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Autore: CinziaBella1987    20/08/2014    1 recensioni
Camilla ha ventisette anni e un mondo di responsabilità che gravano sulle sue spalle. In uno strano pomeriggio di metà agosto, si ritrova a passeggiare per le vie deserte del suo quartiere e per la prima volta, proprio come un'epifania, la grande verità su se stessa si rivela davanti ai suoi occhi.
Questo breve scritto è una passeggiata fra i pensieri di chi è solo e non è più tanto sicuro di riuscire a farcela, avendo ormai la consapevolezza di aver perso la vera essenza di sé.
In Camilla ci sono io, c'è il vicino di casa, c'è la vita di ognuno di noi, quella di chi, almeno una volta nella vita si è perso. I pensieri di Camilla sono l'amara constatazione che la vita non è una casetta dal tetto rosso in mezzo ai monti, col sole giallo nel cielo azzurro e che non sempre la strada per ritrovare se stessi si apre chiaramente davanti ai nostri occhi.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una casetta dal tetto rosso in mezzo ai monti, col sole giallo nel cielo azzurro

 
A chi si sente solo,
A chi si è perso e non sa dove sta andando,
A chi ha visto la sua vita cambiare
ed è rimasto a guardare senza fare niente.
A chi ne ha preso coscienza e vorrebbe tornare indietro.
 
 
 
A Roma oggi c'è il sole ma è coperto dalle nubi e soltanto di tanto in tanto riesce ad imporsi e a fare capolino. 
E' un po' come mi sento io, in questi giorni: incerta.
 
In questo strano pomeriggio di metà agosto, in un paio di minuti in cui non ho niente da fare, decido di uscire, di fare due passi e approfittare del fatto che quest'estate ha deciso di fare la ribelle e comportarsi come se fosse primavera. 
Forse anche lei non ci capisce più niente e fa le bizze, proprio come me.
Le vie del quartiere dove sono nata e cresciuta sono pressoché deserte; gli abitanti di questo posto di periferia, a due passi dal centro, ogni anno decidono di andare in vacanza tutti insieme, lasciando quello che di inverno è più simile a un paesello in città che a un vero e proprio quartiere, nella più silenziosa quiete. 
Mi piace così, quando non c'è nessuno e le strade sono talmente vuote che posso camminare al centro della carreggiata, senza aver paura che arrivi una macchina all'improvviso o un motorino che mi scippi. Soltanto in queste giornate assolate e desolate sento che questo posto è veramente mio; una delle poche certezze della mia vecchia vita che ancora sono ben salde.
Mi sono persa.
No, non fisicamente: conosco talmente bene ogni via di questo quartiere che potrei camminarci ad occhi chiusi, sarei comunque perfettamente in grado di tornare a casa mia senza fatica.
Il punto è che non so più chi sono. 
Fino a qualche anno fa, era facile dirlo: ero una figlia, una studentessa, a volte persino un po' scrittrice.
Adesso credo di aver perso la mia bussola.
Nel frattempo, sono diventata anche tanto altro: fidanzata, laureata, assistente ma io dove sono finita? Che ne è stato di me, della vera "me"?
Quando mi domandano: 
- Chi sei? - è facile rispondere:
- Camilla Bellonci, 27 anni anni, di Roma.
Ma cosa ci sia dietro a quel nome e a quell'età anagrafica, adesso davvero non so dirlo. 
In tre anni tutto è cambiato e, come è noto, a me i cambiamenti non piacciono affatto.
Sono ancora figlia, anche se mutilata e adesso non è più la mia famiglia a prendersi cura di me ma sono io che ho dovuto rimboccarmi le maniche - quelle metaforiche della vita - e sobbarcarmi tutti i guai; il peso del mondo lo porto da sola, perché nessuno sa e nessuno può fare niente per me. Niente più sveglia con le coccole la mattina prima di colazione, nessuno che mi dia il bacio della buonanotte; adesso a farmi aprire gli occhi di soprassalto è il suono fastidioso e privo di affetto della sveglia e prima di addormentarmi, anziché farmi dare un bacio, mi assicuro che il gas sia chiuso, per evitare che ci salti per aria la casa nel caso ci siano fughe. Tengo il conto delle bollette da pagare, di quante volte prelevo dal bancomat in un mese, delle scadenze, persino di quella dello yogurt in frigo; devo poter far fronte a ogni necessità, io piccola Ercole che deve patire ben più di dodici fatiche. 
Era bello sentirsi protetta e vivere quasi in una campana di vetro, convinta che ci sarebbe stato sempre qualcuno a dirmi di non preoccuparmi e di vivere tranquilla. 
Ero Camilla, la figlia amata e amorevole. E credevo sarebbe stato così per sempre.
Studentessa non lo sono più da circa due anni,anche se lo sono stata per più di dieci e questo forse, a conti fatti, mi fa un po' paura: era facile nascondersi dietro ai libri, definirsi grazie a un percorso di studi, un campo che conosco da tutta la vita; era quasi confortante: leggevo, studiavo, ripetevo fino allo sfinimento, fissando tutto nella mia mente per andare all'esame sicura di superarlo. E superarlo sul serio, con un trenta e lode.
Ero Camilla, la studentessa diligente e determinata. E credevo sarebbe stato così per sempre.
Per un po', sono stata anche scrittrice, dilettante, si capisce ma pur sempre scrittrice. Le storie nascevano nella mia testa una dopo l'altra, un'ispirazione vivace e tanta voglia di raccontare. Le parole spingevano per essere scritte, incastonate per sempre sulla carta. Sentivo così di potermi identificare in qualcosa, avevo uno scopo in cui credere: ero le mie storie, i miei personaggi. Filtravo parti di me attraverso i racconti, uscivo dal mio guscio di ragazza timida attraverso trame e intrecci che no navrei mai potuto vivere davvero ma che sulla carta prendevano forma e mi permettevano di essere anche altro, una me diversa ma soddisfatta. 
Ero Camilla, l'aspirante scrittrice sognatrice che costruiva mondi di carta con tanta facilità. E credevo sarebbe stato così per sempre.
 
Adesso non è più così semplice.
Forse è perché ho dovuto smettere di sognare, di guardare la vita con gli occhi incantati di chi non ha mai avuto problemi tanto grandi da affrontare ed è convinto che, in fondo, questa esistenza non sia poi così male.
Adesso sono diventata tanto altro: ho scoperto nuove sensazioni, incontrato nuove persone, alcune diventate indispensabili e ho provato nuove esperienze, alcune anche atroci ma in tutto questo cambiamento, ho perso me stessa. Forse qualcuno direbbe che sono solamente cresciuta, diventata adulta e, di conseguenza, ho dovuto prendere coscienza delle responsabilità che spettano ad ogni persona matura in un determinato momento della vita ma io ancora non mi adatto; non so se mi piace questa fase delle responsabilità. 
Ho capito a tempo di record che la vita non è facile, non è il disegno di una casetta dal tetto rosso in mezzo ai monti, col sole giallo nel cielo azzurro; non è un intreccio in cui, toccato il punto più alto del climax, c'è lo scioglimento e il lieto fine con cui tanto condivo le mie storie. Non basta avere tanti sogni per creare un futuro migliore, perché molto spesso, non siamo noi a decidere e a plasmare. 
Ho sperimentato il dolore, quello vero, profondo che ti strazia il cuore e ti tormenta l'anima, svegliandoti in piena notte senza farti respirare bene. Ho capito che non si metabolizza e, ancora una volta, ci si adatta e si impara a convivere con lui, amico fedele anche se indesiderato.
Ho capito che cosa significa la solitudine vera, quando sei in un mare di guai che nessuno potrà risolvere al posto tuo, quando nessuno è lì per te, a confortarti: l'ho capito guardando infinite volte il cielo in queste sere d'estate e sentendomi terribilmente sola di fronte a tutte quelle stelle che brillano insieme anche se sono lontane fra loro milioni di anni luce. 
 
Mi sono persa la prima volta quando il disincanto è entrato a far parte del quotidiano, approfittandosene e rubandone ogni giorno un pezzettino. 
Il guaio è che fino ad ora ho vissuto senza rendermene conto, invece oggi la realtà mi è piombata prepotentemente addosso, senza avvertire, perché la verità fa così: arriva, svela e se ne va, senza troppe spiegazioni.
Non so più chi sono e quale sia la mia strada; non ho idea di dove io stia andando, né dove mi porterà questo oblìo; non so nemmeno che persona sarò una volta uscita da questa tempesta ma so per certo che darei qualsiasi cosa per poter tornare indietro a quando Camilla Bellonci era una persona ben definita, facile da raccontare, dai contorni certi. 
Mi sono persa. 
Ho perso me stessa nel labirinto enorme e poco confortevole della vita, che continua a mettermi di fronte a prove che non so per quanto avrò ancora il coraggio di affrontare, figuriamoci poi se saprò superarle!
E forse è proprio questo che mi fa cambiare, confondere, perdere: mi adatto alle nuove situazioni, a quello che mi succede, con rassegnazione, perdendo di volta in volta un pezzettino di me, annaspando e cercando di sopravvivere alla burrasca, alla meglio, senza una vera chiave di lettura che mi permetta di riuscire senza tentare.
 
Non riesco più a scrivere e questo la dice lunga sul fatto che io non sia più "io". 
Per ventisei anni, nella mia vita non ho fatto altro, anche se ero tanto altro e mai soltanto una scrittrice (nel senso di "colei che scrive"): ho riempito diari, lettere, scritto storie e racconti che parlavano di me, di quello che sarei voluta essere ma non ero, di quello che sognavo. 
Ora a stento riesco a terminare un paragrafo, ho l'ansia da foglio bianco: mi manca il respiro all'idea di dover impostare una trama o anche solo un capitolo, così chiudo tutto e sto male. Sì, sto male perché reprimendo la scrittura e continuando a rimandare, in realtà vengo meno a me stessa. Mi reprimo; mi deprimo.  
Senza la scrittura, sento di aver perso una parte importante di me, di averla abbandonata per sempre e chissà dove. 
Perdere la scrittura credo sia il chiaro segnale di quanto sia lontana da ciò che ero prima, quando "la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole", come direbbe Vasco.
 
 
Sono arrivata fino in pineta, un luogo silenzioso e dai profumi incantati; ho camminato per quasi tre kilometri e non me ne sono nemmeno accorta e forse ora è il caso di tornare indietro perché ho mille cose da fare: i piatti sono ancora nel lavandino, mia madre ha bisogno che la aiuti anche a mettersi sul letto, perché da sola non ce la fa e poi devo richiamare Giordano che prova a parlare con me da stamattina ma io davvero non ne avevo voglia e ho continuato a rimandare, arroccando scuse e bugie che quel tesoro di ragazzo davvero non merita. 
Devo tornare, per un altro milione di motivi che vanno a braccetto coi miei sensi di colpa, così mi fermo al primo ponte prima dell'antico acquedotto romano e svolto all'indietro.
Vorrei che fosse così facile anche per tutto il resto: girare di centottanta gradi su se stessi e tornare indietro, da dove si è partiti. Tornare a sorridere senza sentirsi in colpa, a non avere l'inferno dentro e doverlo tenere nascosto perché per te non c'è tempo adesso, devi farti forte per dar coraggio a chi ti è vicino e sta passando un brutto momento. Tornare a vivere la spensieratezza dei tuoi ventisette anni appena compiuti, senza invece doverti sentire come una vecchia di ottant'anni, che non ha più niente da chiedere alla vita, perché si è già donata ad essa tanto tempo prima.
Vorrei poter avere una di quelle macchine che ti fanno viaggiare nel tempo; non tornerei troppo lontano, mi basterebbe riavere indietro quegli anni che mi davano la convinzione che sarei stata felice, quando mi mancavano ancora tante cose da scoprire ma sentivo di stare bene così come stavo, senza desiderare altro se non di poter restare in quel modo. 
Vorrei sul serio poter credere ancora che la vita sia una casetta dal tetto rosso in mezzo ai monti, col sole giallo nel cielo azzurro.
 
Mi sono persa, anche se la strada per ritrovare casa è proprio questa che sto percorrendo.
Quella per ritrovare Camilla è più complicata e, in questo momento, non so nemmeno se riuscirò ad imboccarla mai veramente.
  
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