Anime & Manga > Kuroko no Basket
Segui la storia  |       
Autore: Ortensia_    18/08/2014    3 recensioni
«Ricordi sbiaditi, luci soffuse, amori spezzati e ombre evanescenti. Il tempo si porta via tutto: anche le nostre storie.» — Dal Capitolo IV
Sono passati alcuni mesi dalla fine delle scuole superiori, e ogni membro dell'ex Generazione dei Miracoli ha ormai intrapreso una strada diversa.
Kuroko è rimasto solo, non fa altro che pensare ai chilometri di distanza fra lui e Kagami, tornato negli Stati Uniti.
Tuttavia, incontrato uno dei suoi vecchi compagni di squadra della Teiko, Kuroko comincia una crociata per poter ripristinare la vecchia Gerazione dei Miracoli, con l'aggiunta di nuovi membri, scoprendo, attraverso un lungo e tortuoso percorso, realtà diverse e impensabili.
«La Zone era uno spazio riservato solo ai giocatori più portentosi e agli amanti più sinceri del basket, era, in poche parole, la Hall of Fame dei Miracoli.» — Dal Capitolo VII
[Coppie: KagaKuro; AoKise; MuraHimu; MidoTaka; NijiAka; MomoRiko; forse se ne aggiungeranno altre nel corso della fanfiction.
Accenni: AkaKuro; KiseKuro; MiyaTaka; KiMomo; KuroMomo; KagaHimu.
Il rating potrebbe salire.]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Yuri | Personaggi: Altri, Ryouta Kise, Satsuki Momoi, Taiga Kagami, Tetsuya Kuroko
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Hall of Fame'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
L'angolino invisibile dell'autrice:

Ooook, ci siamo.
Innanzitutto vi chiedo scusa: avete aspettato tanto e per cosa? Per un capitolo cortissimo e pure piuttosto … scialbo? Non so bene quale termine sia meglio utilizzare, ma non ne sono convinta.
Gestire un capitolo con due soli personaggi (due personaggi che non so muovere, vorrei precisare) è stato molto difficile.
Spero che a voi piaccia più di quanto piace a me: ci sentiamo a fine capitolo, visto che avrò ancora qualcosina da dire!




Capitolo XX





Le anime si sfaldano, lentamente cadono a pezzi: tutti hanno paura di morire.

Conosceva bene quel rumore: era puntuale, cresceva a poco a poco e così, gradualmente, anche l'atmosfera nella stanza pareva alleggerirsi, e poi scemava in un sordo brontolio sotto la finestra sterile, oltre le tapparelle appena sollevate per permettere alla fredda luce invernale di illuminare un angolo del letto.
Quello era il suono che lo svegliava la mattina, ed era meglio di qualsiasi altra cosa, perché lo avvisava dell'arrivo imminente dell'unica persona che lo faceva stare bene.
Quando il rombo della moto si affievolì fino a perdersi in un'eco destinata a spegnersi, immaginò che scendesse con un po' di fretta dalla Harley-Davidson e si togliesse il casco con un gesto di stizza - non perché fosse arrabbiato, ma perché aveva fretta, e ormai, lui lo sapeva, lo aveva capito, aveva l'apprensione che scalpitava fino alla punta delle dita -, poi lo vide stringersi nella giacca di pelle e sospirare contro il vento gelido della Svizzera - perché era inverno e le temperature dovevano essere molto più basse di quelle giapponesi, e anche se lui non poteva provarlo sulla sua pelle, era convinto che dovesse fare un gran freddo -, finché non se lo figurò mentre faceva il suo ingresso nella clinica, contando i passi che dalla soglia lo separavano dall'ascensore, e poi contando i piani, e ancora i metri di distanza fra la gabbia metallica e la sua stanza.
Quinto piano, in fondo al corridoio a destra.
C'era voluto un po' di tempo per abituarsi all'ambiente, per accettare la situazione, ma la collocazione della stanza l'avevano imparata immediatamente e non avevano fatto altro che ripeterla, da mesi era il loro mantra, un pane quotidiano che, purtroppo, aveva crosta e mollica avvelenati.
«Stai già studiando?»
Qualunque fossero le prime parole della giornata, gli bastava ascoltare la sua voce per ritrovare un po' della forza persa quando si ritrovava solo con se stesso, con le sue congetture e, a seconda dei giorni, il suo ottimismo smisurato o il suo pessimismo più che giustificato ma poco salutare per l'organismo e decisamente sconsigliato da chiunque gli stesse intorno.
«Sono appena le nove, non dovresti sforzarti così tanto.»
Sì, il rombo prolungato e brusco di quella moto, che molti parevano non gradire affatto, era il suono che lo svegliava ogni mattina e che era meglio di qualsiasi altra cosa.
«Sto meglio, vedrai che non mi stancherò. E poi ho appena iniziato.»
Meglio di qualsiasi altra cosa, perché era il suono che preannunciava l'arrivo di Nijimura.
Akashi era determinato, sicuro di vincere quella sfida, ma il silenzio dell'altro portò la sua attenzione lontana anni luce dalle pagine del libro che stringeva fra le mani e teneva poggiato al petto.
«Stai pensando che non resisterò più di un paio d'ore, vero?» lo incalzò Seijuurou.
Shuuzou restò in silenzio.
Dopotutto lo sapevano entrambi che gli sforzi di Akashi erano vani e che si sarebbe stancato presto: stava lottando da mesi contro qualcosa di più grande di lui, qualcosa che scorreva nel suo sangue e non voleva andarsene, qualcosa che gli risucchiava le energie e che a poco a poco lo aveva sciupato.
Akashi era sfiorito, e se non gli fosse rimasto accanto per tutto quel tempo, Nijimura avrebbe fatto fatica a riconoscerlo.
«Hai fatto colazione?»
«No.»
Nijimura sospirò spazientito, ma non disse nulla: ormai aveva capito che non era colpa sua, rifiutare il cibo non era un capriccio, ma solo una normale conseguenza della terapia, l'effetto collaterale degli antitumorali.
Akashi tornò al suo libro: non gli piaceva che Nijimura lo tempestasse di domande, soprattutto se riguardavano il suo stato di salute, quindi preferì riprendere con la lettura di un'antica poesia giapponese.
Shuuzou si comportò come al solito: barcollò fino alla finestra, sollevò lentamente le tapparelle, per dare modo agli occhi dell'altro di abituarsi alla luce del sole, e poi tornò al suo posto, assorto nei propri pensieri e senza mai staccare gli occhi dalla figura silenziosa e smagrita di Akashi.
La leucemia aveva portato via la madre di Seijuurou molti anni prima, ed ora aveva intaccato anche il sangue dell'unico erede della famiglia Akashi, ormai decaduta.
Si erano messi insieme due mesi prima della fine della terza superiore, poco dopo che Nijimura aveva fatto ritorno dagli Stati Uniti, e subito dopo aver terminato l'anno, Akashi si era trasferito da lui e aveva definitivamente rotto con suo padre. Verso la metà di giugno, però, aveva cominciato a soffrire di un male sconosciuto: aveva la febbre alta, i brividi, e da un primo esame era risultato affetto da anemia, il che aveva fatto insospettire i medici che avevano analizzato la situazione più a fondo e gli avevano diagnosticato la leucemia.
Quella di Akashi era la leucemia mieloblastica acuta, un tipo abbastanza diffuso e meno pericoloso di quello che aveva portato via sua madre.
Preferendo tenere da parte i soldi che miracolosamente era riuscito a sottrarre alle grinfie del padre, - era stato proprio lui a versarli sul conto del figlio in quegli anni, ma era probabile che avesse intenzione di attingere a quella ricchezza per estinguere almeno in parte i suoi debiti -, Akashi aveva optato per l'ospedale pubblico e aveva cominciato le prime cure, che consistevano in trasfusioni di piastrine e trapianti di midollo osseo; la scelta di partire per la Svizzera e sottoporsi alle cure di una clinica privata era sopraggiunta solo a fine luglio, quando il dottore gli aveva annunciato per l'ennesima volta che non c'erano miglioramenti e aveva ipotizzato che l'aria di montagna e le cure specialistiche avrebbero potuto aiutarlo - dopotutto, nonostante si trattasse di un ospedale pubblico e la sua famiglia fosse caduta definitivamente in malora, il cognome degli Akashi si conosceva, aleggiava ancora sulle labbra delle persone e pareva magicamente ammantato di un'immagine che si apprestava a perdere la propria positività ma che ancora la conservava -.
Condividendo lo stesso male che tanti anni prima aveva portato via la sua unica ragione di vita, Akashi si era trovato in uno stato di prostrazione mai conosciuta: si era sentito pericolosamente vicino a lei, non c'era cosa che non la riguardasse, dalle fronde scure che, smosse dal vento, scorgeva muoversi freneticamente oltre i vetri delle finestre, all'odore speziato e intenso di alcool.
I medici gli avevano ribadito più volte che la salute fisica del paziente dipendeva in gran parte dal suo cervello, e se c'era uno che aveva una raffinatissima abilità nel convincersi di essere invincibile, quello era proprio Akashi, ma trovarsi lontano da casa, chiuso in una stanza bianca, a combattere contro il male che aveva portato via sua madre e senza un padre lo aveva abbattuto più del previsto, e la situazione era peggiorata dal momento in cui il dottore gli aveva prescritto, come unica soluzione rimasta, la chemioterapia.
Era stato grazie a Nijimura che aveva recuperato la sua determinazione e la sua sicurezza: dal momento in cui lo aveva sorpreso mentre piangeva in silenzio, accanto al suo letto, Akashi aveva deciso di combattere per lui, di combattere contro la malattia nonostante non avesse ottenuto ancora nessun risultato positivo.
Aveva perfino cominciato a studiare, anche se non sapeva se e quando sarebbe potuto tornare a casa: voleva andare all'università, voleva studiare le lingue e la letteratura, e nel mentre sia lui che Nijimura avrebbero cercato un lavoro per pagare l'affitto di una piccola casa e per mettere da parte qualche soldo per un'abitazione più grande e un futuro più bello.
Era una fortuna che i dottori avessero capito che la fonte della forza di Akashi era Nijimura: da almeno un mese, Shuuzou aveva il permesso di venirlo a trovare a qualsiasi ora del giorno e, se voleva, poteva restare anche per tutta la notte e per una settimana intera senza mai tornarsene in albergo.
Era l'unico davanti al quale Akashi non aveva paura di mostrare anche il lato più vulnerabile, le palpebre stanche e arrossate, le labbra screpolate o i capelli più fini e radi a causa delle medicine e degli antibiotici, così come non si sentiva debole nel dirgli che no, per l'ennesima volta non aveva mangiato e che subito dopo la seduta aveva vomitato.
«Domani alle undici mi faranno l'esame del sangue e poi la radiografia.»
Nijimura rimase ad osservarlo in silenzio, un po' sorpreso di sentirlo parlare di nuovo, visto che gli sembrava assorto nella lettura di quella poesia - forse, però, era tutta apparenza; non lo si poteva biasimare, dopotutto, se in quella condizione non riusciva a concentrarsi su ciò che faceva -.
La chemioterapia presentava sempre molti effetti collaterali, e Akashi, in particolare, era sempre molto stanco, aveva perso quasi del tutto l'appetito e il sonno, e solo ogni tanto, pur essendo una delle conseguenze più comuni, rimetteva.
Quando gli sentiva dire che stava meglio, come quella mattina, ad esempio, Shuuzou cercava sempre di rimanere con i piedi ben puntati per terra: sapeva che non bisognava illudersi, il dottore gli aveva spiegato immediatamente che il benessere del paziente non era strettamente collegato alla buona riuscita dei cicli di chemioterapia, che i veri risultati si poteva ottenere solo dagli esami medici ai quali Akashi veniva sottoposto sempre più spesso.
Il tonfo sordo del libro che veniva chiuso lo fece sobbalzare e riportò i suoi occhi sulla figura di Akashi: doveva dirgli qualcosa, forse era per quello che non riusciva a concentrarsi nella sua lettura.
«Ieri sera Tetsuya mi ha telefonato di nuovo.»
«Quando?»
«Quando sei andato a parlare con il dottore.»
Possibile che tutte le cose interessanti capitassero quando lui non si trovava lì? Gli bastava assentarsi per dieci minuti o poco più per perdersi gli unici accadimenti interessanti.
«Dovresti parlargli.» Nijimura era sempre stato di quell'idea e anche in quel momento non perse l'occasione di ribadirglielo: Akashi non aveva ragione di provare così tanta frustrazione verso gli ex Membri della Generazione dei Miracoli, non aveva senso vergognarsi del suo stato di salute, visto che non era colpa sua, non dipendeva da lui e loro, di certo, non avrebbero riso della sua condizione, visto che ormai erano tutti persone adulte e responsabili - più o meno -.
Nijimura voleva che Akashi si mostrasse meno inflessibile nei confronti di quelle telefonate: Midorima, Kuroko e tutti gli altri erano preoccupati, volevano sapere di lui e avrebbero potuto dargli qualche notizia, avrebbero potuto parlargli del basket e magari fargli tornare la voglia di giocare, incitarlo a combattere e a stringere i denti.
Ad Akashi mancava terribilmente il basket, più di ogni altra cosa. Accanto al letto, al posto dei fiori, c'era il pallone a spicchi, e più volte lo aveva sorpreso ad osservarlo attentamente, immerso in chissà quale fantasia.
Dopo tutti quei mesi passati a letto e dopo la chemioterapia, che lasciava sempre molta stanchezza nel paziente, sarebbe stata dura ricongiungersi al basket, anche per un giocatore del calibro di Akashi, e lui lo sapeva, ne era stato consapevole fin dall'inizio.
«Gli ho parlato.»
La voce imperturbabile di Akashi riecheggiò nella grande stanza sterile; Nijimura sussultò e gli rivolse un'occhiata silenziosa, incitandolo ad andare avanti.
«Sapevo che non si sarebbe arreso.» e in un certo senso, dopo averci ragionato per settimane, - dalla telefonata di Midorima -, Akashi aveva capito che non valeva la pena di nascondere la sua condizione, soprattutto ad una persona ragionevole come Kuroko.
«Alla fine gliel'ho detto.»
Nijimura rimase in silenzio e si afferrò il mento fra le mani, pensieroso, sfiatando flebilmente: chiedere come l'avesse presa Kuroko sarebbe stato inutile, perché in una condizione simile si poteva prevedere facilmente ogni possibile reazione - oltretutto, pur riuscendo ad immaginarne di diverse, erano tutte molto simili -.
«C'è qualcosa che vogliono chiedermi.» Akashi fece una piccola pausa e sfregò appena la schiena contro il grande cuscino, sistemandosi al meglio «c'è qualcosa che vuole chiedermi, lo so, ma Tetsuya è stato sorpreso dalla notizia della leucemia e non l'ha fatto.»
«Di cosa potrebbe trattarsi?»
Seijuurou restò in silenzio e guardò il muro bianco che, immenso, si stagliava a qualche metro dai piedi del suo letto: era quasi certo che Tetsuya volesse parlare della Generazione dei Miracoli, che fossero già tutti coinvolti e che, in silenzio, aspettassero.
«Dell'unica cosa che ci tiene ancora legati.»
Shuuzou aggrottò la fronte e arricciò le labbra, infastidito dallo stridio che nacque dall'attrito delle parole dell'altro con l'aria tiepida della stanza: probabile che si trattasse del basket, magari di una questione del passato rimasta irrisolta, ma che quella fosse l'unica cosa a tenerli legati- ed era sicuro che Akashi non si riferisse solo al suo legame con Kuroko, ma anche al resto della leggendaria Generazione dei Miracoli -, era un enunciato che la mente del più grande catalogò come “fuori dal mondo” o qualcosa del genere.
Senza dubbio, la pallacanestro costituiva un legame indissolubile che teneva ognuno di loro stretto agli altri, anche contro la propria volontà, ma Nijimura sperava ardentemente che i rapporti fra gli ex membri della Generazione dei Miracoli andassero oltre un pallone da basket, che lo scambiarsi due parole fosse dettato dal sentimento dell'amicizia, piuttosto che dalla necessità di fare lavoro di squadra durante una partita di allenamento. In passato li aveva visti frantumarsi, dividersi, era stato partecipe dei primi scontri, spettatore dei primi silenzi e della discesa silenziosa verso la rovina, e poi aveva conosciuto, almeno in parte, il gusto amaro delle amicizie perdute, chiuse in un cassetto e all'apparenza irrecuperabili: il basket era stato il loro veleno e non era sicuro che fossero riusciti a trovare un antidoto, per cui era preoccupato della possibilità che Kuroko volesse parlargli proprio di quello, era turbato, non voleva che l'antico e pesante clima d'astio tornasse a diffondersi non appena Akashi sarebbe tornato a Tokyo. Perché sarebbe tornato, anzi sarebbero, e questo ormai lo dava per scontato.
Forse era una sciocchezza, ma Nijimura credeva talmente tanto nell'effetto della mente sull'organismo che anche lui si era dato una scossa e si era deciso ad essere sempre il più ottimista possibile, si era convinto che così avrebbe facilitato una visione positiva delle cose anche ad Akashi.
«Immagino che si farà risentire, comunque.» Akashi aprì nuovamente il libro e sfogliò poche pagine, ritrovando quasi subito la poesia abbandonata poco prima «magari saprò di cosa si tratta proprio questa sera, o anche domani. Non importa, non ho fretta.» anche perché non c'era posto dove potesse andare ed era perfettamente cosciente che la sua condizione rendeva lontana anni luce la possibilità di riprendere col basket - sempre se di quello si fosse trattato -.
«Sicuramente lo farà non appena uscirò dalla stanza.» Nijimura borbottò e Akashi gli rivolse un piccolo sorriso divertito, poi gli occhi scarlatti vagarono lentamente nella sclera bianca e divennero definitivamente lo specchio di quella pagina. Mentre riprendeva la lettura, però, Akashi sentì che quelle parole erano estranee, come pioggia risuonavano lontane, cadevano lente nell'ammasso freddo e nero del silenzio, che aveva come unica funzione quella di ingabbiare i suoi pensieri e separarli da quelli degli altri.
Cocciuto e imperterrito rilesse ancora una volta quelle due righe e poi si fermò al punto, cercando di scacciare via il pensiero che gli martellava nella testa ma che, come effetto collaterale, si ripresentò con più vigore di prima: finalmente suo padre aveva smesso di chiamare la clinica.
Non capì perché gli fosse venuto in mente un pensiero simile in quel momento, mentre cercava di riempire la sua mente con più nozioni possibili proprio per scacciare via i tormenti personali e, soprattutto, l'immagine del padre, ma da almeno un mese a quella parte, ogni volta che ci rifletteva su, si rasserenava almeno un poco.
Era nauseante sapere che, fino ad un mese prima, suo padre lo aveva chiamato soltanto per i suoi interessi, forse per chiedergli dei soldi in prestito o magari per ordinargli di tornare a casa, per rinfacciargli che col suo comportamento da immaturo ed incosciente aveva disonorato il nome degli Akashi. A dire il vero aveva solo immaginato che le motivazioni delle sue chiamate fossero quelle, ma conoscendo suo padre le sue ipotesi erano molto probabili; non gli importava cosa volesse, e per questo aveva rifiutato tutte le chiamate: non aveva intenzione di tornare indietro, non sarebbe tornato da quell'uomo arido e triste neppure se lo avesse supplicato in ginocchio.
Era buffo che la voce di sua madre, a distanza di anni, gli mancasse ancora e che, invece, non avesse sentito la necessità di quella di suo padre neppure per un secondo: lo odiava, lo odiava davvero e da quando era nato, per quanto riusciva a ricordare.
Fin da piccolo, Akashi era stato detentore di una spiccata intelligenza, era un bambino eclettico e dalle mille risorse che, oppresso dalle manie di onnipotenza del padre, aveva conosciuto in tempi fin troppo brevi cosa fosse l'ambizione, aveva promesso di non fallire mai, ma la paura di diventare come quell'uomo, che non aveva neppure mai pianto per sua madre, gli aveva permesso di mantenere una certa distanza, seppur minima, e un po' di lucidità, nascosta in un remoto angolo dell'animo e in attesa di uno scossone che potesse ridestarla. Era stato proprio Kuroko a dargli quello scossone, proprio lui lo aveva aiutato a compiere il primo passo per allontanarsi dallo spettro autoritario del padre; dopo di che, Akashi aveva continuato da solo, e poi con il sostegno di Nijimura, riuscendo finalmente a liberarsi da quelle catene che per lungo tempo gli avevano impedito di godere della spensieratezza dell'infanzia, delle scoperte giovanili e della passione per il basket - sempre più insana, sempre più logorante -.
Se doveva essere sincero, senza suo padre si sentiva più libero che mai - benché arginato nella stanza sterile di una clinica in Svizzera, inchiodato a letto dalla leucemia -.
L'irruente e confuso sciabordio dei suoi pensieri venne interrotto non appena avvertì le dita tiepide di Njimura sfiorargli la fronte, scostargli i capelli.
Seijuurou chiuse gli occhi e, come al solito, cercò di imprimersi nella mente tutta la marea di emozioni che potevano scaturire da un semplice bacio sulla fronte e che, addirittura, rimanevano indelebili anche per giorni.
Nijimura si annoiava, e dopotutto non poteva biasimarlo: ormai era diventato una sorta di assistente personale e conosceva tutti i medici del reparto, quindi si era ambientato perfettamente, ma passare quasi tutto il giorno su una sedia, a guardarlo mentre studiava o mentre dormiva, e quindi senza poter parlare, doveva essere alquanto noioso, per cui ogni volta che Shuuzou decideva di lasciare la stanza, Seijuurou lo lasciava andare cercando di indovinare entro quanto tempo sarebbe ritornato: in quel momento, ad esempio, pensò che si sarebbe ripresentato due ore dopo, per dargli il tempo di studiare e assicurarsi che non si stancasse troppo.
Akashi combatté ancora per qualche istante con il pensiero di suo padre, poi, complice il silenzio piombato nella stanza e l'assenza della sagoma di Nijimura, che era quasi sempre fonte di distrazione, riprese a leggere e cominciò a capire.


Nijimura non conosceva a menadito solo l'interno della clinica, ma anche i dintorni e soprattutto il piccolo bosco oltre la strada, che era stato più e più volte lo scenario delle sue lunghe passeggiate e il custode dei suoi pensieri.
Quella mattina più di altre, perseguitato dagli spettri del passato e tormentato da quel rapido e disordinato accavallamento di ricordi nella sua testa, sentì il bisogno di addentrarsi nel boschetto e restare solo con se stesso, al freddo e nel silenzio.
Non appena i primi alberi, più piccoli e più spogli degli altri, come se essendo ai margini - e quindi più esposti al vento e alla pioggia - fossero rovinati e schiacciati dal peso degli anni, fecero ombra su di lui, lo scatto della zip crepitò nell'aria silenziosa e riecheggiò come un tuono in quel piccolo universo silenzioso.
Nijimura inspirò appena e assaporò l'odore umido delle felci lungo il sentiero e delle fronde più alte, congelate dall'aria spinosa e fredda. Era un'umidità secca, le narici e la bocca si congelavano ad ogni respiro, la gola si inaridiva, le labbra si screpolavano: presto sarebbe arrivata la neve.
In quel momento si chiese se Akashi avesse mai visto la neve, e il che era ridicolo visto che Seijuurou aveva solo un anno in meno di lui e, anzi, aveva trascorso anche più tempo in Giappone rispetto a lui, che alla fine delle medie era volato negli Stati Uniti per assistere suo padre.
Akashi era riuscito ad affrontare la malattia anche meglio di lui, in quei mesi, eppure non poteva fare a meno di considerarlo inerme come un bambino, sentiva la necessità costante di prendersi cura di lui, di proteggerlo anche quando non ce n'era davvero bisogno.
La paura di perdere Akashi, che si era insinuata in lui non appena gli avevano diagnosticato la leucemia, non lo aveva più lasciato e alcune volte si ripresentava con più forza e violenza, lo schiacciava, gli toglieva il respiro. Dopo tutti quei mesi passati a lottare senza ottenere neppure un briciolo di miglioramento, era ovvio che fossero entrambi stanchi, era normale avere la sensazione che la speranza scivolasse come acqua fra le dita, ma cercavano in qualche modo di farsi forza fra di loro, perché dopotutto a Shuuzou non rimaneva altro che Seijuurou, e così era anche per l'altro.
Avrebbe voluto chiamare immediatamente Kuroko, perché in quei mesi non aveva atteso altro se non un segno dagli ex membri della Generazione dei Miracoli: aveva la sensazione che la loro ricomparsa avrebbe aiutato Akashi più del dovuto, in qualche modo ne avrebbero giovato entrambi, perché si sarebbero sentiti meno soli ed isolati.
Aveva paura che le sue premure non fossero più sufficienti per fare forza ad Akashi: c'era bisogno di qualcun altro, di Kuroko soprattutto.
Nijimura sospirò spazientito e si strinse nella giacca di pelle, socchiudendo gli occhi ed immobilizzandosi al centro del sentiero, in ascolto del silenzio: doveva arrendersi all'idea che il pensiero di non essere abbastanza lo avrebbe perseguitato ancora per molto, forse per sempre. Dopotutto nessuno poteva essere abbastanza per Akashi.


Akashi sorrise impercettibilmente non appena lo vide varcare nuovamente la soglia della stanza, e questo perché aveva avuto ragione su entrambe le cose: Nijimura si era ripresentato dopo un paio d'ore e, soprattutto, il suo organismo aveva resistito allo studio, anzi sentiva di disporre ancora di qualche energia.
«Hanno chiamato?»
«No.»
«Che ore sono adesso, a Tokyo?»
«Le diciotto.»
Nijimura sospirò appena, pensando con sollievo che Kuroko avrebbe potuto telefonare da un momento all'altro e che almeno Akashi ci capiva qualcosa con i fusi orari.
«Come ti senti?»
«Non sono stanco.» ma Akashi chiuse il libro con tutta la calma del mondo e si lasciò scivolare lentamente nel calore e nella morbidezza delle coperte: gli conveniva comunque riposare un po', altrimenti Nijimura avrebbe continuato a chiedergli come si sentiva con l'espressione consunta dall'apprensione.
«Meglio così.» la mano del più grande scivolò e si insinuò fra le coperte stropicciate, in cerca di quella dell'altro. Akashi la afferrò, lasciò che le dita esili si intrecciassero a quelle forti di Nijimura e poi accennò un sorriso, inspirando profondamente e chiudendo gli occhi.
La voce di Nijimura la mattina era la cosa più bella, perché, qualsiasi cosa dicesse, Akashi recepiva un messaggio differente, un messaggio che celebrava la sua ennesima vittoria contro la malattia, il fatto che avesse superato un'altra notte - che fosse stata insonne o semplicemente piena di incubi -, un messaggio che lo esortava a combattere ancora, a non arrendersi fino a quando non avrebbe potuto uscire da quella stanza e poter percepire il vento freddo della Svizzera sulla sua stessa pelle.

Ma esistono persone che raccolgono i pezzi e li rimettono insieme, persone che con una carezza ti fanno passare la paura.




Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.




L'angolino invisibile dell'autrice II (?):

Ok, adesso lo sapete.
Non dite che non vi avevo avvertito, perché (lo ripeto per la centesima volta) questa storia segue le strade di ogni personaggio e si vuole concentrare soprattutto su come possano cambiare le cose (della serie che se vi sta andando bene, domani potrebbe andarvi male/viva l'ottimismo/o viceversa), e io ve l'avevo detto che non sarebbe stato un ingresso trionfale, anzi.
Cooomunque sia, non sono affatto soddisfatta del risultato, ma francamente non mi sentivo di mettere "su carta" un Akashi assoluto e intoccabile o un Nijimura dal sangue freddo e con la poker face (insomma, mettetevi nei loro panni).
Ci ho messo tanto a pubblicare un po' per insicurezza, un po' per problemi miei e un po' perché mi sono messa a fare ricerche sulla leucemia e sugli effetti collaterali della chemioterapia (che sono parecchi, ma mi sono concentrata più che altro sulla mancanza di sonno, di appetito e sulla stanchezza).
Spero che questo capitolo non mi costi l'abbandono di alcuni lettori, perché sicuramente alcuni (forse anche tutti) di voi saranno delusi eeee … beh, in tal caso vi prometto che mi rifarò.
Riguardo all'accenno di Nijimura in America, beh, è una cosa vera, visto che nella quinta light novel della serie ci viene raccontato proprio di Nijimura che va negli Stati Uniti per assistere il padre malato (e lì incontra Himuro, ma di questo parleremo fra qualche/leggasi: un centinaio/di capitoli).
Nel prossimo capitolo, che sarà più lungo, cercherò di dedicare uno spazio ad ogni coppia, quindi spero di scriverlo più velocemente e meglio di questo >-<
Alla prossima!
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Kuroko no Basket / Vai alla pagina dell'autore: Ortensia_