Ombre di un oscuro passato
Incubi che tormentano
Il ragazzo attese nervoso nel salottino. Continuava a
dondolarsi e ad agitarsi. Non era un comportamento molto maturo, lo sapeva
bene, ma dopotutto era andato lì senza avvertire nessuno. La signora lo aveva
accolto con molta gentilezza e cortesia, ma lui non era riuscito a superare
completamente l’imbarazzo. Per l’ennesima volta si sistemò la fascia rossa che
gli teneva i capelli scuri al loro posto e sperò di essere quantomeno
presentabile. Non che tenesse troppo alle apparenze, di solito, ma visto il
motivo per cui era andato fino a lì…
«Eccomi
qua, scusa il ritardo.»
«S…si figuri, Professor Elric!»
Il
ragazzo aveva sentito molto parlare di lui, ma vederlo di persona era tutta
un’altra cosa: i capelli e gli occhi color dell’oro, in particolare, attirarono
la sua attenzione. Non si vedevano spesso persone con quei lineamenti, ad Amestris. E per di più, aveva di fronte un eroe nazionale,
di cui aveva letto sui libri e di cui gli avevano parlato a scuola, la cui
storia, nonostante non fosse passato così tanto tempo, si perdeva quasi nella
leggenda. Perché erano veramente pochi a sapere cosa fosse successo quel giorno
di eclissi di sole di sedici anni prima, e quelli che non sapevano avevano inventato
tante di quelle storie fantasiose che ormai era difficile capire dove fosse il
confine fra realtà e fantasia.
Il
professore gli sorrise gentilmente, indicandogli una poltrona: «Accomodati, ti
prego. Mi hanno detto che hai bisogno del mio aiuto.»
Il
ragazzo si sedette di scatto, nervosamente: «G…
grazie per aver accettato di vedermi, Professor Elric!»
«Figurati,
nessun problema. Non ti prometto nulla, perché miracoli non ne faccio, ma non
nego mai il mio aiuto a nessuno. A proposito, pare che tu conosca me, mentre io
non so nulla di te.»
Il
ragazzo scattò nuovamente in piedi, quasi l’avessero fulminato: «Oh, mi scusi,
che maleducato, non mi sono neanche presentato!»
L’uomo
sorrise mentre gli porgeva la mano. Il ragazzino, imbarazzato, la strinse.
«Selim Bradley.»
Il
sorriso si pietrificò sul suo volto, mentre la sua mano iniziò a tremare
leggermente.
TUM-TUM. TUM-TUM.
«Bradley?»
Il
ragazzo sorrise imbarazzato: «Sì, sono il figlio di King Bradley…»
No, non
era quello il problema. Non era neanche lontanamente quello il problema.
TUM-TUM. TUM-TUM.
Il
problema era quello che il suo cervello continuava a ripescare dalla sua
memoria, quel suono che in modo particolarmente sadico continuava a risuonargli
nelle orecchie e nella testa.
TUM-TUM. TUM-TUM.
Con tutte
le volte che l’aveva incontrato, con tutte le volte in cui si erano scontrati,
proprio il rumore metallico di quel maledetto bastoncino sbattuto contro quella
che era e allo stesso tempo non era stata la sua testa doveva andare a ricordare?
Alphonse si
sedette sulla poltrona, senza forze.
Selim lo
guardò preoccupato: «Si sente bene?»
Al alzò
lo sguardo a fissare negli occhi la figura che nei suoi ricordi si presentava
come un bambino malefico, un homunculus nel vero senso della parola. Ma in
quegli occhi non vide traccia di Pride. Quello che lo
stava fissando era un ragazzino preoccupato.
«Scusami,
sono solo un po’ stanco, sto portando avanti una ricerca e dormo poco la
notte.»
Selim sorrise:
«Da come aveva reagito, pensavo avesse qualcosa contro mio padre. Ma anche se
fosse così non c’è problema, io non l’ho mai conosciuto.»
Alphonse lo
guardò sorpreso: «Davvero?»
Il
ragazzo annuì e l’uomo continuò: «Io invece sì… e
forse ti ho anche visto, quand’eri molto, molto piccolo. Ma dubito che ti possa
ricordare di me.»
«In
effetti no, mi perdoni.»
«Scusami
tu, non è per questo che sei venuto fin qui, giusto? Accomodati, intanto.»
Al non
perse un movimento di quel ragazzo. Forse era davvero ciò che diceva di essere.
Ma come esserne sicuri?
«Posso
ancora chiederti chi ti ha indirizzato da me?»
Selim si
guardò i piedi, imbarazzato: «Un amico di famiglia…
il signor Roy…»
Alphonse sospirò.
Mustang, eh? Se si trattava di lui era qualcosa di serio, poco ma sicuro.
«Va bene,
Selim… dimmi, qual è il tuo problema?»
Il
ragazzo aspettò un po’, prima di rispondere. Cercava il modo di esporre il suo dilemma
senza essere preso per matto.
«Professore… secondo lei… gli
incubi possono diventare… reali?»
Al lo
guardò perplesso: «Bè… dipende. Le nostre paure e
preoccupazioni, se fondate, possono anche…»
Selim scosse
la testa: «No, non intendevo questo. Intendevo… letteralmente.»
«Se
volevi attirare la mia attenzione ci sei riuscito. Ti ascolto. Raccontami
dall’inizio.»
Il
ragazzo sospirò, poi si decise a cominciare: «Da quando mi ricordo, ho sempre
avuto un incubo ricorrente. Non continuamente, a volte lo faccio tutte le notti
e a volte passano anche mesi da una volta all’altra, ma prima o poi ritorna
sempre.»
Alphonse lo
incalzò: «Cosa sogni?»
Selim lo
descrisse senza mai guardare il professore negli occhi: «Nei miei incubi,
indipendentemente dalla mia età reale, ho sempre sei-sette
anni. All’inizio cammino nel buio più assoluto, ma non ho paura…
anzi, mi sento tranquillo e protetto. Poi si accendono le luci e mi accorgo di
essere in un tunnel… o una miniera, non saprei dire
esattamente cosa sia. E a quel punto che arriva il mostro.»
«Il
mostro?»
«Non ha
un vero e proprio corpo, è tutto nero, pieno di occhi e di mani…
che mi afferrano e cercano di strozzarmi… e poi c’è
quella voce che dice sempre la stessa cosa.»
«Cosa ti
dice, Selim?»
Il
ragazzo respira profondamente un paio di volte prima di ripetere: «”Quello è il mio corpo, lasciamelo, Selim, lasciamelo, non è nato per te.” E poi mi sveglio. Ho sempre pensato che fosse
un po’ come… come l’Uomo Nero, il mostro che spaventa
i bambini, che continua a tormentarmi anche se sono cresciuto. Una sciocchezza,
insomma! Solo che poi…»
Il
professore lo guardò con aria molto seria: « Cosa ti ha spinto a venire da me, Selim? Perché adesso?»
Il
ragazzo lo guardò sorpreso. Gli credeva davvero? Non lo accusava di essersi
presentato lì a fargli perdere tempo?
«Io… io voglio fare il militare, come mio papà. Voglio
aiutare le persone come faceva lui. Ma mia madre non vuole e fa di tutto per
mettermi i bastoni fra le ruote. Dice che l’esercito le ha già portato via il
marito, e che non vuole che le prendano anche me. La capisco e le voglio bene, però…»
Il
professore sorrise: «… però a certi sogni non si può dire di no, giusto?»
Selim
s’illuminò per un attimo, lieto di aver trovato qualcuno che finalmente lo
capisse: «Esatto! Così quando sapevo che facevano il reclutamento, sono
scappato di casa e ho cercato di andare…»
«Di
nascosto da tua madre, giusto?»
«Già… ma tanto non ha importanza, al reclutamento non ci
sono neanche arrivato.»
«Cos’è
successo?»
Il
ragazzo tornò a fissarsi le ginocchia: «Avevo deciso di passare dai quartieri
un po’ più degradati, per non farmi beccare subito da mia madre…
ma lì qualcuno ha notato i miei vestiti e mi hanno aggredito. Non so perché… per soldi, per chiedere un riscatto, per invidia,
non lo so e sinceramente non mi interessa… mi
preoccupa di più cosa è successo quando
mi hanno preso. Lì… lì… io… io…»
Selim nascose
il volto fra le mani, gli occhi sbarrati, incapaci di scordare quelle immagini.
Il
professore ripeté di nuovo: «Cos’è successo, Selim?»
«Ricordo solo… che avevo paura… io non ho
fatto niente, lo giuro! Non ho fatto niente! O almeno credo di non essere stato io… ma se non
sono stato io non saprei spiegare quello che…»
Alphonse non
disse più nulla, si limitò a prendergli una mano e ad aspettare che il ragazzo
trovasse il coraggio di parlare.
«Insomma,
non mi chieda come, ma sono comparse!»
«Cosa, Selim? Cosa è comparso?»
«LE MANI!
Le mani nere! Sono uscite… sono uscite dalla… dalla mia ombra! Li hanno presi, ma quelli si sono
divincolati e sono scappati… e sono scappato anch’io.
Non da loro. È stupido, lo so… ma io cercavo di
scappare dalla mia ombra! E quella, normalmente, beffardamente, mi seguiva… non riesco più a guardare la mia ombra
tranquillamente da quel giorno. Non me lo sono inventato, professore, glielo
giuro, è vero! È VERO! LA MIA OMBRA SI È ANIMATA E LI
HA AGGREDITI! Ma io… io non volevo…
io…»
Il
professore sospirò profondamente: «L’hai raccontato a tua madre?»
Selim scosse
la testa, vergognandosi di non essere riuscito a mantenere la calma di fronte
al signor Elric: «Mia madre non sa nemmeno della mia
scappatella.»
«Ma l’hai
detto al signor Roy, giusto?»
«Se… se non lo dicevo a qualcuno… impazzivo…»
Alphonse si alzò:
«Capisco… vieni qui, Selim.»
Il
ragazzo, perplesso, si avvicinò all’uomo che stava indicandogli una grossa
cartina appesa al muro. Non ebbe il tempo di chiedersi cosa c’entrasse con il
suo problema che il professore, con un brusco e violento gesto, si girò su se
stesso facendo perno su una gamba, lo sbatté al muro e iniziò a premere con
forza l’avambraccio destro sul suo collo.
Preso
completamente alla sprovvista, Selim non riuscì a
ribellarsi in alcun modo. Solo quando si ritrovò al muro e iniziò a sentire l’aria
mancargli, si rese conto di cosa stava succedendo. Il ragazzo cercò di
divincolarsi, di staccare il braccio dell’uomo dalla sua gola, ma la sua presa
sembrava d’acciaio. Cosa aveva al posto delle mani, degli automail?
Voleva gridare, reagire, ma sembrava tutto inutile. Era venuto fin lì per farsi
aiutare e invece al primo accenno di qualcosa di strano ecco com’era finita.
Doveva aspettarselo. Dalla sua storia chiunque l’avrebbe preso per un mostro. Chiuse
gli occhi per timore di vedere il volto dell’uomo. Aveva paura di cosa avrebbe
potuto leggere nel suo sguardo.
E poi,
quando in un moto di rabbia aveva tirato un pugno al muro…tutto
finì.
Selim si
ritrovò in ginocchio, paonazzo, a tossire. Inginocchiato su di lui, il professore
lo aiutò a rialzarsi e a sedersi sulla poltrona. Il ragazzo era confuso, ma non
aveva la forza di ribellarsi.
Alphonse gli
porse un bicchiere d’acqua, con lo sguardo serio e preoccupato: «Ti chiedo
scusa, Selim, non avevo davvero intenzione di farti
del male. Soltanto, volevo assicurarmi che la storia che mi avevi raccontato
fosse vera e l’unico modo per farlo era metterti nella stessa situazione che mi
avevi descritto. Se ti avvertivo delle mie intenzioni, non avrebbe funzionato.»
Selim assunse
nuovamente un colorito normale: «A-alla faccia
dell’effetto sorpresa…»
Il
professore sorrise leggermente e dopo che Selim ebbe
bevuto, tornò a sedersi. Solo a quel punto il ragazzo fu assalito da un dubbio.
«Ma alla fine… è comparso?»
Alphonse annuì:
«Sì, a un certo punto dalla tua ombra sono uscite le…
“mani nere” di cui parlavi e hanno cercato di aggredirmi. A quel punto ti ho
lasciato andare.»
Il
ragazzo si strinse nelle spalle, senza trovare il coraggio di alzare gli occhi
dal bicchiere: «Cosa… cosa sono?»
«È presto
per fare ipotesi, ragazzo mio. Solo…»
La porta
si socchiuse: «Vi ho portato il tè…»
Con uno
scatto sorprendente per un uomo di quella stazza, Alphonse
scattò verso la porta, impedendone l’apertura: «Grazie, Mei,
ci penso io. Vai pure di là.»
Una
vocina femminile disse: «Ma…»
«Per
favore, vai.»
«Ok…»
L’uomo
richiuse la porta, con il vassoio in mano, e sorrise: «Ti chiedo scusa per il
mio comportamento maleducato. Mia moglie viene da Ching
e lì sono molto superstiziosi. Se avesse sentito anche solo una parola del
discorso che stavamo facendo qua dentro l’avresti vista riempire la stanza di
amuleti!»
Selim sorrise
a sua volta, imbarazzato: «Capisco…»
Alphonse appoggiò
il vassoio sul tavolo e tornò a sedersi: «Tornando a noi…
è un po’ presto per fare ipotesi concrete. Non è una cosa che risolveremo in un
pomeriggio. Ho sentito parlare di fenomeni simili, ma è la prima volta che ne
vedo uno di persona. Ma prima, ho bisogno di un’ultima informazione. Qual è
esattamente il tuo scopo? Perché sei venuto da me?»
Selim si
rigirò la tazza fra le mani: «Per capire cos’è, perché mi succede…
e fare in modo che non faccia del male a nessuno.»
«Direi di
partire dal secondo punto. Possiamo lavorare per fare in modo di renderlo
controllabile. Da quel che ho potuto capire compare solo come autodifesa in
situazioni di pericolo, ma se davvero vuoi intraprendere la carriera militare
tali occasioni aumenteranno esponenzialmente e dobbiamo essere sicuri che tu in
questi casi aggredisca davvero solo il tuo assalitore e non, per esempio, i
tuoi commilitoni presenti nei dintorni. Per quanto riguarda le origini del
fenomeno, sarà un lungo lavoro. Dovrai raccontarmi tutto su di te e sulla tua
famiglia. Te la senti?»
Il
ragazzo annuì senza esitazione: «Sono qui per questo. E qualunque aiuto sarà
gradito, sarà sempre più di quello che potrei fare da solo. La ringrazio.»
Alphonse s’alzò:
«Di nulla. Per oggi direi che può bastare, che ne dici se ci rivedessimo fra un
paio di giorni?»
Selim sorrise:
«Sarebbe perfetto!»
Il
professore accompagnò il ragazzo alla porta con aria tranquilla e paterna, che
però svanì immediatamente non appena richiuse la porta. Mei
Lin vide solo il marito salire le scale ed entrare nel
suo ufficio.
Senza
nemmeno accendere la luce, Al si sedette sulla poltrona, a riflettere, con un’espressione
tanto simile a quella del defunto Hohenheim.
Oh,
quello che aveva raccontato Selim non era certo solo
un suo incubo. Al contrario, qualche
volta sognava ancora anche lui il ghigno di Pride e
di tutti gli altri Homunculus.
La
questione era semplice quanto complessa: chi
era venuto a chiedergli aiuto? Selim Bradley o Pride? Con chi aveva parlato fino a quel momento?
Muovendosi
con sicurezza nel buio, Alphonse prese un oggetto e
lo indossò. Il freddo contatto col metallo gli diede un brivido, per un attimo,
ma allo stesso tempo gli ridiede anche sicurezza.
Non aveva
altra scelta, l’unico modo per distinguere l’homunculus dal ragazzo era
aggrapparsi ai suoi ricordi di quattordicenne, di rimettersi per un attimo nei
panni dell’imponente armatura senza volto ma dotata di anima che solcava le
strade di Amestris in compagnia del suo fratellone,
l’Alchimista d’Acciaio. Letteralmente.
E, ormai lo sapeva, nulla lo aiutava a riacquistare quel punto di vista quanto
rimettersi l’unico pezzo che di quella corazza si era salvato, l’elmo.
Sospirò,
a braccia incrociate.
Aveva
riconosciuto qualcosa del vecchio Pride nel
comportamento di Selim?
No.
Ma Pride era uno specialista dell’imbroglio, aveva ingannato per
anni anche la signora Bradley.
Che appunto per questo motivo sarà stata più
attenta, questa volta. Senza contare che l’esercito, in realtà lo teneva sotto
stretta sorveglianza da prima che lui potesse rendersene conto.
E questo
lo portava al secondo punto su cui riflettere.
Roy Mustang.
Glielo
aveva indirizzato lui. Il militare conosceva i rischi, poco ma sicuro. Aveva
combattuto contro gli Homunculus. L’avevano anche accecato…
La mano
andò verso il telefono. Avrebbe potuto cercare di rintracciarlo e chiedergli un
parere sulla situazione...
«AAAAAHHH!!!»
Mei Lin gridò e Alphonse scattò
subito in piedi.
«Tranquilla,
Mei! Sono io!»
«Sei
tu... tu, o sei tu...»
Al si
tolse l’elmo, sorridendo: «Non sono tornato ad essere un’armatura parlante,
stai tranquilla.»
Mei lo
guardò con gli occhi lucidi: «Ho avuto paula che...»
Alphonse si
avvicinò alla moglie e l’abbracciò: «Lo so.»
Mei si
strinse a lui, rassicurata dal sentire il calore del suo corpo contro la sua
pelle. Poi, guardò il marito negli occhi, ansiosa: «Cosa succede?»
L’uomo
sospirò, grave: «Potrebbe essere tornato un incubo con cui pensavo di aver
chiuso per sempre. Potrei doverlo affrontare ancora. O forse invece no, probabilmente
non avrò modo di capirlo fino a che non sarà troppo tardi.»
«C’entla il lagazzo di plima? Cosa posso
fale pel aiutalti?»
Alphonse si
stacco da Mei e tornò a sedersi: «Quando quel
ragazzino tornerà, tu non devi farti vedere. E tieni lontani tutti. Dobbiamo
essere solo io e lui.»
«Anche se
dovesse venile
Ed?»
«Soprattutto se dovesse venire Ed. Ti
prego, non chiedermi di più. È già difficile così.»
Mei Lin gli sorrise, dolce e comprensiva: «Mi fido di te.»
Già, il
problema era proprio quello. C’erano un po’ troppe persone che si fidavano di
lui.
Ma non
aveva altra scelta. Doveva tenere fuori da quella storia tutte le persone che
avrebbero potuto risvegliare in Selim i ricordi e la
personalità di Pride assopite ma non estinte in lui,
e il suo amato fratellone era il primo della lista. Dopotutto era stato lui a
sconfiggerlo, tanti, troppi anni prima.
Con la
coda dell’occhio, si osservò in uno specchio. Lui, Alphonse
Elric, era l’unico a non poter risvegliargli strani e
ancestrali ricordi. L’unico a non essere più ciò che era allora. L’unico a
poterlo fronteggiare con l’alchimia in caso di pericolo. Era per questo che
Mustang glielo aveva inviato, ora ne era certo.
Per
sicurezza, chiuse il vecchio e rovinato elmo a chiave nel cassetto della sua
scrivania. Selim non avrebbe mai dovuto vederlo.
Nessuno avrebbe mai dovuto sapere del ragazzo e della sua strana ombra.
Sì, ormai
aveva deciso, avrebbe corso il rischio. Se quello era davvero solo il piccolo Selim Bradley, stava affrontando una cosa troppo grande
tutta da solo; nessuno sapeva quanto lui cosa significava portare il peso di
una verità irraccontabile e pericolosa sulla propria esistenza a quell’età. Lui
almeno aveva avuto il suo fratellone. Selim era solo,
solo e pronto, a sua insaputa, ad essere ucciso alla prima stranezza
dall’esercito.
Era
compito suo occuparsi della faccenda.
Suo e di
nessun altro.
Buongiorno a tutti! Mi sono decisa a entrare in punta di piedi
anche in questa sezione a causa di una piccola, minuscola scenetta dell’ultima
puntata di Brotherhood. Non so quanti pazzi oltre a
me costruiscano una storia partendo da così pochi elementi, ma spero che l’idea
vi piaccia.
Se avete voglia, ditemi cosa ne pensate.
Alla prossima!
Hinata 92