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Autore: Aleena    19/08/2014    6 recensioni
"Quando il ragazzo venne da me era tranquillo: non mostrava nessuno dei segni tipici dei malati mentali, né lo si sarebbe potuto etichettare come tale, vedendolo sedersi e sorridere con tutta la naturalezza di un giovane di ventott'anni. Solo un tremito ossessivo della gamba tradiva l'urgenza. Non appena chiusi la porta, cominciò a parlare. E man mano che la storia si svolgeva, i suoi modi cambiavano, fino a trasformarlo nella creatura miserabile che era quando l'abbiamo trasportato, urlante, qui"
Estratto di un’intervista contenuta in “Voci della follia: ventotto omicidi si raccontano” di E. Harond,
Capitolo III, seconda edizione, 2014.
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1a classificata al contest "Edite contest!" indetto da Aki sama e giudicato da _juliet sul forum di EFP.
6a al contest "Breve, anzi, brevissima!" indetto da Aurora_Boreale_ sul forum di EFP.
7a classificata al contest §°Un fiore per ogni personaggio°§ indetto da Scarlett.Brooks sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sometimes I slide away
Silently
I slowly lose myself
Over and over

 
Heaven, Depeche Mode
 
 

 
 

 
 
«Il senso di asfissia è il primo sintomo.
Le pareti ti si stringono addosso come un vestito familiare, tanto confortevole quanto odiato. Annaspi, cercando man mano quell’aria che sembra così lontana, così irrimediabilmente irraggiungibile. Coprire la distanza fino alla porta è una sofferenza, uscirne un’agonia: è il tuo nido, lo odi eppure ne hai bisogno.
È quando riesci a superare quel tremito di paura e a varcare la porta che cominci ad avvertire quanto profondamente qualcosa non vada: il senso di distanza, di irrealtà, aumenta. Non c’è nulla di vero o importante, niente per cui sia valsa la pena dello sforzo. C’è un muro d’aria tra te e gli altri, talmente opprimente che allunghi una mano cercando di immergerla in quel plasma invisibile. Quel che tocchi è solo il vento di quest’estate troppo fredda, e per un istante la sua bellezza selvaggia ti colpisce. Vorresti correre, scappare, uscire dal tuo corpo e allontanarti lungo le correnti come un uccello, come un fantasma.
È lì che cominci a pensare alla morte. Non te ne accorgi, all’inizio, ma l’idea è già nata, ossessiona la tua mente come un tarlo, scavando nei tuoi pensieri con un rumore sempre più forte. È un ronzio che ti accompagna come il sibilo di una zanzara, che ti succhia via ogni altro pensiero. Quando te ne accorgi sei nudo; letteralmente: immerso nel getto d’acqua troppo fredda del bagno di casa, avvolto da un sogno ossessivo o nel letto mentre ti masturbi pensando alla ragazza che non avrai mai, lo sai. Ed è mentre la mano si alza e si abbassa ritmica che la passione sfuma in qualcosa che somiglia alla nostalgia e alla rassegnazione, e che è solo gelosia e noia. Allora ti ritrovi a fissare il soffitto, bagnato d’acqua o sudore, a pensare al sangue che scorre impietoso nelle vene, a quel flusso vitale e invasivo. Il ronzio aumenta, la mano si sposta, tasta l’avambraccio quasi con la stessa ossessione con cui cercava l’orgasmo, ne saggia i punti delicati, i tendini tesi, le vene che pulsano al ritmo del cuore, leggermente accelerate mentre, ogni secondo di più, le tue dita le evidenziano, le tormentano. Ne bloccano il flusso.
Ma ancora non fai nulla. Non vuoi, non puoi, o forse lo trovi solamente stupido. Sei giovane, sei immaturo, e forse è veramente come dice tua madre, forse è colpa della televisione e dei videogiochi, così violenti, così follemente reali da far sembrare tutto un gioco, tutto semplice. Forse è solo un periodo. Passerà. Sei normale, un adolescente perfettamente anormale come tutti gli altri. Odi, ami, rimpiangi, provi invidia e pensi troppo, o troppo poco, o comunque non alle cose giuste. 
E intanto la vita scorre ancora, frenetica e assurda. La scuola, i compiti, i compagni di classe, il gruppo sportivo nel pomeriggio. Non sei una vittima dei bulli né un castigatore, e in effetti è il fatto di essere un perfetto nessuno che ti pesa di più. Invidi quei ragazzi perfetti e quegli sfigati che tornano a casa con l’odio nel cuore, invidi la normalità, la gioia semplice, il quieto vivere, l’amore sincero e quello violento, e tutte quelle fottute persone che vivono, vivono davvero, e te lo fanno pesare.
Le ragazze ti guardano, ma non ti deridono né ti cercano. Durante l’ora di ginnastica non sei né il primo né l’ultimo ad essere scelto, e giochi come il tuo fisico ti permette. Come chiunque altro. Hai degli amici, una vita. A metà del terzo anno trovi perfino una fidanzata, con cui scopi non tanto per passione quanto per moda, per aver qualcosa da raccontare durante la ricreazione. O almeno è quello che ti ripeti.
Non ti piace il sesso: ne hai sentito parlare troppo bene e per troppo a lungo che l’hai mitizzato, credendo che fosse un’esperienza unica e travolgente, che potesse farti provare tanto piacere quanto nessun’altra attività. E siccome quell’idea fatica a morire, una volta iniziato lo fai ancora e ancora, con la tua ragazza e poi con chiunque ti voglia, buttando via il tuo corpo come se non te ne importasse veramente. Cerchi solo quell’emozione che ti descrivono, quel travolgente “qualcosa” che può farti dimenticare le tue ossessioni, le tue pene, il dolore pulsante alla base dello sterno, l’angoscia. La tua noia.
Non lo trovi mai, ma continui, fermamente convinto che le speranze siano le ultime a morire, ma che di certo lo prendano in culo un sacco di volte nella loro lunga e tenace vita. E forse a loro piace anche.
Arrivi a pensare alle droghe. Non tanto alla sensazione di sballo, quanto al vuoto leggero che possono donarti, a quell’ovattato, psichedelico caos in cui non c’è nulla se non te stesso. Il tuo primo spinello ti brucia la gola e le labbra, facendoti tossire fino quasi a vomitare. Il secondo e il terzo ti lasciano solo rincoglionito e con le mani formicolanti. Il quarto lo fumi con un ragazzo vergine di due anni più piccolo, che ti accarezza il viso e il petto mentre ti bacia sul sedile posteriore della tua auto, parcheggiata sotto casa sua. Ed è ridicolo quando a beccarvi con il fumo fra le labbra e i corpi uniti non sono i suoi genitori, ma i tuoi.
La tua ragazza ti lascia, ma non te ne frega niente. Lui viene trascinato in un’altra città e tu scrolli le spalle. I tuoi ti chiudono in camera e per la prima volta dopo anni provi un tuffo al cuore, la sensazione di un battito accelerato.
Adrenalina.
Non è la prigione, ma la voglia di libertà. È il fantasma di quel primo pensiero che aleggia e, nei due giorni che i tuoi impiegano a trovare un buon centro di aiuto, riemerge più forte. Il pensiero del sangue che pulsa sempre più piano. Delle dita che chiudono le vene. Del dolce oblio negli occhi. Dell’odore metallico un istante prima della fine. Il sibilo. Quel rumore che ti ossessiona. La fine.
Al centro conosci disadattati con la pelle scavata dall’eroina, anoressiche che si piangono addosso e violenti del cazzo. Li detesti dal primo momento, e odi ammettere che invidi anche loro, che si ammantano della loro follia come di qualcosa di sacro, che scoprono sé stessi nel loro dolore.
Il recupero non ti aiuta, al contrario: ogni ora che passi lì aumenta la rabbia e la frustrazione, e dopo un mese tua madre corre a prenderti all’ospedale. “Suo figlio ha provocato l’uomo sbagliato” spiega il medico, e tu sorridi come un coglione, come il più stupido idiota del pianeta. Lei ti garantisce che non tornerai più in quel posto, che troverete una soluzione insieme.
È troppo tardi, lo sai tu, lo sa lei, anche se nessuno lo ammette.
A casa apatia e ira gareggiano, in un saliscendi di emozioni che ti fa sentire una dodicenne col primo ciclo. Tua madre urla e piange quasi al tuo stesso ritmo, e quando lo fa tu esci di casa e vaghi per le strade, osservando con ironia che, ora che non li cerchi più, il sesso e le droghe ti chiamano da ogni angolo buio, da ogni locale. Non ti interessano, non sono la soluzione.
Hai deciso, già deciso. Solo che non vuoi che sia indolore. Vuoi godere ogni istante, assaporarne ogni secondo. Progetti la morte con cura, cullandola come un’amante, cercandola in ogni istante, ossessivamente.
Forse ne sei davvero innamorato.
Non pensi mai di avere qualcosa che non va, non fino in fondo. Ti dici che una malattia mentale è una cosa da deboli, da persone che non sanno vivere nel mondo, da… bhe, da pazzi, per quanto sia ridondante. Arrivi a negare anche l’evidenza, a sorridere per non lasciar trasparire l’inquietudine, e forse nell’ultimo periodo sei perfino più aperto, più socievole, più allegro – come se sapessi che tutto sta per finire e volessi un briciolo di vita, un’ultima boccata, prima di dire addio.
Accarezzi solo per un istante l’idea del veleno, ma è una cosa da donne, e somiglia troppo alle droghe. Convulsioni, rantolii e poi il silenzio. Rapido, pulito, insensibile.
No, non ti piace.
Le lame hanno qualcosa di prosaico che ti attira, o forse è solo il loro bagliore mentre le estrai, nella fredda luce del neon in cucina. Le infili sotto il maglione e senti il freddo contro la pelle nuda, un gelo che ti dà un brivido di piacere folle, sfrenato, fulmineo. Non basta, ma non deve, no? È il preludio e te lo godi fino in fondo. Il piacere vero sta per arrivare.
Ti guardi intorno. È strano come alla fine le cose comuni paiono prendere consistenza, come se oggetti insignificanti all’improvviso si mettessero in mostra, allineandosi in una frenetica competizione per la tua attenzione. “Posa lo sguardo su di me. Fa che sia l’ultima cosa che gli occhi vedono.” paiono dire. E io voglio godere di ogni istante, perciò osservo.
Osservo le pareti di quel verde mela che sembra il sogno di un drogato. Osservo i ritratti di paesaggi inesistenti e di persone morte da tempo. Osservo le tende che si muovono nel vento leggero della primavera, ondeggiando fino al pavimento di legno macchiato del rosso plasma. Inspiro l’odore del sangue e guardo la pelle chiara e liscia, macchiata qua e là dalle lentiggini, di  mia madre. Ascolto l’eco del grido, le suppliche, lo spettro delle lacrime che bagna i visi della mia famiglia. Il riverbero della luce nei loro occhi. L’ombra lunga che disegnano le loro figure all’elettrica luce incolore. Il copriletto giallo candido, la porta beige socchiusa, i numeri rossi della radiosveglia che pulsano al ritmo della vita che si spegne. Sprazzi di luce, oggetti reali solo per un secondo, come se fossero illuminati dai lampi.
Flash.
Un bicchiere d’acqua sul comodino.
Flash.
Le scarpe abbandonate in un angolo, assieme ad un cambio di abiti che nessuno indosserà mai più.
Flash.
Il comò. Osservo le foto e i sorrisi congelati.
È solo alla fine che mi vedo riflesso nello specchio, una figura nuda e pallida, uno spettro con le mani macchiate di rosso che sorride come un bambino, il petto macchiato di petali purpora. Mi vedo come fosse la prima volta e mi trovo bellissimo e felice. Mi invidio, ma solo un poco. Sono solo e felice.
Aspiro una lunga boccata d’aria e l’aroma delle calendule si mischia al sentore di sangue e sudore, e penso che quello sia l’odore più bello del mondo, perciò esco in terrazza. In strada qualcuno grida, ma non ci faccio caso. No, non è importante, e il vento freddo della primavera si porterà presto via quelle voci. Contano solo i fiori. Li colgo e penso che sarei bellissimo con una ghirlanda al collo. Come in quel mito, quello del ragazzo con la corona di fiori. Adone? Non importa.
Ne poggio uno sul petto di mia madre, a coprire il buco che le squarcia la carne all’altezza del seno destro. Uno sul fianco di mio padre. Uno fra i capelli di mia sorella. E uno per me, che assaporo la libertà con una gioia selvaggia; a me, che ho acquietato il sibilo della gelosia e della noia con il sangue di chi amo. A me, che soffro e gioisco come solo un Dio può fare, nel silenzio più totale.
Solo io. La perfezione. Il dolore. La gioia infinita.
Riuscite a capirlo?
Perché nessuno di voi riesce a capirlo?»
 
 Estratto di un’intervista contenuta in “Voci della follia: ventotto omicidi si raccontano” di E. Harond,
 Capitolo III, seconda edizione, 2014.
 

 
Piccolo spazio-Me: questa storia è stata scritta per il contest "§°Un fiore per ogni personaggio°§". Il fiore che mi è stato assegnato è la Calendula (sotto e QUI trovate il suo significato), e il personaggio che ne è venuto fuori è il ragazzo di cui avete appena letto. Sinceramente, ho affrontato la storia con un po' di timore: all'inizio volevo creare un racconto in cui un apparente suicida si rivela essere un assassino, come è stato (mi piacciono i racconti in cui le cose non somo mai quelle che sembrano, ho idea che ti aprano la mente), poi ho deciso che, in linea con il significato del fiore, il mio personaggio dovesse essere più profondo, più pieno di contrasti, più "fuori dagli schemi comuni", se mi passate il termine :D non so se sono riuscita a renderlo tale, era la mia prima prova con la tematica estremamente delicata, a mio parere, dei disturbi mentali... mi farete sapere :D 
Ah, ovviamente non esiste il "libro" da cui sembra essere estratto il testo :D titolo e autore sono completamente di mia invenzione (ho controllato :D ). Mi piaceva che fosse il mio stesso protagonista a raccontarvi la sua storia, e questo mi è sembrato il modo migliore ;)
A presto!

Piccolo estratto del significato del fiore Calendula (ho sottolineato i tratti che ho usato nella storia):
“… il fatto che i fiori si aprissero al mattino per richiudersi al tramonto, era considerato un simbolo di sottomissione e di dolore per la scomparsa del sole, questa credenza ha fatto si che la calendula sia stata associata nel corso dei secoli ai sentimenti di dolore, noia e pena. (…) Per la credenza che la calendula fosse un simbolo di dispiacere, nell’antica Grecia, ogni raffigurazione di dolore veniva rappresentata con un giovane che portava con sé una corona di calendule. Nonostante la distanza tra il continente europeo e quello americano, anche nell’America meridionale la calendula è da sempre stato considerato un simbolo di dolore, in particolare per i messicani è il fiore simbolo della morte (…) Per gli inglesi le calendule rappresentano, invece, il sentimento della gelosia...”
  
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