, solo in un altro contesto. Poi però, la scuola era finita, le lezioni terminate e lei non c’era più. Erano passati quattro anni. Quattro lunghissimi anni. Lui si era laureato, era partito per l’Irlanda ed era diventato assistente sociale.  E lei era di nuovo lì, di fronte a lui, in una locandina che la raffigurava leggiadra e fiera tra le braccia di un ballerino, che la stringeva a sé con delicatezza. Aveva esaudito il suo sogno.                                                                                                                                                                    
«Ehi, tu! Scusa, mi senti?». Una voce lontana lo riportò a galla dai suoi pensieri. Si girò più volte, prima  a sinistra, poi dietro, e in ultimo a destra, scontrandosi con la figura di una giovane ragazza. I capelli, dal colore della buccia di una arancia, le ricadevano spettinati sulle spalle, una ciocca fuggiasca sul petto. Naso dritto, pelle avorio, occhi enormi e verdi come prati e bocca sottile. L’insieme, però, era un misto di preoccupazione. «Scusa, cosa?» chiese stordito.                                                                                                                                              
«Ti ho chiesto se va tutto bene…»                                                                                                                                       
Lui la guardò sorpreso. «Sì… perché?»                                                                                                                                 
La faccia della ragazza si aprì in un piccolo sorriso, senza cancellare l’aria preoccupata. «Perché è da quasi mezz’ora che fissi quel cartello».

Buongiorno!

Allora... questa storia è in realtà basata su un'esperienza personale, che mi è successa... be', da molto poco. Vi si concentrano diversi temi, tra cui la danza, che è una cosa senza cui personalmente non potrei vivere. Che dire... spero che vi piaccia e nel caso in cui voleste lasciare qualche commento, sappiate che vi ringrazio tantissimo!
Rebecca
  
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