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Autore: Yetsodoka    20/08/2014    1 recensioni
Un litigio può essere struggente se c'è anche l'orgoglio di mezzo.
Le nostre protagoniste lo vivono, forse anche troppo bruscamente...
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Non sono sicura del tempo passato su questo divano, forse due o tre giorni.
Ai miei piedi i cuscini sono uno sopra l'altro, come una coppia felice. Sì, una di quelle coppie "televisive". Non so se lo facciano apposta a guardarmi o è solo frutto della mia immaginazione.
Sospiro. Affondo la mia testa nello schienale quasi soffocando.
Non è la prima volta che succede, ma è la prima che passa così tanto tempo. Di solito in mezz'ora sistemavano tutto.

Sento il carretto del lattaio passare. Le bottiglie che battono una contro l'altra come se si sfidassero in una lotta senza fine.
Devono essere le sette del mattino.
Non ho intenzione di alzarmi ma necessito di una doccia.

Sono ritornata sul mio divano. Ho indosso un pigiama, uno dei suoi. M'illudo che abbracciandolo, questo dolore possa placarsi.
Il sole entra prepotente dalla grande finestra, quasi per farsi notare. È forse pazzia pensare ad un'eccentricità da parte di un pianeta? Non che la pazzia sia uno dei miei principali problemi.

Il mio sguardo si posa sul tavolino di fronte al sofà. Il cellulare spento, da giorni ormai.
Balzo in piedi imprecando e dandomi colpetti sulle tempie. Se mi avesse chiamato? Se mi avesse mandato qualche messaggio? Che idiota.
Corro in camera per cercare il caricabatterie. Dopo una ricerca contornata da complimenti molto generosi diretti alla mia fortuna, lo trovo. Torno nel salone, mi risiedo in quello che oramai è il mio nido e metto il cellulare in carica.
"Sabato 9 Agosto, ore 8:30". Noto con stupore che è passata una settimana, altro che due/tre giorni.

Nessun messaggio o chiamata.

***

È passata una settimana dalla lite. Non è la prima e non sarà l'ultima. Conosco il mio carattere e devo far passare del tempo. Non così troppo, però.
Sono orgogliosa, ma lei lo è di più.
Sono testarda, ma lei lo è di più.
Sono... Un'idiota, ma lei non me lo ha fatto mai pesare.
Non ricordo nemmeno il motivo del litigio.
Ho paura di chiamarla anche se so che non aspetta altro.
Chissà cosa sta facendo.
Solitamente tenevo il muso per non più di mezz'ora, ma questa volta no.
Mi sentivo forte perché sapevo che lei dipendeva da me, aspettava me, pendeva dalle mie labbra. Avevo il coltello dalla parte del manico.
Grazie a questo pensiero ho resistito per tre giorni, poi non ce l'ho fatta.
Conosco i suoi orari lavorativi, così andavo a prendere un tè nel bar vicino casa sua. Volevo solo vedere la sua espressione, i suoi occhi. Ma niente, non è mai passata. Le luci sempre spente.
Forse non gliene importa così tanto, sa che prima o poi cederò così esce e chissà dove va. Chissà con chi.

Volevo andare al cinema, nient'altro.
Lei no, doveva lavorare. Mai una vacanza per me, mai un regalo, mai una sorpresa. La dovevo sempre pregare.
Non ce la facevo più, così sono scoppiata.
Lei non mi aveva risposto, capo chino e l'unica cosa che sapeva dire era "scusa". Mi era sembrata pietosa, così ho preso le mie cose e me ne sono andata.
Per fortuna c'è mia cugina che mi ospita.

Ho esagerato. Ma ora sono preoccupata. Dopo un'ora tra "Le scrivo" "Aspetto", prendo il cellulare in mano ed apro Whatsapp.
Non amo usarlo, ma ho bisogno di sapere se legge ciò che scrivo, quando lo fa e se mi risponde.
Devo sapere se c'è.
"Ultimo accesso il 2/08 alle ore 22:30"
Poco prima che litigassimo, poco prima che me ne andassi.

Preoccupata è un eufemismo.

***

Mi sono svegliata a causa del mio stomaco.
Non mangio qualcosa di completo da qualche giorno e questo che sentivo non era un semplice languore. Mi brucia l'esofago intero.
Guardo il tavolino al mio lato ed addento la mezza barretta dietetica che avevo lasciato lì qualche giorno prima, scoprendo dopo il sapore del miele andato a male.
Non ho proprio voglia di alzarmi e cucinare.
Squilla il telefono. Il cuore batte.
Tremando prendo la piccola scatola vibrante e subito il mio entusiasmo si spegne.
Lea, mia sorella. Decido di non risponderle, opto per un sms che le manderò entro mezz'ora.
Morfeo mi riprende tra le sue braccia.

***

Non so che fare, la sorella mi ha detto di non vederla né sentirla da quando andammo a trovarla, quindi dalla settimana scorsa.
Sono stranita.
Mi ha anche detto che non va a lavoro da un po' e si è dovuta inventare qualcosa per spiegare la sua assenza.
Non è andata al lavoro? È ufficiale: ho paura.
Esco di casa di corsa e tiro un sospiro di sollievo quando trovo le chiavi di casa nostra nella borsetta.
Vado a piedi. Anzi, correndo.
Arrivo sotto il palazzo e non suono nemmeno. Fuori la porta, prima di spalancarla, decido di telefonarla per essere sicura della sua presenza nell'appartamento.
Compongo il numero quasi mi fosse mancato farlo e rimango imbambolata quando leggo il suo nome mentre il cellulare inoltra la telefonata.
Mi riprendo dai miei pensieri da tredicenne e con l'apparecchio in mano, attendo.
Sento la sua suoneria, è in casa.
Prendo le chiavi e senza far passare troppo tempo, spalanco la porta.
La casa non si era mossa di una virgola da come l'avevo lasciata. L'appendiabiti a terra, le mie scarpe sporgenti dallo stanzino, le sue maglie sulla poltroncina vicino la libreria. La pianta un po' appassita, la finestra serrata ed un'orrenda puzza di chiuso.
Avanzo: sulla mia destra la cucina è pulita, ordinata. Come se nessuno l'avesse toccata.
Sulla mia sinistra c'è il grande sofà, con il tavolino ed il televisore. È qui che noto cartacce sparse in modo confuso.
Mi avvicino e la vedo. Pallida. Dorme. Non dorme mai il pomeriggio, sarà stata tutta la notte fuori, a divertirsi penso.
Fatto sta che deve sapere che sono qui. Deve ascoltare ciò che ho da dirle. Lo pretendo.
La scuoto con delicatezza. I suoi capelli mossi, corti, si muovono in contemporanea al movimento del mio braccio. Il respiro flebile, gli occhi chiusi e le grandi ciglia abbassate.
Brontola qualcosa, ma non si sveglia.
L'ha sempre fatto.
La scuoto con più forza finché non apre gli occhi.

***

Mi sveglio all'improvviso e noto un'ombra starmi di fronte.
Capelli lunghi, occhi nocciola.
So chi è.
Non faccio in tempo a dire qualcosa che la barretta mangiata vuole uscire dalla mia bocca.
Mi alzo quasi non curandomi di lei e corro in bagno.
La testa mi gira e questo fa aumentare la mia nausea ma non ho più niente da cacciare.
Lei sembra avermi seguito. Sento il suo sguardo sulla mia schiena. So che è offesa, arrabbiata. So che è pronta ad urlare qualcosa. Poiché sento i miei occhi richiudersi, decido di parlare per prima e, con tutta l'aria riuscita ad accumulare nei polmoni, dico: "Mi dispiace."
Morfeo, forse, mi riprende tra le sue braccia.

***

Quelle ciglia lunghe si alzano, mostrandomi i suoi occhi cerulei.
Sono impassibile. Sembra riconoscermi.
Non faccio in tempo ad allungare un braccio che si alza, mi scansa e corre verso il bagno mettendosi una mano alla bocca.
Sta male? Perché non me l'ha detto? Ha sempre avuto l'abitudine di non dirmi quando era malata, per non farmi preoccupare.
Ora sono più che preoccupata.
La seguo. La trovo con la testa china nel water, quasi ad abbracciarlo. Respira con difficoltà.
Aspetta che io dica qualcosa. La conosco e mi conosco. Ho sbagliato.
Prima che proferisca parola mi anticipa ed un sottile mi dispiace esce dalle sue labbra. Poi crolla ai lati del bagno.
Urlo.
La prendo tra le braccia e la porto sul divano.
La scuoto, non risponde.
Ho paura.
Che abbia ingerito qualcosa? Si è drogata? Ha preso del veleno? È colpa mia?
L'unica cosa naturale che mi viene da fare è piangere.
Che sciocca. Se non avessi avuto quel capriccio, ora non starebbe così.
Che idiota. Tutta colpa mia. Tutta colpa del mio ego.
Poi riemergo dai miei pensieri e imprecandomi contro, mi precipito alla mia borsetta che avevo poggiato sul divano e chiamo i soccorsi.
Mi chiedono cosa sia successo, se avesse sintomi. E la cosa che mi fa più male è rispondere dicendo "non lo so" che annichilisce tutto ciò che sono.
Arriva l'ambulanza in dieci minuti. Le controllano il polso, le tastano la mano, il collo. La sollevano e la poggiano sulla barella. Si accorgono di me dopo un po'.
"Lei è una parente? Vuole venire in ospedale?"
"Sì, io... sono la sua ragazza."


***

Mi sveglio avvolta dal forte odore di disinfettante. Anche con gli occhi chiusi ho facilmente capito dove mi trovo: in ospedale.
Un paio di aghi sono inseriti nel mio braccio sinistro e su questi ci sono dei tubicini che portano a delle sacche appese non poco lontano dal letto.
Sento una pressione sulla mano destra e mi volto.
Conosco quei capelli.
Conosco quel tocco.
Delle lacrime, forse di gioia, vorrebbero liberarsi. Poi penso a quanto egoista sia. Sono in un ospedale. Forse già tutti sono preoccupati per me ed io penso alla mia gioia.
Ricambio quella stretta, prima di liberarmi la mano per guardare, quasi fossi una bambina a Disneyland, gli altri fori che ho sulla piegatura del braccio.
La guardo.
Ha gli occhi gonfi, il respiro regolare. Da quanto tempo è qui? Mi maledirei. Forse è qui perché ha dovuto farlo, non perché voleva. Sospiro.
La finestra mi avverte della pioggia fine, l'orologio segna le otto del mattino.
Vorrei alzarmi ma la mia testa non è d'accordo con il mio corpo.
Le carezzo i capelli. Chissà cosa sta sognando. Me lo sono sempre chiesta guardandola dormire. Ho sempre pensato che avesse un'espressione così innocente. Ogni volta che la guardavo, m'innamoravo... M'innamoro del suo volto.
Brontola.
Cosa le dirò quando si sveglierà?
Non riesco a formulare un discorso sensato che inizia a dimenarsi dolcemente sotto il mio tocco e mostra a me quel suo sguardo da "prendimi, stringimi, amami".
Le sorrido. Non ricambia. Ahia.
Si siede composta fissando un punto indefinito della stanza, occhi spenti.
"Dobbiamo lasciarci".
Il respiro mi manca.

***

Non avrei voluto certo dirglielo così, in ospedale. Ma se deve odiarmi, che lo faccia pure.
Sono stata qui per tre giorni. Ho pianto, addirittura pregato che si svegliasse.
Vorrei abbracciarla, stringerla a me e farle sentire il mio battito cardiaco accelerare ad ogni suo tocco. Vorrei.
"Non mangiava da svariati giorni", così ha esordito il medico. Ed io so anche la causa.
Non voglio che le accada, non per colpa mia.
Mi alzo e faccio per andarmene ma la sua stretta forte mi circonda il polso.
"Dimmelo guardandomi negli occhi", la sua voce debole. Mi conosce. Conosce il mio punto debole.
Mi libero dalla presa e le do le spalle, senza rivolgerle attenzioni, senza salutare. Senza incrociare il suo sguardo.
Quasi corro fuori dalla struttura perché trattenere quelle lacrime è difficile.
Addio.



Salve a tutti.
Questa è la prima storia di questo tipo che scrivo. Diciamo che spesso mi sono dedicata a generi come: fantasy, drammatico... Poi, ultimamente, ho letto molto questo genere e me ne sono completamente innamorata.
Ho scritto in due giorni questa "lunga" one-shot. Consideriamola come una specie di prequel di una storia che ho intenzione di mettere al mondo (che brutta espressione, ma sappiate che lo stravagante mi caratterizza).
M'interesserebbero molto le vostre opinioni, che siano negative o positive: sia chiaro!
Ringrazio chiunque legga queste righe che ho scritto e chiunque recensisca. Ah, e mi scuso per eventuali errori o orrori che cercherò comunque di setacciare.
Ora mi tocca l'ardua impresa di trovare un titolo appropriato. *si dondola nell'angolino della stanza*

A presto. :)
   
 
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