Grazie a tutti quelli che seguono, leggono,
commentino, ricordino e preferiscano questa storia. Davvero vi ringrazio, credo
sia la seconda storia in tutta la mia vita cui mi occupo in maniera
totalitaria, cercando di strutturare tutto in maniera diligente in modo che non
ci siano bizze vario. Spero possiate perdonare il mio ritardo, ma ho passato un
inverno a servire pesce e scrostare piatti, ed i pochi giorni liberi gli ho
spesi cercando di prendere la tintarella al male e ricamando quindici minuti al
giorno per dare senso alle parole di questa storia. Ringrazio ancora tutti e
chiedo scusa ancora.
Il capitolo di questa settimana è meno
prolisso e meno noioso del precendente, ho spezzettato la storia ed eliminato
la questione onirica, che nello scorso capitolo mi ha preso la mano. Vedrò di
spezzarlo è modificare l’atto IV in due parti …
Buona Lettura
RLandH
Sono forse il guardiano di mio fratello?
Atto V: Il
peccato è accovacciato alla tua porta
(1459)
Chiuse le ginocchia pallide al petto così da
incastrare il naso tra le rotule. Suo fratello le accarezzò il crine, con una
finta gentilezza che mai aveva fatto parte del suo animo e certamente da un
anno a quella parte lo aveva abbandonato completamente. “Tu sei più forte di
questo” bisbigliò con voce profonda, infilando le dita nei capelli e separando
i nodi che s’erano andati a formare. Fece emergere il volto dalle ginocchia,
fissando il fratello, il secondo della famiglia, il maggiore dei maschi, l’erede. Perché per tutti lei non era che una
femminuccia. “Non voglio sposarmi” aveva detto con voce sottile, sentendosi
schifosamente stupida, fragile ed inetta, come mai non era stata. Le sue mani
tremavano. “Non voglio un uomo, non più, ho voi mi bastate” aveva detto, cercando di
racimolare il coraggio nel fondo del suo petto. Aveva l’impressione di sentir
il dolore dell’anno prima sulla pelle. “So che temi il tuo marito sia violento”
aveva detto suo fratello, circondando le sua schiena con le sue forti braccia,
“Mi avrai sempre” le aveva confidato, “Tu ti sei presa cura di me ed io ora mi
prendo cura di te” le ricordò , mentre si intrecciavano le loro dita, in quello
sguardo si sentiva sicura, annuì, calmando i tremori, che l’avevano animata da
che i loro genitori le avevano parlato del matrimonio. Ad una donna non era
concesso ribellarsi alle autorità paterne, ne al marito, se fosse stato
violento, si sarebbe dovuta far forza e stringere denti, incassando i colpi,
odiava la debolezza del suo sesso, Dio era stato ingiusto a non averle dato la
dignità di essere uomo. “Se mai dovesse farti del male, sorella” aveva parlato
poi suoi fratello, “Io lo ucciderò” aveva aggiunto, non era un gioco, lei lo
capiva, suo fratello era serio, quello era un giuramento, avrebbe davvero
ucciso qualcuno che le avesse fatto del male, ne era certa, non per la cieca
fiducia fraterna, ma perché l’aveva già fatto prima. Sedici anni e già le mani
sporche d’una morte, tutt’altro che innocente. Si sentiva in colpa lei, che
avesse condannato l’anima di uno dei suoi fratelli per l’incapacità di
proteggersi da sola? Avrebbe dovuto impararlo, per salvare le due persone più
importanti della sua vita, dall’inferno. Perché era lei la più grande, era suo
dovere proteggerli.
(01-1479)
“Potresti anche mostrarti
contento del mio arrivo a Napoli” aveva detto infastidita sua sorella
Eleonora, dondolava la piccola Sancha
sulle gambe, regalandole uno sguardo materno, “Sono sempre contento quando tu o
Beatrice venite a trovarmi” aveva risposto lui in tono velenoso. Era vero, per
lo più, era davvero allietato quando le sue sorelle tornavano – almeno più dei
suoi fratelli – ma devastava orribilmente quando cominciavano a far le signore
e padrone. Particolarmente in quel momento, che il regno di Napoli era suo. “Devo
dire che Sancha è proprio bella” aveva commentato, accarezzando i capelli della
bambina di appena un anno, “Come una gazzella” lo prese in giro, guardandolo
con occhi sinistri, cattivi, come quelli di loro padre. “Perché non sei così
affettuosa anche con i miei figli legittimi?” aveva domandato Alfonso
esasperato, mentre si sistemava meglio sulla tavola, “Ho una passione per i
bastardi” disse cattiva, pizzicando le guance di Sancha che rise. Il re ordinò che venisse servita la cena a
lui e alla sua dolce sorella, “Poi
odio quella sgualdrina Sforza” aveva aggiunto, giocando con i capelli neri
della bambina. Eleonora l’aveva poi guardato prima di sorridere in maniera
piccata, “A proposito dov’è la mia amata
sorella?” aveva domandato, mentre servivano del pasticcio di piccione, “Da
sua nipote” aveva risposto sterile Alfonso, cominciando a nutrirsi del suo
pasto.
“Mila, riporta Sancha a Trogia”
aveva impartito Alfonso ad una cameriera, che aveva annuito, strappando dalle
braccia la piccola bambina per riportarla dalla madre. “Se Sancha mangiasse con
noi, dovrei permettere a tutti i miei figli di essere qui” disse Alfonso tra
una portata e l’altra. E già era complicato sopportare Eleonora, figurarsi con
bambini urlanti a destra e manca. La donna alzò le spalle e si godè la cena con
distaccato interesse. Ferrara l’aveva cambiata, di Eleonora D’Aragona non era
rimasto che un briciolo, visibili nell’aspetto, si chiedeva se sotto quei bei
vestiti e quei monili luccicanti ci fosse ancora quella sadica amante della danza
dei coltelli. Beatrice era l’intelligente della casa, ma Eleonora era il
piccolo orgoglio di Re Ferrante, non le
aveva mai detto in tutta la sua fanciullezza di star zitta, come faceva con
lui, aveva anche mostrato un segno di tristezza, quando Eleonora era partita
per Ferrara, subito dopo essersi maritata.
Da bambina Eleonora lo vinceva
sempre nelle competizione, Alfonso ribatteva che perdeva perché da bravo
fratello adorava lasciarla vincere, ma non era vero. Eleonora era forte e
cattiva, il solo pensare alla sua infanzia, gli portava dolore al petto, dove
quella troia caucasica aveva inciso la parola giocattolo in quella sua stramaledettissima lingua,
immaginava quanto irrisoria sarebbe stata la risata di Eleonora se l’avesse
scoperto, immaginò il suo viso contratto dal divertimento e gli occhi azzurri
ruggenti. “Immagino tu non sia venuta qui solo per una visita di cortesia”
disse Alfonso, che ormai la sua famiglia la conosceva bene, “Mi mancavi”
commentò con voce divertita, leccandosi le labbra. “Non ti credo” aveva
risposto seccamente quello. Dopo la presa di Otranto, Eleonora aveva scritto
solo una lettera per la compianta morte di suo padre, scusandosi di non poter
venire al funerale, con una scrittura distratta, veloce ed impersonale, non sua
ma di suo marito, in basso, sul fondo, con quella grafia piccola, minuta e
calcata che la rappresentava, aveva scritto dei complimenti per aver fatto qualcosa di concreto per una volta.
Eleonora sapeva sempre tutto, Alfonso
era certo si riferisse al parricidio del loro padre che alla tenuta della
città.
Mangiò un po’ dello stufato di
piccione che avevano portato, sentendolo stopposo nella bocca, era davvero la
cena melliflua o la compagnia? Eleonora sorseggiava acqua con letizia, perché
chiunque nascondesse qualcosa non poteva perdersi nell’ebbrezza d’anche un solo
bicchiere di vino e la madonna di Ferrara era un’abile prestigiatrice nell’arte
della menzogna. “Ti spiegherò tutto, fratellino” aveva concesso alla fine,
posando il calice orato sul tavolo, prima di concedersi anche lei allo stufato,
per riscaldarsi il ventre, “Ma tu dovrai organizzare una festa in maschera in
mio onore” aveva detto con un sorriso depravato sul viso, gli occhi azzurri
luccicavano di malizia, a guardarla Eleonora D’Aragona sembrava l’innocenza e
la dignità cucita sul viso d’una donna, con abiti eleganti, tutt’altro che
volgari ed una croce al petto simbolo della sua buona fedeltà a Dio, ma Alfonso
sapeva fosse nulla più che una becera sirena. “Così che tutta Napoli possa
ridere dell’assenza di mia moglie?” aveva detto lui infastidito, era una scusa
insulsa, ma difendibile, per tutto il regno si chiacchierava della relazione
che v’era stata tra il Magnifico e Ippolita Sforza e non era affatto sua
intenzione farsi ridere ancora dietro, lasciando al popolo la chiacchiera su
dove fosse sua moglie. “Trogia sarà contenta di sostituirla” aveva risposto a
tono sua sorella, “Potrà fingere per una notte d’esser regina di Napoli” aveva
aggiunto, quasi intrigata, “Non solo renderai lei felice” aveva ripreso, “Ma
anche la tua adorabile mogliettina morente d’invidia” aveva detto Eleonora. Una
maledetta sirena.
“Padre” aveva provato ad esordire, “Santo padre” l’aveva corretto disgustato
l’uomo, standosene con un sorriso tirato sul suo trono d’oro massiccio, “Santo
padre” ripeté a tono basso quello, “Io starei …” aveva ricominciato, ma era
stato interrotto un’altra volta, dall’alzata di mano di Sisto, che aveva anche
dato l’impressione bruciarlo con gli occhi, piccoli e cattivi, sistemandosi poi
meglio la tiara papale sul capo, seduto mollemente sul suo trono, Sisto pareva
immensamente distante da ciò che Pietro doveva essere, nulla più che un Re
terreno, ornato d’oro e gioielli,
vittima consapevole del peccato. “Non ci
importa” – aveva imperato quello – “Cosa tu e la tua puttana stiate combinando
nel ghetto ebraico, Girolamo” il suo tono era maligno, irremovibile come fosse
stato di stoica pietra, lanciando uno sguardo snaturato, ma con una malcelata
esasperazione, al nipote, “Accompagnerai Lupo e Giuliano a Bologna, siamo noi ad ordinartelo” aveva
impartito, sollevandosi dal suo trono, puntando l’indice abbellito con un
anello d’orato, con un diadema vermiglio come il sangue. Sembrava in quel
momento Dio in persona giudicatore, pronto ad aprire una voragine sotto i piedi
di Girolamo e mandarlo al giudizio di Minosse, in un girone infernale, tra i
caini per aver tradito il proprio padre.
“O osi opporti a noi? Noi che siamo Pietro, che facciamo le veci di Dio in terra?” aveva
aggiunto con un tono imperioso, di chi non avrebbe ammesso insubordinazione.
Girolamo era minuscolo davanti quel vecchio, non aveva potere, non aveva
dignità, “No” rispose succube, torturandosi
a sangue un labbro; il papa lo aveva poi scacciato con nulla più che un
movimento della mano, quasi fosse stato un misero insetto.
Onora il padre, dicevano le scritture, ma a Girolamo era
venuto, di quei tempi, quanto mai difficile rimanere legato a quel
comandamento; quale padre doveva onorare? Quello che rivendicava il sangue? O
quello che rivendicava la fede? O quello che rivendicava l’educazione? Avrebbe
dovuto seguire Alessandro Della Rovere? Franceso Della Rovere? O Paolo Riario?
E perché mai sentiva nel suo petto i cancelli di Pietro chiusi e ferrati, quasi
il buon Dio avesse smesso d’ascoltar le sue preghiere. Era davvero chiuso fuori dalla Grazia?
Scacciò quelle malsane idee dalla sua testa, costringendosi a rimanere
diligente alle direttive dell’ebreo, al libro, ai suoi sogni e alla sua colpa,
qualunque essa fosse. Prima di rendersi conto di dover nuovamente accantonare
tutto per svolgere in nome d’un Dio che aveva smesso di assistergli, una
missione per il volere degli uomini, che nulla aveva del cielo. Era per la
terra, alla terra, che lo allontanava ogni istante di più dalla beatitudine.
Girolamo sentiva la rabbia
fluirgli in ogni parte del corpo, come fosse stato il suo stesso sangue, mentre
osservava una diligente Zita preparare i
suoi bagagli, con una meticolosa cura nel piegare perfettamente i suoi
indumenti. Odiava di dover partire di fretta e furia, non essendo ancora venuto
a capo, dei misteri di cui la sua mente era stato insidiato dalle parole di
Eolo; aveva avuto in custodia Dracone e Silvano per due giorni ed una notte,
cavando poco più che un ragno dal buco. Aveva certamente scoperto che il greco
fosse l’uomo che Eliseo aveva indicato, visto quello che aveva detto a Zita
sulla morte, e nonostante l’aspetto masculino era certamente lui l’amante del
cugino. Silvano alle torture aveva piano e strillato, dicendo di non sapere
niente, ma Dracone era stato irremovibile, quasi il dolore non lo toccasse,
aveva urlato, ma al parlare la sua lingua s’era fatta annodata, aveva semplicemente
guardato Zita e chiesto ancora una volta se lei
fosse la morte. Poi Giuliano gli
aveva scoperti per caso, o forse era stato quell’abile osservatore d’Artemisio
e parlare al suo signore dei loro ospiti.
Quando suo cugino aveva visto Silvano ed il suo viso d’angelo, aveva battuto
gli occhi disinteressato e Girolamo s’era complimentato per la sua capacità di
mentire, ma suo cugino s’era tradito quando aveva visto l’altro uomo in catene,
Dracone aveva riso, animato da una qualche perversa consapevolezza, quasi
divertito da tutte le torture che aveva subito e Giuliano era rimasto immobile,
quasi Dio l’avesse trasformato in una statua di sale. Appurato Silvano fosse nulla di più che un
innocente spettatore, Girolamo s’era sentito vagamente incolpa quando aveva
deciso di metter fine alla sua vita, consapevole di essere causa ed artefice
della morte del ragazzo, aveva scelto qualcosa di veloce, che permettesse al
giovane d’abbandonar quel mondo in maniera tutt’altro che brutale, un riguardo
che Girolamo non avrebbe avuto per quasi nessuno al mondo. Raffaele aveva
insistito per salvarlo, aveva pensato suo cugino fosse divenuto o troppo tenero
di cuore – cosa che Violante non gli avrebbe mai permesso – o eccessivamente
schiavo dei suoi istinti – altra cosa per cui sua sorella lo avrebbe volentieri
preso a legnate – cosa che aveva ugualmente perplesso Girolamo. Ma il giovane
Riario aveva trovato per l’apprendista del macellaio una fine anche peggiore
quella che il conte aveva programmato, una misericordiosa
morte, l’aveva donato al Santo Padre e poi aveva scommesso con i suoi
cugini su quanto sarebbe durato, il sorriso oscenamente divertito, di pura
cattiveria; nonostante tutto Girolamo non godeva del male d’un innocente e non
aveva partecipato al gioco, Giuliano aveva la mente ossessionata dal suo amante
ed ugualmente s’era sottratto, così Raffaele s’era costretto a dover aspettare
il rientro di Giovanni.
“Non puoi venire come ne” disse a
Zita, quando lei ebbe chiuso la sua sacca. La donna lo guardo allungo,
stringendo le labbra, “Sarei perduta senza di voi” disse, ricordandoli il
discorso che avevano fatto prima della partenza per il Nuovo Mondo, “Lo so”
aveva ribadito quello, “Ma ho bisogno che qualcuno di cui posso fidarmi resti
qui” aveva aggiunto, accarezzandole il viso. Giuliano sarebbe stato a Bologna
con lui, ma i suoi poteri cardinalizi continuavano a macinare anche in sua
assenza, sebbene le persone di cui si fidassero fossero poche, era un uomo
furbo suo cugino, se si fosse trattato di qualsiasi altro amante l’avrebbe
scialacquato lui stesso, concentrandosi sul prossimo con un sorriso onesto sul
volto ed il disinteresse di cui era padrone, ma Girolamo aveva l’impressione che la fine della sua
relazione con Dracone fosse ancora molto lontana dalla fine. Non di certo per
la sua abominevole passione o l’amore – per l’amore del cielo, Giuliano
ignorava un tale sentimento – ma perché
era l’uomo che Eliseo gli aveva indicato ed ovunque Dracone avrebbe potuto
condurre Girolamo, avrebbe fatto strada anche a Giuliano.
L’unica cosa che lo rattristava
era la possibilità d’aver suo cugino come nemico, non che questo lo stupisse,
aveva imparato, davanti lo sfortunato cadavere di Amelia Donati, che per
raggiungere i propri fini si era disposti a calpestare anche il proprio
sangue. Un uomo che uccide il suo sangue è maledetto, aveva detto una volta
a sua madre, l’unica che avesse mai considerato come tale, Bianca Della Rovere
aveva annuito, passandoli le dita tra i capelli scuri, come Caino aveva aggiunto, il sorriso sul viso della donna era
appassito come se l’autunno fosse d’improvviso esploso sul suo viso, ma gli uomini sono marci, aveva risposto
sua madre. Quel giorno Girolamo aveva nascosto il viso nel ventre di sua madre
ed aveva chiesto quale uomo avrebbe potuto odiare un suo fratello, ribadendo
che lui non l’avrebbe mai fatto. Sua madre aveva sorriso in maniera fragile,
allora Girolamo non aveva capito, ma poi era stato certo che Bianca, in quel
momento, avesse pensato a Francesco ed Alessandro della Rovere; sua madre aveva
baciato la sua fronte ed aveva risposto che anche lei ignorava come si potesse
odiare un fratello, sua madre era così buona, secondo Girolamo, che quasi si
chiedeva come potesse condividere lo stesso sangue di tutti i suoi fratelli,
zio Raffaele compreso. L’ultima volta che s’erano visti, qualche annetto prima,
le cose erano cambiate, Girolamo conosceva bene la lenta agonia che aveva
logorato l’anima di Caino, macchiandolo poi di quel peccato immondo come il
fratricidio, ma sua madre lo aveva abbracciato lo stesso, ma a suo fratello il
papa, quando era stata a Roma, aveva sputato in viso, Oh Caino, neanche il marchio te concesso, aveva urlato e quella era
stata la sua ultima visita a l’Urbe. Girolamo le aveva chiesto come avesse
fatto a capire che i due papi erano stati sostituiti, sua madre aveva il viso
anziano torturato dal dolore, “Sono i
miei fratelli, credi che avrei potuto confonderli per un solo istante, bambino
mio?” aveva domandato con le lacrime agli occhi, “Se tu fossi sostituito con qualcuno che ti somigli come una goccia
d’acqua, Violante lo capirebbe e gli caverebbe gli occhi con un coltello da
pane” aveva aggiunto, sopprimendo un lamento, lei non poteva farlo, perché
come Francesco, anche Alessandro condivideva il suo stesso sangue. Poi Girolamo
aveva capito che anche sua madre capiva la colpa di Caino.
Girolamo aveva baciato la fronte
della sua amante, “Farò in modo che tu e Dracone siate al sicuro” aveva risposto, nel tempo che lui fosse stato a
Bologna, per occuparsi delle commissioni papali. Zita aveva cercato di
nascondere sul viso un espressione pavida, sfiduciata molto dalle parole del
conte e Girolamo s’era sentito impotente della sua incapacità di rassicurarla,
lei che era l’unica cosa bella che aveva. “Starete da mia sorella, madonna
Violante Riario Sansoni” le aveva detto il Conte alla fine, dopo un lungo
respiro; per il potere Romolo aveva ucciso Remo, Caino assassinato Abele, suo
padre imprigionato suo zio, ma in tutto quel marciume, quel tradimento delle
famiglie, Girolamo poteva sentire la sicurezza che Violante gli dava, l’ultima
certezza che aveva, oltre l’ingenuo amore per Zita. Nonostante la rabbia che
aveva animato sua sorella nel loro ultimo incontro, Riario sapeva del legame
imprescindibile che gli legava, siamo come Oreste ed Eletra noi, aveva
bisbigliato lei, quando s’erano visti,
c’era astio nel suo tono, ma poi l’aveva stretto ed aveva pianto sulla sua
spalla, fragile come una bambina.
Zita aveva sorriso rincuorata,
baciandolo di sorpresa. Girolamo l’aveva allontanata lentamente, “Andrete da
lei, questa notte, vi porterà Raffaele” aveva aggiunto, suo nipote era un
ragazzo furbo, che sapeva sempre quand’era opportuno chiedere e quando no; si
era anche offerto d’estorcere tutto quello che poteva da quel sodomita, Zita
avrebbe dovuto presenziare a tutti gli interrogatori per esser certa della
veridicità. “Partirete domani mattina, mio signore?” aveva domandato Zita,
anche se la risposta a quella domanda, la conosceva assai bene, l’uomo aveva
mosse il capo in segno d’assenso, allora la donna l’aveva baciato ancora, con
ardore e passione, pareva quasi animata dalla paura che quella fosse la loro
ultima notte. Girolamo l’aveva stretta sentendo anche lui l’ardore del non volersi
allontanare, del desiderio di volerla tenere stretta, quanto avrebbe voluto
sciogliere il suo caustico matrimonio e sposare quella donna davanti agli occhi
del signore, così che si sarebbero potuti amare in maniera candida. Spinse Zita
sul letto cominciando a spogliarla dei suoi abiti, ricambiato dalla donna che
s’impegnava, tra un bacio ed una risata di fare la stessa cosa, non più un
ombra ruggiva nei suoi occhi. Baciò ogni porzione della pelle che vedeva
scoperta, discendendo lungo quel ventre scuro, pensando alle parole di Eliseo,
sulla sua paternità, sarebbe stato così orribile se avesse impalmato Zita
quella notte? Si sentì profondamente egoista. La baciò sulle labbra,
assaporando la dolcezza di quelle labbra, per guardarla negli occhi, “Mio Re Salomone” sussurrò lei, quasi
divertita, Girolamo la baciò ancora,
mentre con una mano raggiungeva la sua femminilità, umida.
Lucrezia Normanni era uscita
dalla vasca da bagno come Venere era sorta dalle acque, con i capelli biondi
impregnati d’acqua, che gocciolava sul suo corpo gnudo. Giuliano aveva spesso
disdegnato la morbidezza d’un corpo femminile, trovando nelle illustrazioni
sconce sempre più appagante osservare Ares che la sua amante. Ma Lucrezia era
un eccezione, dovuta più al carattere della donna, che ricordava più quello
d’un esotico animale delle savane che d’una delicata matrona Romana. “Vai a
Bologna?” aveva domandato Lucrezia, camminando scalza sul pavimento del suo
bagno, fino a raggiungere la sua camera da letto, incurante dell’aria gelida di
gennaio che filtrava dalle imposte,
invece della sua veste notturna, la donna l’aveva sbeffeggiato
indossando la sua veste cardinalizia. “Cosa vuoi da me, Giuliano?” aveva
chiesto, la stoffa s’era impregnata d’acqua aderendo al suo corpo tondo, mostrando
le sue vergogne sotto la tunica porpora. Un osceno, quanto meraviglioso
sacrilegio. Eppure davanti tale beltà, Giuliano immaginò che nudo come era
venuto al mondo ci fosse stato Dracone, lui però non sarebbe rimasto a farsi
guardare come faceva lei, con il narcisismo tipico delle donne, quello si
sarebbe già avventato su di lui, per baciarlo, martoriarli le labbra, la pelle
e lo spirito. Giuliano non aveva mai amato nessuno dei suoi amanti, trovando
quel sentimento nulla più d’un veleno, piacevole, meraviglioso, ma ugualmente
mortale. Eppure sarebbe stato una
menzogna, a Dio, agli uomini, a se stesso, se non avesse ammesso di aver ardito
d’amore per Lucrezia e Dracone, aveva spesso di continuo fantasticato d’averli
nel suo letto assieme, nudi e pronti per l’amore, a volte aveva immaginato
d’osservarli e basta, mentre s’amavano loro, vedere le due persone di cui s’era
infatuato far l’amore con lui a guardarli, l’unioni della bronzea carnagione di
Dracone con il pallore di Lucrezia. I loro gemiti, che sarebbero stati per le
sue orecchie musica.
Accarezzò le guance rosate di
Lucrezia, con delicatezza, “Non esiste al mondo, persona di cui ora mi
preoccupi più di te” mentì, perché c’era anche Dracone, che era da qualche
parte nelle segrete di quella Gomorra travestita da Eden. “Sarebbe meglio se
per tutta la mia assenza, restassi nella tenuta dei Normanni” aveva detto,
infilando le dita nei capelli bagnati, “Che dovrei venire a fare qui, in tua
assenza, scusa?” aveva riposto piccata lei, “Compagnia al santo padre?” aveva
detto impudente. Giuliano aveva riso,
profondamente divertito, “Certo certo” sminuì la faccenda, non prima d’averla
colta di sorpresa con un bacio tenero sulle labbra, Lucrezia sorrise in maniera
tremendamente seducente, “Così mi tentate, eccellenza” rise, allacciandoli le
braccia al collo ed avventandosi sulle sue labbra. Eppure per quanto la lingua
della donna si insidiasse in lui, la mente di Giuliano non riusciva a privarsi
completamente dell’immagine di Dracone in catene, con uno zigomo completamente
distrutto ed il viso coperto di sangue. Per quanto, per una volta il desiderio di salvare qualcuno fosse
nobile, non poteva dirsi innocente, era vero il rapporto che s’era formato tra
i due, era vera la loro passione e le sue labbra, ma il motivo per cui si era
avvicinato a lui, non aveva nulla di leggero. “Non starai pensando ancora al
tuo giovane macellaio” aveva detto irrigidita lei, scostandosi appena, con le
sopraciglia crucciate; dalla cena da Girolamo, Giuliano aveva impiegato davvero
del tempo per assicurare la sua amante che lei era l’unica, che con chiunque
altro avesse avuto qualcosa, non era stato altro che uno sfogo d’istinti. Una
menzogna meravigliosa, amara come l’aceto, che Lucrezia aveva inghiottito
assieme ai suoi baci ed alle sue parole fatte di miele. “No, mia bella”
disse, assaporandola ancora le sue
labbra, “Sono preoccupato per la partenza di domani” aveva risposto e per il
compito che aveva affidato al suo fidato Artemisio, salvare Dracone. La bocca di Lucrezia s’era costretta in un
cerchio, sul viso solitamente stizzito era dipinta un espressione imbarazzata e
preoccupata. S’avvicino a lui, portò la bocca all’orecchio, “Ora ci penso io”
bisbigliò, prima di succhiare il lobo, s’era allontanata, tenendo sulle labbra
un sorriso, poi s’era chinata sulle ginocchia.
“La prego Dragonetti, ditemi che
avete notizie di Madonna Orsini?” aveva domandato Vanessa, mentre dava ancora
una volta disinteressatamente un’occhiata alle lettere che la maggiore delle
figlie di Lorenzo aveva scritto al padre e a lei, ripetendo ancora una volta di
non avere notizie della madre. Giovanni era al suo fianco per correggere le sue
cadute letterali, non avendo ancora la fanciulla preso pratica nella lettura e
preferiva di gran lunga la compagnia del giovane Nico. “No, mia signora” disse
spento l’uomo, chinando il capo, tenendo il capello tra le dita al petto, in
una forma di rispetto che Vanessa trovava ancora faticoso abituarsi. “O santo
cielo” bisbigliò, chiudendo tra le mani il viso. Aveva desiderato per tutta la
vita un minimo di considerazione, ma era passata dall’essere una suora
deflorata che si faceva le ossa in una locanda alla Matrona di Firenze. Erano mesi che non riusciva a cogliere un solo
momento con Giulio tutto per loro, dovendo sempre apparire al meglio al fianco
di Lorenzo, per mostrare quando la famiglia De Medici, fosse forte; non era
neanche riuscita a salutare, prima che partissero, Leonardo e Zoroastro, Nico
quella mattina le aveva detto avessero lasciato Fiorenza in piena notte, non
aveva neanche capito per quale meta, sperava solo di rivederli, qualunque
follia stessero architettando, sapeva di potersi fidare di Leo, perché non
l’aveva mai delusa, ma non poteva che sentire l’ansia annidata nel ventre .
“Ser Piero è arrivato” aveva comunicato
Dragonetti, dopo che aveva compreso Vanessa non avrebbe detto altre parole,
“Giusto … Il pranzo” bisbigliò la donna, sollevandosi dalla sedia, dandosi
della sciocca per essersene dimenticata, afferrò la cappa di pelliccia e la
chiuse attorno alla gola, nascondendo il vestito arancio scuro, prima di
salutare Giovanni con una riverenza e ricordagli che a metà del pomeriggio
sarebbe arrivato il giovane Machiavelli, “Si” aveva risposo il giovane
facendole un inchino. “Lorenzo ha
ritenuto questo pranzo così importante” aveva detto, uscendo fuori dal piccolo
studiolo, seguita da Dragonetti.
Nella sala da pranzo, la tavola
era pienamente apparecchiata, con tutti le vettovaglie lucide, della buona
portata, anche Pietro era lì, vestito di tutto punto, senza aver però osato
sedersi. La prima volta che aveva visto quell’uomo dal viso imbrunito, ne era
stata quasi spaventata, era venuto alla locanda per una strigliata a suo
figlio. Leonardo l’aveva guardata, imponendole con gli occhi di non
immischiarsi, per non urlare a Pietro quanto meraviglioso fosse il suo ragazzo,
Vanessa aveva conficcato le unghia nel bancone con così tanta forza da
spezzarle. Ma quando Leonardo era partito, aveva detto a Pietro di essere con
quel bastardo una persona migliore di come era stato con lui e così era stato,
in Vanessa ed in Giulio aveva trovato la sua espiazione. Sorrise appena la
vide, “Ti trovo splendida quest’oggi, signora” disse, chinando appena il capo
in maniera signorile, Vanessa ricambiò con una riverenza, che le ancelle della
casa De Medici le avevano insegnato.
La tavola era imbandita per sei
persone, Vanessa ricordava Lorenzo le avesse accennato dei preziosi ospiti che
avrebbero avuto quella sera, ma non ricordava se avesse per caso rivelato le
loro identità, oltre questo, in quel momento alla cena erano presenti solo in
due, lei e Piero. Si stava giusto chiedendo dove fosse Lorenzo, quando un
servitore era irrotto ancora una volta nella sala, “Signori” aveva detto con un
momento di imbarazzo, prima di sistemare una seconda persona con lui, un
giovane uomo, forse coetaneo di Vanessa,
dall’aspetto gradevole, anche se un po’ trasandato, nella barba incolta ed i
capelli lunghi, era pallido come un lenzuolo e portava un abito ricco d’un
colore vivace, si sosteneva grazie ad un bastone di legno chiaro,
dall’impugnatura nera e rifinita. Vanessa aveva vissuto abbastanza tempo tra il
popolo per riconoscere un mercante arricchito, “Il signor Morgante Ricci” aveva
presentato con voce squillante, accennando al nuovo venuto, “Ser Piero Da Vinci
e madonna Vanessa Moschella” aveva ripetuto presentando gli altri uomini. Il
sorriso di circostanza che era stato sul viso del padre di Leonardo, cosa che
Vanezza aveva notato, s’era congelato, “Benvenuto” aveva mormorato, mostrando un
finto tono accogliente, “Il Magnifico aveva invitato mio padre per il pranzo”
aveva detto Morgante, “Ma per un affare era assente dalla nostra amatissima
Repubblica, che ha pensato di mandare me, il suo primo figlio” aveva esclamato;
muoversi gli dava una certa fatica e strisciava con la gamba sinistra. Aveva
sorriso Morgante quando l’aveva notata, “Una vecchia caduta da cavallo” aveva
mormorato, mostrando comunque un espressione allegra, quasi per niente incupito
da quello.
“Ma l’uomo più amato di Firenze dove
è?” aveva domandato Morgante, osservando attentamente Piero. Vanessa non poteva
dire fosse un uomo sinistro, ma c’era un luccichio nei suoi occhi che non le
rendeva sentirsi perfettamente a suo agio in sua compagnia. “Starà arrivando”
aveva risposto l’altro uomo cercando di contenere un minimo nervosismo. Vanessa
aveva guardato i piatti lucidi di ceramica sistemati sulla tovaglia turchina,
tanta riverenza per chi? I Ricci erano una famiglia che s’era fatta un nome si,
negli ultimi anni di Firenze, una nota e
ricca famiglia Mercantile. Spesso aveva visto il detentore degli affari della
famiglia, il padre di Morgante, un uomo tutto d’un pezzo, canuto sul capo, con le rughe sul viso,
vestito in maniera impeccabile, tenere al suo braccio una donna dai capelli
grigi ed un espressione affievolita. “Per la gioia del cielo, mi ha concesso la
visione di tale bella creatura” aveva detto il giovane, con un sorriso solare,
ammiccando a Vanessa, che s’era stretta maggiormente al corpo la cappa, le
guance si erano colorate, fino a sembrare mele. Da quel momento nella sala da
pranzo era caduto uno strano silenzio, accompagnato dall’espressione
imperturbabile ed arcigna di Piero ed un sorriso serafico di Morgante. Vanessa
s’era chiesta se non avesse dovuto condurli alla tavola, come da brava padrona
di casa, ma si sarebbe sentita sciocca ed impudente, se poi i piani di Lorenzo
fossero stati altri. Il silenzio durò ancora.
Fu Lorenzo De Medici stesso a
romperlo, quando era entrato nella sala, aveva sul viso sfoggiato un sorriso
come fosse stato un monile di pietruzze lucenti, vestito in maniera elegante,
con un giacca di pregiata stoffa rossa, con bottoni di giada, dal decoro di
fiori, aveva il giglio d’orato di firenze appuntato al petto. Ordinato, sagace,
ben curato. Vanessa sorrise nel vederlo. Lorenzo era meno bello di quanto fosse
mai stato Giuliano, meno appariscente, interessante, all’apparenza più
mediocre, ma molto più astuto e diligente. Per quanto lei non avesse mai
parlato con il suo compianto amante del fratello, per quanto Lorenzo De Medici
fosse stato nulla più di un estraneo steso sul tavolo di Leonardo, ora Vanessa
si sentiva rischiarata sempre dalla sua presenza; forse perché s’erano fatti
compagnia nella solitudine che albergava in quella tenuta e dietro la fortezza
di impegni che s’erano costruiti attorno i due. Lorenzo viveva per Vanessa in
un costante stato di gratitudine, per donare al palazzo De Medici non solo una
presenza femminile, ma per aver donata a Firenze intera l’erede che avevano
trepidamente atteso. Lei per lui provava famigliarità, perché Vanessa non
poteva ignorare che il sangue che animava quell’uomo, fosse lo stesso degli
uomini che aveva amato di più nella sua vita, Giuliano e Leonardo. Uno era in
grazia al signore e l’altro Vanessa temeva sempre di perderlo.
Dopo Lorenzo era entrata una
donna, era magra, alta e d’aspetto vispo, aveva una lunga cascata di capelli
luminosi, due trecce strette dalle
tempie s’univano sul retro della nuca, fasciandole il crine come una corona
spessa d’oro intrecciato, tra i fili di capelli c’erano fiori pallidi e perle
bianche. Il corsetto era stretto, pieno di lacci, da gran dama, indossava un
abito ambra, con frange vermiglie e decori neri, uno smeraldo lucente come
monile, stretto in fili d’oro nero sul collo magro. “Sua maestà” aveva
bisbigliato timoroso Ser Piero. “Vanessa, mia cara, posso presentarti la Regina di Napoli Ippolita Sforza?” aveva
detto suadente Lorenzo, predendo le mani fini della donna e baciandole, sebbene
la postura fosse quella tipica dei galantuomini, Vanessa riconosceva negli
occhi lui, amore nudo e vero come poche volte aveva visto e negli occhi di lei
devozione come d’una suora a dio. “Sua maestà, il buon Piero lo conosci, la
madonna qui è Vanessa mia cognata ed
il nostro ospite …” aveva ripreso Lorenzo ammiccando a Morgante, “Non è messer
Goffredo Ricci” aveva detto spezzando la sua lingua. Vanessa s’era sentita come
se la sua stessa pelle le fosse stretta, quando Lorenzo l’aveva alzata così di
grado da farla moglie di Giuliano, lei che non era stata altro che per l’uomo
una morbida fuga dai suoi doveri, se l’avesse dovuta sposare forse quell’uomo
l’avrebbe odiata, Vanessa l’aveva vista la donna che le sarebbe spettata,
piccola, minuta e colpevole del disonore d’un cognome che non s’era scelta, ma
così bella e fresca, che al confronto Vanessa s’era sentita usurata.
Morgante non aveva perso il
sorriso restando con il bastone ben piantato a terra, davanti i falsi sorrisi
fermi sulle labbra dei due, “Perdonatemi Magnifico e sua Meastà, mio padre si
scusa, ma era lontano da Firenze per affari ed ha pensato fosse meno
sconveniente mandare il suo primogenito che rifiutare l’invito” aveva detto con
una galanteria così fine Morgante che per qualche istante Vanessa aveva pensato
fosse sul serio un nobile e non il figlio d’un mercante arricchito. “Un Ricci è un Ricci” aveva detto Ippolita
con una risatina divertita, allontanandosi appena da Lorenzo, per allungare la
mano verso il giovane, dove svettava un anello d’argento con una pietra rossa come
il sangue, “Morgante Ricci, mia regina, incantato” aveva detto l’uomo, baciando
le dita. “Accomodiamoci allora” aveva detto Lorenzo riprendendo il suo solito
carisma, “Manca un ospite” era stato proprio Morgante a farlo notare, lanciando
uno sguardo allo scintillante piatto da portata che sarebbe rimasto senza
commensale, “Non temete” – lo rincuorò
la Regina Ippolita – “Arriverà”, il suo tono era stato calmo, misurato e le sue
labbra quasi squarciate in un sorriso. Vanessa aveva avuto l’impressione che
quelle parole fossero più una minaccia che una rassicurazione.
Lorenzo sedé, come da tradizione,
a capo tavola, alla cima opposta s’accomodò la regina di Napoli, con le dita
incrociate sul ventre. Vanessa s’accomodò alla destra del Magnifico, alla sua
destra s’accomodò Piero, ritrovandosi così alla sinistra di Ippolita. Morgante
sedé all’altro fianco di Lorenzo, sotto richiesta stessa di quest’ultimo,
lasciando il posto vacante tra lui e la Regina, di fronte Piero. Erano stati
serviti vini con miele e sidro di mele frizzante. La prima portata era stato
del pane soffiato con del formaggio erborinato, poi era stato il formaggio
giallo con i datteri ed altre – troppe – portate fredde s’erano succedute.
Vanessa era quasi arrivata alla nausea, quando era arrivato la zuppa di porro.
L’aveva mandata giù quasi a fatica, osservando invece gli altri commensali non
disturbati da tutto quel cibo, poi s’era ricordata fossero tutti di nobili
natali o quasi, che nessuno di loro probabilmente aveva dovuto nella vita neanche
per un istante far la fame, prima dell’entrare in collegio, Vanessa aveva
sentito fin nelle ossa la mancanza di cibo.
“Non potremmo gustare questo buon
pranzo senza tuo padre” aveva detto Lorenzo orgoglioso a Morgante, “Tuo padre è
un moderno Marco Polo” aveva
bisbigliato, quello aveva annuito, “Anche lui adora definirsi così”
aveva detto gongolante quello, con un tono squillante di voce, profondamente
soddisfatto di quei comportamenti. “Davvero?” aveva domandato Ippolita,
sbattendo gli occhi, “Certo mio padre è
un mercanti di ogni genere” aveva spiegato divertito Morgante, “Da tutto il
mondo conosciuto” aveva aggiunto. Vanessa aveva osservato al mercato i loro
importi, era vero s’occupavano di tutto, da vasi, cibarie e probabilmente anche
persone. “Anche se ultimamente si stanno avendo problemi per la via della seta”
aveva commentato risentito. “Ed è un’attività di famiglia?” aveva domandato
incuriosita la donna, prima di bevacchiare un po’ di vino e mangiucchiare del
cibo, “Si, sono stati mio padre e mio zio ha fondarla, più di un ventennio fa” aveva cominciato a spiegare, “Anche se mia zia non
ha mai permesso al suo sesso di limitarla negli affari” aveva aggiunto.
“Giocasta certo” aveva detto Lorenzo, “Ci siamo incontrati ad una festa” aveva
spiegato con un tono sbrigativo, “Ha sposato un uomo bretone giusto?” aveva
ripreso, al ché Morgante aveva annuito, “Mio padre non ne era molto contento
all’inizio” aveva rivelato con un tono basso, “Sperava potesse sposare un
nobile altolocato italiano” aveva bisbigliato, prima di rivelare che s’era
augurato quell’augurio anche per lui Morgante, visto che Goffredo era stato
costretto a sposare una donnicciola figlia d’una piccola famiglia ormai da
tempo decaduta, che di nobile non aveva altro che il nome. Vanessa era stata
quasi sconvolta dalle parole di Morgante, quell’uomo non aveva avuto una sola
volta un tono gentile verso la donna che era sua madre. Le era scivolata la
forchetta, se un giorno Giuliano avesse parlato di lei a quel modo? Come una
donnaccia che aveva avuto la fortuna di stendersi sotto un uomo dal ceto
sociale più alto. “Tutto bene?” aveva bisbigliato Ser Piero toccandole la
spalla, “Si, mi è solo scivolata la forchetta” aveva bisbigliato lei, cercando
di fingere imbarazzo, recuperando la posata.
Ippolita aveva continuato a
tenere il sorriso serafico sul viso, “E tuo zio?” aveva domandato, inclinando
il capo, sul palmo della mano, un gomito
puntellato sul tavolo. Il viso di Morgante s’era fatto ombroso, come se quella domanda fosse stata una spada
in pieno petto, “Mio zio è morto” aveva detto quello con voce secca, quasi rabbiosa, “Che dio abbia in gloria
l’anima del buon Domenico” aveva annuito Lorenzo, con voce bassa, aveva poi
rivelato fosse capitato che a qualche festa data dal buon Cosimo partecipassero
i Ricci, tra cui proprio il compianto Domenico. “Alla sua buon’anima”
aveva detto Morgante sollevando un
bicchiere di vino, “Io quasi non lo ricordo” aveva confessato, “E neanche mio
cugino, Reginaldo, suo figlio bastardo” aveva detto il giovane con voce bassa.
Vanessa aveva osato chiedere della madre del bastardo, visto la sua affinità
verso gli illegittimi. “Vive ancora a
Pisa, ha un mulino” aveva confidato con voce civettuola Morgante, rivolgendosi
proprio a lei con un sorriso scanzonato sul viso, “Reginaldo la vede spesso”
aveva confidato, prima di portarsi alle labbra del vino e macchiarla di rosso
violaceo. Ippolita aveva continuato a tenere su un sorriso davvero divertito
come se l’intero discorso fosse il suo più grande svago, Vanessa la guardò
appena, era come se negli occhi ci fosse un fondo di cattiveria. “Ma non si è
mai sposato?” aveva indagato battendo le ciglia, prima di dedicarsi nuovamente
al suo pranzo, “Voleva” aveva spiegato Morgante, “Ma le cose erano complicate” aveva spiegato, Ippolita
aveva sollevato le sopraciglia pallide, “C’è stato lo sfortunato incidente che
ha messo fine alla sua vita” aveva ampliato il ragazzo, posando i calici sul
tavolo. “Incidente?” aveva domandato Ser
Piero indagato anche lui, il suo viso s’era fatto serioso e così anche Vanessa
aveva capito che più informazioni avessero carpito da Morgante e dalla sua
famiglia, più avrebbero fatto il gioco di Lorenzo. Ricci era in panciolle quasi
assuefatto da tutto quell’interesse dell’alta gente per lui, figlio d’un
mercante; “Così è stato detto” aveva detto lapidario. O lei le capiva quelle
frasi, quelle circostanze, così è stato
detto, diceva Morgante, così è stato
fatto passare, urlava in realtà.
Dragonetti era arrivato al
momento del prosciutto piccante, reso così da una qualche spezia arrivata
dall’oriente. Vanessa aveva sollevato lo sguardo, sorridendo gentile, “Mio
signore” aveva detto serio l’uomo chinando il capo a Lorenzo, “L’ultima ospite”
aveva rivelato, prima d’essersi fatto da parte. Vanessa aveva osservato con
interesse la porta da cui era apparsa una figura piccola. Era una ragazzina travestita da donna, con
una veste morbida d’azzurro intenso, stretto sul petto e scollato, non
indossava un corpetto, ma diveniva improvvisamente morbido, come le antiche
romane, l’attaccatura del seno, agghindato da tre cinta di perle di mare, ma
sul petto erano state cucite pietre brillanti, assieme a merletti pregiati che
sbuffavano da sotto la veste,
richiamando un bavero, al centro dei seni c’era un drago-serpente
d’argento lucido. Le maniche erano di velluto morbido gonfio, blu pavone. Sul
ventre spiccava un tonda prominenza, fecondo d’un bambino, lungo le spalle
scendevano ciocche di capelli ferruginosi. Era piccola, s’era resa conto
Vanessa, ma non più piccola di lei, quando aveva trovato un folle in stato di
semi incoscienza poco lontano dal convento.
Aveva ali sulle spalle, ossa di legno spezzate e pelle di tele rovinata,
era stata follia, ma Vanessa aveva pensato fosse un angelo, forse aveva avuto
ragione, Leonardo era un angelo, precipito dal paradiso e costretto ad un
inferno che non conosceva soluzione, personale ed angosciante, così da non
poter permettere a nessuno di salvarlo. Leonardo era un po’ Lucifero ed un po’
Icaro – l’aveva sentito spesso di parlare dei peccati di Dedalo, ma Vanessa
avrebbe voluto dirgli che erano quelli di Icaro che pendevano sulla sua testa –
era tutto quello, sacro e profano. Un uomo che le aveva promesso la luce e le
aveva regalato il buio, un’oscurità così stretta da esser soffocante, di cui
ora non avrebbe voluto mai liberarsi. La fanciulla non era più piccola di
quando Vanessa aveva amato per la prima volta un uomo.
Il viso di Morgante s’era fatto
bianco come ossa, come se la sola presenza l’avesse potuto turbare al punto da
privarlo del suo sangue. “Signori, ho il meraviglioso piacere di presentarvi la
Contessa di Imola” aveva detto Lorenzo sollevandosi dal suo posto, prendendo la
ragazza per il braccio in maniera galante, “Caterina Sforza” quando aveva
pronunciato quel nome, accompagnato dall’inchino della signora, Vanessa aveva
sentito Piero irrigidirsi al suo fianco. La Regina Ippolita s’era sollevata ed
aveva baciato la ragazza sulle gote e sulle palpebre, prima di stringerla in un
abbraccio quasi materno, poi la scortò personalmente fino al posto vuoto,
proprio al fianco di Morgante. “Contessa” aveva detto Lorenzo, “Loro sono Ser
Piero dotto il legge, mia cognata
Vanessa e il signor Morgante Ricci, il figlio del mercante Goffredo Ricci”
aveva ripreso presentando i commensali.
Caterina Sforza non aveva accennato neanche un minimo sorriso di
circostanza, come se l’intera sala la indisponesse. “Scusate il ritardo” aveva
detto la ragazzina con un tono perentorio, prima di giustificare il suo ritardo
a causa di un malore, nel farlo s’era toccata il ventre tronfio. “Di cosa si
discuteva in mia assenza?” aveva domandato poi, mentre una cameriera le serviva
il brodo, cercando di ricacciare indietro l’istinto di vomito, cosa che Vanessa
ricordava bene; “Di morti” aveva risposto Ippolita quasi divertita. L’argomento aveva fatto strisciare sul viso
della contessa un sorriso.
“Di morti è sempre pieno il
mondo” aveva detto la ragazza dai capelli rossi, bevendo dell’acqua chiara,
“Giusto un brutto cadavere è stato trovato a Roma, vero cugina?” aveva
domandato Ippolita alla ragazzina, con voce divertita. Caterina aveva annuito,
prima di ingurgitare un po’ di minestra, “Carlo Mondella” aveva spiegato,
“L’hanno ritrovato nel Tevere” aveva rivelato la ragazzina. Morgante aveva riso
divertito, “Il Tevere d’oggi giorno è come lo Stige” aveva detto, Caterina
aveva riso alla battuta, “Concordo più cadaveri che pesci” aveva risposto la
Contessa, con voce dura. Vanessa aveva osservato i suoi occhi erano d’un verde
maculato di castano, da risultare gialli, come quelli d’un qualche felino. “Lo
hanno aperto come un maiale e buttato nel fiume, i pesci ne hanno mangiato gli
occhi e mordicchiati gli organi” aveva detto tremendamente divertita Caterina.
Vanessa s’era chiesta come potesse mentre mangiava parlar di cadaveri con così
tanta disinvoltura, incinta come era, lei che avrebbe volentieri in quel
momento vomitato nel vaso lì di fianco. “Avevo sentito avessero appuntato anche
qualche dito, non mi avevi accennato questo, cara” aveva ripreso Ippolita, davvero
orgogliosa di continuare quell’argomento. Vanessa era sul punto di alzarsi e
congedarsi da quell’ispida cena, mentre osservavano il maialino da latte con il
miele, che veniva servita al centro del tavolo.
“Tortura” aveva spiegato
Caterina, “Qualcuno voleva risposte” aveva detto la ragazzina, “Forse le ha
ottenute” aveva detto Morgante rigido. La Contessa aveva sorriso in maniera
superficiale, ma era calato il gelo sul suo viso, “Certo che le ho ottenute” aveva detto poi, con voce
gelida. Tutti gli occhi della sala erano concentrati su di lei, ma quelli
gialli di Caterina guardavano il commensale, “Quindi la mia domanda, signor
Morgante, è perché la sua famiglia mi voglia morta” aveva commentato, prima di
guardare il suo ventre, “Ci voglia morti”
aveva aggiunto, toccandosi con le mano sottile il grembo. Morgante aveva
mantenuto il suo sorriso sbarazzino, “Dunque questa è una trappola” aveva detto
esasperato, “O direttamente la mia condanna?” aveva chiesto a Lorenzo De
Medici, “Perché mai se mi è concesso il Magnifico si occupa della contessa di
Imola?” aveva domandato rabbioso. Poi era avvenuto tutto in fretta, Morgante
aveva afferrato il suo bastone da passeggio ed aveva provato a colpire Caterina dritta sul ventre, Lorenzo
l’aveva afferrato per le spalle cercando di bloccarlo, ma Ricci lo aveva
colpito sull’addome con un gomitata, Vanessa aveva urlato, “Guardie” aveva
strillato Piero, mettendosi tra lei ed il resto del mondo.
Ippolita era schizzata in piedi
ed aveva afferrato il braccio della parente per tirarla indietro, ma Caterina
s’era già lancia su Morgante armata d’un coltello da burro, lui le aveva messo
le mani alla gola zoppicando appena. Lorenzo era finito per terra, s’era alzato
respirando a fatica, afferrando il bastone da passeggio, aveva colpito Ricci
alla gamba offesa; nonostante la poca aria alla gola, Caterina aveva infilzato
con il coltello l’avambraccio di Morgante. L’uomo aveva urlato e lasciato il
collo bianco della ragazzina, il rosso aveva macchiato le vesti, il tavolo ed
il viso di Caterina. Morgante era caduto per l’urto alla gamba e s’era sfilato
il coltello schizzando ancora rosso, che s’era riverso sotto di lui. Dragonetti
era entrato di tutta furia, assieme alla guardia cittadina ed un uomo dai
capelli biondi, “Contessa” aveva detto questo afferrando per le spalle
Caterina, questa era fuggita recuperando il coltello sporco di rosso, prima che
riuscissero a fermarla, l’aveva già piantato tra gli occhi di Morgante.
“Caterina, sant’iddio il bambino” strillò Ippolita circondandole il petto con le braccia per
tirarla indietro, “Adelchi aiutami” ringhiò al biondo, che aveva aiutato la regina e spintonare Caterina senza però
urtare in alcun modo il grembo, “Contessa” ripeté, “O per la gloria di Dio,
Adelchi! La tua incompetenza mi farà finire al creatore prima del tempo” aveva detto riprendendo fiato. Dragonetti aveva aiutato Lorenzo ad alzarsi,
“State tutti bene?” aveva domandato immediatamente il Magnifico; a causa di
tutte le urla che aveva gettato, le si era spezzata la voce nella gola. “Si ma
io non ho avuto le mie risposte” aveva detto Caterina, liberandosi delle mani
che la teneva ferma, Lorenzo De Medici
la guardò critico, quasi disgustato, non che Vanessa avesse guardato loro,
osservando solo il coltello tra gli occhi sbarrati di Morgante, non aveva avuto
così paura dalla presa della città da parte del duca d’Urbino. S’accasciò per
terra quasi esangue, Piero le venne dietro per sorreggerla, “Certamente ora
abbia un nemico comune, contessa” aveva detto duro Lorenzo, “Giocasta e
Goffredo Ricci non faranno di certo passar liscia questa morte” aveva
commentato con voce tetra. Caterina aveva sorriso, “Io non li temo” era stata
la lapidaria risposta della ragazzina. Piero aveva tenuto Vanessa su con le sue
mani, cosa di cui le gli fu infinitamente grata, “Impudente giovinezza” aveva
bisbigliato sprezzante lui.
“Io vengo” aveva detto Lorenzo,
mentre osservava Leonardo buttare a casaccio vestiti o quant’altro in una
bisaccia, “No” aveva ribadito Da Vinci. Andavano avanti da almeno un paio d’ore
e nessuno dei due aveva ancora deciso di ritornare sui suoi passi. “Ho sempre
desiderato vedere Roma” aveva detto vago Di Credi avvicinandosi all’uomo con un
sorriso che Leonardo avrebbe definito schifosamente adorabile, “Visitare Roma
con me e come girare con un cappio al collo nella speranza qualcuno scelga di
annodarlo da qualche parte” aveva risposto serio l’altro. Anche se avrebbe
davvero gradito la compagnia di Lorenzo, averlo introno l’avrebbe primariamente
distratto dalla sua missione ed in secondo luogo l’avrebbe messo in un grave
pericolo, pur di ferirlo, il papa avrebbe fatto a quel ragazzino cose orrende e
Riario non sarebbe stato da meno pur di scoprire cosa stesse macchinando. Aveva
deciso anche di non portare Nico, sia perché era sempre utile a Vanessa,
qualche esperto di legge, sia perché sarebbe stato quantomeno inutile
nascondere che l’influenza del conte aveva segnato in maniera indelebile il
ragazzo.
Lorenzo gli aveva toccato la
guancia, “Io non temo Roma, Leonardo” aveva risposto, rubandoli un bacio, “Non
temo papa Sisto, ne la gloria di Dio in persona” aveva aggiunto sicuro di se. “Mi piace questo
tuo cieco ottimismo” aveva detto Leonardo, “Mi ricorda me” aveva detto orgoglioso
quello, dandoli un bacio leggero, Lorenzo era una creatura meravigliosa, tutto
di lui lo diceva, aveva un viso sottile, dai tratti infantili ed i riccioli
bruni, serpentini, come quelli d’una figura antica. “Ma la risposta è ancora
no” aveva stabilito ancora una volta Da Vinci, “Non verrai a Roma con me” aveva
risposto. Il viso di Lorenzo s’era tinto di rossa rabbia, gli zigomi erano
infuocati come se fossero stati accessi da tizzoni ardenti; forse avrebbe
dovuto dirgli che era per il suo bene, ma la verità era che se avesse detto
quello Lorenzo avrebbe passato le notti con occhi sbarrati contando i giorni e
le ore, si era innamorato quel ragazzino, Leonardo lo comprendeva, ma non aveva
la forza di spezzare un cuore, non così bello come quello di Lorenzo, era
un’anima innocenza che non aveva voglia di sporcare, ne di illudere. Non era
certo che un giorno sarebbe stato in grado di poter concedere il suo cuore a
qualcuno di diverso di Lucrezia Donati, un’anima nera come lui, con un cuore
secco ed un dolore nel petto. Gli sarebbe piaciuto poter essere così folle da
amare qualcuno in maniera innocente. Lorenzo gli picchiò le mani sul torace.
“Sei pronto? Ho fatto sellare i cavalli” aveva esclamato Zoroastro entrando
nella stanza di Leonardo, con i ricci scomposti ed un vestito molto sobrio in
confronto al suo solito, “Si” aveva risposto Da Vinci, “No” Di Credi, “Io non
sono ancora pronto” aveva commentato, Zoro aveva inclinato il capo, guardando
il ragazzo più giovane tra l’esasperato ed il divertito, “Se così è, vado a
sellare un quarto cavallo” aveva detto alla fine con un sorriso soddisfatto,
prima di voltarsi. “Quarto?” aveva domandato Leonardo andandoli dietro, “Avevo
detto a Nico di non venire” aveva ribadito, “O Leonardo, adoro quando sei così
autoritario, ma non puoi controllare tutti”
aveva borbottato Lorenzo alle sue spalle. Zoroastro aveva riso
tremendamente divertito scompigliandosi ancora di più i capelli riccioluti, “Ma
Nico ha detto che resterà con Vanessa, anche se è tremendamente abbattuto”
aveva commentato, “Botticelli mi ha detto che sarebbe venuto con noi”. Leonardo
aveva arrestato la sua camminata improvvisamente, Lorenzo le era finito
addosso, mentre Zoroastro aveva terminato la sua avanzata, voltandosi verso di
lui, quasi per gustarsi la sua espressione.
Leonardo aveva trovato Botticelli
nella sua stanza, stava sistemando le sue ultime cose, cioè valutava se dovesse
portare il pennello di tasso o quello di coda di scoiattolo. “Per quale assurdo
motivo vuoi venire a Roma con noi?” aveva domandato Da Vinci entrando nella
stanza di Sandro. Il ragazzo aveva sollevato gli occhi, se ne stava in panciolle sul suo letto,
indossava soltanto la calzamaglia e gli stivali neri lucidi, standosene a petto
nudo, era magro come un chiodo, “Non con voi” aveva ribattuto, posando i
pennelli sul tavolo da lavoro, “Solo il viaggio, vado a Roma per tutt’altre
questioni” aveva ribattuto, voltandosi verso Leonardo, del tutto turbato dalla
sua seminudità, nonostante fosse tutt’altro che abituato a starsene in quello
stato di fronte una persona. “Ti ricordavo più muscoloso, Sandro” aveva detto
Lorenzo sbucando dalla porta, “Non voglio che nessuno di voi due venga” aveva
strillato Leonardo decidendo di ignorare quella battuta, che aveva colorato di
rosso le gote di Botticelli. “Adoro quanto tu sia deciso, Leo” aveva esclamato
Lorenzo, con un tono divertito, come se
le parole dell’uomo non avessero alcuna importanza, “Ma io verrò con te” aveva
aggiunto, stringendoli le braccia al petto, Leonardo s’era allontanato, “Sarebbe
davvero pericoloso” aveva ripetuto con un tono quasi funereo. “Apriti cielo, le vostre manfrine
sbrigatevele altrove” s’era lamentato
Sandro, afferrando una camicia cipria dai bottoni in legno lucido; “Io verrò comunque”
aveva stabilito l’artista, “Non mi riguardano le vostre facezie” aveva detto
sicuro di se Botticelli, chiudendo i bottoni della camicia.
Da Vinci avrebbe volentieri
ucciso entrambi i giovani, tra Sandro le cui motivazioni rimanevano mistero e
Lorenzo che s’era incaponito non c’era stato verso di dissuaderli. “Cosa ci
vuoi fare, sono gli artisti” aveva detto Zoroastro ridendo di lui, mentre dava
dei semi al cavallo, Nico al suo fianco rideva divertito da quella battuta, “Tu
cerchi di convincerli che quello che fanno è un azione suicida, ma loro lo
fanno lo stesso” aveva ripreso, mantenendo un sorriso sardonico. Dopo aver
passato l’intero pomeriggio ad urlarsi con quei due non era decisamente
dell’umore per badare all’ironia del tombarolo. Yana era venuta da loro, ad
ogni suo passo la gonna le si gonfiava di continuo, portava una borsa di
traverso, “Dimmi che non vuoi venire anche tu” aveva quasi supplicato Leonardo,
la ragazza aveva sollevato un sopraciglia, “Una sola vita non mi basta per
sopportare un altro viaggio con lei, maestro” aveva risposto Yana, lasciandoli
cadere la borsa sulle braccia, Da Vinci l’aveva aperta scoprendo che era
ricolma di viveri, “Verrocchio vi manda la sua benedizione” aveva detto Yana
prima di andare via. Leonardo s’era sentito così piccolo, da che aveva scoperto
della taciuta visita di Filippa Demopulo, non aveva più parlato con il suo
maestro. “Dovresti andare, Leo” gli aveva consigliato Zoroastro, perché per
quanto Leonardo si sentisse offeso, ciò che Andrea faceva era ciò che ogni
padre faceva nella speranza di proteggere il figlio. Aveva annuito e s’era
diretto verso l’interno della Bottega.
Andrea era nel suo studio, faceva
una cosa che Leonardo non gli vedeva da fare da anni, dipingeva alla luce d’una
candela, era un quadretto piccolo, che prendeva fino al seno quello che erano i
primi segni d’una figura femminile, un incarnato pallido screziato di bronzo,
con capelli scuri con fili chiari. “Non aspetterete domani mattina per partire”
aveva detto Verocchio, immergendo ancora il pennello nei colori che aveva sulla
tavolozza, voltandosi appena verso Leonardo, anche i suoi baffi erano tinti di
vernice. “Sebbene viaggiare al buio sia pericoloso, alla luce potrebbe esserlo
di più” aveva risposto chiaramente Leonardo, sarebbe stato stupido negare che
il suo nome non comparisse sulla lista nera di fin troppe persone, Verocchio
rise, era un immagine soffusa, alla luce crepitante d’una candela. “Sii
prudente” s’era raccomandato il vecchio, ben conscio di parlare ad un muro,
prima di tornare alla figura morbida che rappresentava; sul tavolo c’erano sparse delle carte, a cui
Leonardo non aveva dato poi così tanta importanza, “Era molto che non
dipingevi” aveva constato, sedendosi su una sedia di legno con cuscini
colorati, “Forse troppo” aveva riposto l’uomo, lasciando i pennelli, era
diventato stanco per dipingere di notte. Così si era accomodato accanto a
Leonardo.
“Non mi piace questa storia” disse Andrea,
“C’è di mezzo il Turco” aveva detto evasivo Leonardo, cercando una mera
giustificazione, “Per questo” aveva aggiunto Verrocchio, appallottolando la pergamena da un lato della
scrivania, davvero spaventato da quello; “Ragazzo mio, l’ho capito da quando
tuo padre si è presentato alla mia porta che eri speciale” aveva cominciato
Andrea dopo un lungo sospiro, “Avevi quegli occhietti vispi” aveva ripreso il maestro,
accompagnando l’azione con ampi gesti delle mani, che fecero ridere Leonardo,
gli occhi di Andrea erano stanchi, vecchi, ma ancora lucidi della meraviglia,
che brillava solo nei giovincelli, “Ho capito che avrei dovuto esser sempre
vigile, per impedirti di finire dei guai” aveva ripreso Verrocchio, con una
risata genuina sul viso, che Leonardo aveva volentieri accordato, Andrea aveva
fallito, in un modo o in un altro, Leo aveva sempre trovato il modo di finire
in qualche problema, nonostante tutti gli sforzi di Andrea.
“Nonostante ormai mi sia abituato
a vederti in catene da qualche parte” aveva commentato con un tono di voce
basso, con le palpebre semi-chiuse, “Non posso fare altra cosa se non
preoccuparmi” aveva commentato, le dita nodose si erano fermate sulle vecchie
pergamene. Leonardo gli aveva messo una mano sulla spalla, avrebbe voluto
rassicurarlo sul fatto che sarebbe tornato, ma sia lui sia Andrea erano ben
consapevoli di quanto raramente i piani di Leonardo seguissero la via
stabilità; avrebbe potuto rincuorarlo dicendoli di conoscere perfettamente
l’anno della sua morte, ma il tempo ed il destino erano un fiume circolare, che
cambiava sempre, un Leonardo aveva perso il libro delle Lamine, lui non avrebbe
compiuto lo stesso errore. “Puoi fidarti di me?” aveva domandato alla fine
guardando l’uomo che era suo padre, quello che lui almeno sentiva come tale,
Verrocchio aveva annuito, “Sempre, ragazzo mio” aveva risposto quello, prima di
nascondere quelle pergamene ingiallite, percorse da inchiostro rugginoso in un
vecchio cassetto squassato della scrivania. Leonardo le aveva guardate appena,
chiedendosi cosa ci fosse scritto, dopo il viaggio avrebbe indagato. “E ora che
vada” aveva detto Da Vinci sollevandosi dalla sedia su cui si era accasciato,
ricordandosi di dover ancora convincere quegli altri due di non venire, “Mi
raccomando Leo, sii prudente” lo pregò il maestro, consapevole sella sua stessa
illusione, Leonardo aveva chinato il capo prima di defilarsi, Si padre, aveva pensato.
Nelle stalle, Nico aveva
sistemato la borsa di viveri su un cavallo dal manto scuro come il fumo d’un
incednio ed il crine nero come il carboncino. “Abbiamo fatto serrare tutti i
cavalli, Maestro” lo aveva rassicurato Nico, passando la mano segnata dalle
lacrime di vedova, sul muso dell’animale, in un misurato gesto d’affetto. Dire
che il giovane non nascondesse un risentimento sarebbe stato sciocco, il suo
viso era come sempre colorato dalla semplicità, ma Leonardo scorgeva negli
occhi un venato rimprovero a se stesso, probabilmente Nico si dava la colpa per
non essere stato considerato nel viaggio, lui che lo aveva accompagnato fino in
Valacchia. “Assicurati che Vanessa sia sempre sicura” aveva detto Leonardo;
tutta Firenze sarebbe morta per proteggere Giulio, ma la sua amica?
Difficilmente. Nico aveva annuito, “Certamente” aveva ripreso prima di
osservare Zoroastro che si avvicinava, Leo notò continuava ad essere vestito in
maniera sobria ma indossava un mantello violaceo con stelle argentate, era
seguito da Botticelli con una sacca alle spalle vestito di cipria con i
risvolti argentei e Lorenzo di Credi, conciato come suo solito con colori
sfavillanti e qualche balza, non avevano decisamente idea di come si viaggiasse
di nascosto. Sospirò affranto, cosa che aveva fatto ridere Zoro ed anche Nico.
Lorenzo si era avvicinato a lui,
lo aveva baciato in maniera gentile continuando a tenere sulle labbra un
sorriso, “Ma chi si occuperà ora del quadro della Madonna con il
drago-serpente?” aveva chiesto il biondo, infilando una mano tra i riccioli
biondi. Botticelli aveva mosso la mano disinteressato e questo aveva stupito
parecchio Leonardo, non era mai capitato che Sandro mettesse qualcosa davanti
la sua arte, qualsiasi cosa, compreso se stesso. Lorenzo s’era morso le labbra,
“Non importa” aveva confidato poi, stringendo le sue dita a quelle di Leonardo,
che sapeva avrebbe dovuto scostarle, ma non l’aveva fatto, poi aveva sollevato
gli angoli della bocca in un sorriso vagamente dolce, quasi scaldato nel cuore
da quell’affetto. Avrebbe probabilmente rotto lo spirito di Lorenzo e questo
l’avrebbe perseguitato a vita, così come aveva sfinito l’anima di Jacopo e
tutti quelli prima, solo Lucrezia era rimasta in piedi, con quegli occhi
ammaliatori e rovinosi, tentatori come quelli del serpente nel giardino
dell’eden, ma lui non era Adamo. “Andiamo, su su” aveva detto Zoroastro,
ricordando che Leo aveva un appuntamento con una tale madonna ad una locanda
davvero famosa, quindi dovevano andare, qualsiasi cosa dovessero fare gli altri
due. Dovevano incontrare Aclima Lysimacus da cinque giorni da quel momento alla
locanda di Vannozza Cattanei, non avrebbero impiegato tutto quel tempo per
arrivare a Roma, ma era meglio fare in fretta. “Certo che deve essere davvero
importante, Sandro, da rinunciare ad un quadro” aveva detto Lorenzo, mentre
tirava le redini di un cavallo per condurlo fuori dalla stalla, Botticelli era
già saluto sulla staffa, aveva sollevato appena lo sguardo, prima di sistemarsi
sulla sella, con il viso marmoreo, senza degnarsi di rispondere, “Adorabile
come sempre” commentò Leonardo accarezzando il crine del cavallo.
Filippa aveva le cosce strette
attorno alla sella e le redine del suo cavallo così annodate ai polsi da
ferirli quasi, nel terrore di perderle, sul viso, Lele poteva vedere un
espressione quasi funerea. Erano stati a Firenze solamente due giorni, eppure
gli era orribilmente chiaro che entrambe le sue compagne di viaggio avessero
avuto un mutamento. Aclima s’era privata della smorfia altezzosa e dello
sguardo autoritario che la segnava, il suo viso era cereo, perso in pensieri
che non potevano essere sfiorati dagli altri. Riguardo Filippa, su quel bel
volto che a Lele tanto piaceva guardare albergava una distinta confusione e
stanchezza, occhiaie scure come mezzelune segnavano gli occhi neri. Filippa era stata fuori un’intera giornata e
quando era tornata pareva così provata, come se fosse scesa nell’inferno e poi
tornata. Qualsiasi cosa avesse commesso durante quel giorno di silenzio, forse
Lele non avrebbe mai più rivisto l’impacciato sorriso che aveva avuto da che la
conosceva.
Il passo dei cavalli era veloce,
la sua signora era impaziente di tornare a Roma. Per arrivare dall’Urbe a
Fiorenza avevano impiegato tre giorni, viaggiando per lo più di notte, probabilmente
questa volta avrebbero impiegato due giorni. Lele riconosceva quell’impazienza.
Aveva accompagnato nell’ultimo ventennio la sua signora ovunque lei avesse
voluto. Perciò Lele era certo di scorgere l’urgenza, quando sorgeva sul viso
della sua signora, come quando di ritorno dall’ultimo viaggio avevano
incontrato quello strano uomo dagli occhi contornati di nero. Lui ed Aclima
s’erano parlati, serrati e stretti, da cui Lele non aveva potuto scorgere una
parola. Aveva temuto fosse un pericolo, aveva tenuto la mano guantata sull’elsa
della spada pronta ad estrarla, ma non era servito, separatosi, la sua signora
aveva gridato che era impellente tornare a casa. E Lele aveva annuito, perché
il suo compito era seguirla e proteggerla.
Era stato parte dei suoi accordi lavorativi, la richiesta fondamentale
che il signor Antonio aveva fatto, il giorno che s’erano incontrati la prima
volta. Lele era sceso dagli Appennini ed aveva attraversato lo stato pontificio
fino alla marcia urbe, lì aveva fatto ciò che ogni buon mercenario fa, aveva
offerto la sua spada e la sua arte a chiunque avesse monete sonanti da offrire.
E poi era arrivato messer Antonio, era un uomo di poco più vecchio di lui, con
i capelli biondi e vestito in maniera impeccabile, aveva dato una moneta d’oro a Lele e l’aveva
assunto, per quanto tempo s’era trovato a chiedere lui, “Finché non ne verrò a noia” aveva risposto l’uomo, tenendo sul viso
un sorriso enigmatico. Alla sua tenuta, non poi così magnifica, dispetto quanto
avesse immaginato, Antonio aveva fatto sfoggio di sua moglie e se Lele s’era
aspettato un gioiellino dall’aspetto incantevole e tremendamente fragile, aveva
fatto mali i conti. Aclima, era quasi coetanea di suo marito, ma aveva un
aspetto rigido, con il viso severo,
aveva lunghi capelli scuri come la seta nera ed occhi cattivi come quelli di un
silvano, “Devi assicurarti che lei sia
sempre al sicuro” aveva detto Antonio. Lele aveva pensato fossero
fortunati, erano quasi coetanei – aveva visto di giovani ragazzine di undici
anni sposare uomini della sua età – e nel vederli s’era reso conto non fossero
due estranei costretti a convogliare a nozze, erano come uniti da un sentimento
pericolosamente simile all’amore. Aveva pensato fossero stati innamorati e le
famiglie avessero acconsentito, per un fortuito caso, a fargli sposare; si era
sbagliato, Antonio e la madonna erano stati due sconosciuti che si erano
trovati. Non gli aveva mai visti
scambiarsi affettuosità, se non con il figlio che avevano avuto. Poi a
Lele era stato ovvio che Aclima non aveva bisogno che qualcuno impugnasse un
arma per lei, ma che qualcuno gliene desse una. E Lele le aveva dato una spada,
quando aveva capito era ciò che la madonna anelava. “Nessuno pretende che una signora sappia combattere” aveva
borbottato, quando si era ritrovato nel
cortile con la sua madonna davanti, acconciata come calzone e camicia, chiusa
sotto una parziale armatura grigio scuro, quella aveva roteato gli occhi,
nerissimi come l’onice, “Io si” aveva
risposto prendendo la spada dalla cintola ed impugnandola malamente. Era stato
un caso esasperante all’inizio, ma ben presto, Lele aveva scoperto nel sangue
di Aclima l’arte della battaglia.
Erano stati costretti a fermarsi
per dare pace ai cavalli e rinfrescarsi. La madonna aveva usato come scusa il
doversi cambiare le bende di sangue di Filippa, frase alla quale la ragazza
aveva annuito, con le gote colorate di rosso. Così si erano apprestati ad un
fiumiciattolo, lo stesso dove qualche giorno prima avevano lasciato che le
correnti si portassero via il corpi dei briganti. Aclima s’era sfilata gli
stivali di cuoio svuotandoli di alcuni sassolini e fili d’erba che si erano
infilati all’interno, sedendosi sulla terra, poi si slacciò il mantello scuro
in modo che s’afflosciasse sull’erba, poi aveva recuperato un capello dalla
valigia e l’aveva messo in testa, nascondendo la treccia sotto di lui. Da dove
veniva lui, una donna come Alcuma non sarebbe mai stata capita, sarebbe stata
considerata una strega e Lele si rabbuiò obbligandosi a privarsi di quei
nefasti pensieri. Lontana, come un eco, nella sua memoria s’era aperto il viso
d’una donzelletta, con i capelli mossi come le onde del mare, d’un castano
scuro, occhi grandi e chiari come la rugiada ed un sorriso così dolce d’esser
miele.
Filippa aveva sollevato le gambe,
sfilandosi sia le pianelle che le calze blu, rimanendo con le gambe nude
all’aria invernale di gennaio e Lele pensò fosse ancora più strano, visto fosse
nata in terre molto più calde. Era
entrata nel fiume, tenendo sollevato l’orlo così da bagnarsi i piedi fino alle
caviglie, si mosse un po’, come presa dai brividi di freddo. A Lele ricordò sua
moglie, Giuliana quando si tuffava nei laghi nuda come la terra, con i riccioli
sparsi nell’acqua sotto un sole freddo, uno spettacolo così sconvolgente e
perfetto che nessun artista avrebbe mai potuto intrappolare. L’essere così
libera, aveva condannato la sua bella Giuliana. “Non ci pensare, buon Michele”
aveva detto Aclima stiracchiando le ossa, Lele guardò la sua signora, ma quella
non aveva dato cenno di voler continuare quella frase, proseguendo ad osservare
il panorama agreste che si schiudeva davanti a loro in quel pacato meriggio.
Filippa era uscita dal fiumiciattolo, non era riuscita a salvare l’orlo della
gonna dall’acqua e questo gocciolava,
aveva le gambe zuppe filo al ginocchio e gocciole rosse le erano
scivolate sulle gambe, ma lei l’aveva pulito, infilando nella borsa altre pezze
e gettando, sistemando in una sacca che teneva all’interno della bisaccia delle
bende bagnate, che aveva lavato. Si era asciugata le gambe ed aveva di nuovo
indossato le calze.
Aclima aveva sbuffato ancora una
volta, poi si era infilata nuovamente gli stivali, s’era sollevata dalla
posizione seduta ed aveva cominciato a dirigersi verso Dalila, non curandosi del
mantello che era rimasto sull’erba, che Lele s’era premurato di raccogliere. La
signora aveva accarezzato il manto della puledra sul collo, con un gesto
delicato, con il palmo scoperto senza esitazione, senza i guanti. Che la sua
signora fosse diversa da ogni matrona che Lele dopo vent’anni era chiaro come
l’acqua cristallina. Sembrava sempre curarsi massimamente di ciò che teneva.
Non era una persona affettuosa e neanche brava a dissimulare. Quando le matrone
si incontravano nei giardini, la sua
signora restava rigida come una stecca, accomodata sui cuscini a bere infusi
senza accennare un minimo di gioia, se non in compagnia di qualche particolare
matrona che garbava un poco, ma dopo vent’anni Lele aveva visto quanto fosse
tenace a prendersi cura delle cose che amava; come in quel momento che
accarezzava ritmicamente il collo della sua cavalla. Quando suo figlio a nove
anni era stato colto da una febbre del diavolo,
aveva passato giorni interi con lui, cercando di raffreddarlo, di farlo
mangiare, pregare per lui, tenendogli sempre la mano. Aclima Lysimacus poteva
essere tante cose – ed alcune di queste non belle – ma certamente nessuno in
tutta l’Urbe avrebbe potuto dire non fosse una buona madre. Era stato Messer Antonio a dirglielo una
volta, esagerato con il vinello, gli aveva detto che una donna così era fatta
per amare e che non avrebbe saputo fare altro, però le era stato insegnato a
non farlo. Nello spirito della sua signora, c’era qualcosa di spezzato.
“Sai dove siamo?” aveva domandato
Aclima con un tono di voce basso, “Conosco chi ti direbbe, che siamo tra
Babilonia e Gerusalemme” sussurrò, guardando prima con gli occhi silvani la
direzione che s’erano lasciati alle spalle, poi guardò ciò che gli attendeva,
la strada per l’Urbe. “Più Sodoma e Gomorra” rispose con scanzonata onestà
Lele, pensando alle due città, la fama di peccatrice di Firenze, null’altro che
una smaliziata diceria per coprire la libertà, che le altre città italiche non
erano in grado di comprendere, ne sarebbero mai state in grado di anelare. E la
verità che nascondeva Roma, la pia città, che sotto il velo d’un candore
nascondeva il marcio. La sua signora rise, divertita, “E che Dio le punisca
entrambe” aveva aggiunto, continuando a tenere prigioniere tra le labbra il
riso, l’impazienza sembrava essersi sciolta, così come la melanconia o la
preoccupazione, la sua signora sembrava animata d’improvviso dal buon umore,
“Ma io non so cosa Firenze sia”aveva confidato, con voce meditabonda la donna,
“Se sia davvero l’ultima bolgia dell’inferno, se sia il giardino dell’eden
o Semirare l’altra testa del mondo”
aveva aggiunto, guardando con gli occhi d’onice l’indistinto confine di mura
che s’andavano a perdere all’orizzonte. Poi voltò lo sguardo a Roma che gli
attendeva, “Ma so cosa Roma è” aveva aggiunto, il suo tono era aspro come il
ferro, rugginoso e venefico, “Roma è Enoch” aveva aggiunto angustiata. Lele
aveva annuito, “Io non sono molto esperto …” aveva risposto con un leggero
imbarazzo, lui era un mercenario, alla catechesi nel suo paese i frati avevano
insegnato ai bambini ciò che il buon Gesù diceva, i dieci comandamenti e ciò
che rendeva la gente un buon cristiano. Cosa che faceva sempre ridere
oscenamente Giuliana, così da rimediarci anche qualche schiaffo da quella
vecchia ciabatta di suor Maddalena. Provò un moto di rabbia per quella suora,
rabbia nera, da desiderare di nuovo di rendere il suo viso violaceo, come i
lilla che Giuliana intrecciava nei suoi canestri; ricordò la sensazione della
pelle di suor Maddalena, delle unghia scheggiate che graffiavano le sue mani
nel tentativo di liberarsi, gli occhi spauriti e la bocca spalancata, incapace
di urlare e prender l’aria. Aveva soffocato una suora Lele, vent’anni fa, e non
ne provava pentimento. San Pietro aveva chiuso i suoi cancelli per lui, così
lui che portava il nome dell’arcangelo era certo avrebbe scontato la sua vita
all’inferno, con Giuliana.
La signora aveva chiamato a gran
voce Filippa, così la fanciulla era arrivata, indossava una veste marrone come
le castagne, si sollevava d’un poco ad ogni passo, con il contributo d’un lieve
vento, aveva stretto al petto un’altra famiglia, morbida e bianca, spezzando così il vestiario. Il
viso era ancora assorto, come se il bagno nel fiume non avesse lavato le sue
inquietudine, “Cos’è Enoch?” aveva chiesto la madonna, togliendo dalle dita di
Lele il suo mantello. Filippa mostrò un viso confuso, colpita da quella stessa
domanda, “La città che Caino fondò, nel suo
errabondare per la terra” rispose, infilando un ricciolo dietro l’orecchio. Lele aveva pensato sempre la ragazza
somigliasse a Giuliana, ma era l’aspetto, i ricci così scuri, annodati, come il
nido d’una rondine, Filippa era candida, piccola e timorosa, spaventata forse
della sua ombra, devota alla sua fede e così mite, Giuliana era fuoco e fiamma,
sfacciata, leziosa ed indecente. Indemoniata
avrebbe detto padre Geremia, se fosse stato là, ma non era lì, era da qualche
parte in un bosco, null’altro che un mucchietto d’ossa. “Roma è come Enoch”
aveva ripetuto la signora, annuendo, “Romolo uccise Remo per fondare l’Urbe,
secondo i pagani” aveva ripreso la madonna, “Una storia assai più interessante
che parlare di pescatori e pastori” aveva aggiunto sprezzante, “Se si vuol
risalir ancora di più, Roma discende da Enea, che uccise Turno per riavere una
patria perduta la sua” aveva commentato quasi divertita, “Roma è nata dal
sangue, questo non cambia però” aveva ripetuto tenendo un tono irrisorio, “Come
Enoch” aveva concordato Lele. Le fondamenta di Enoch erano state il sangue di Abele
che impregnava le mani di Caino e Roma era stata costruita da quelle di
Romolo, macchiate del sangue di Remo.
Aclima sorrise, un perverso sorriso che sapeva di resa, “E nel sangue finirà”
aveva commentato poi, tutta la contentezza era scomparsa, era rimasto solo un
tono lugubre da veglia. “A qualcuno piace pensare che quella Roma sia già
morta, nel sangue di Pietro” aveva aggiunto, tenendo un tono funereo, i suoi
occhi neri guardarono altrove, dove agli uomini non era concesso, “Ma
sbagliano. Quella Roma, esiste ancora” aveva spiegato, “E temo cosa accadrà
quando il veleno nel sangue del fratello tradito avrà roso le fondamenta
dell’Urbe così a fondo, da farla sprofondare in un abisso senza ritorno e condannarci tutti” aveva detto. Il respiro di Filippa era spezzato e questo
fu ciò che lasciò Lele più di stucco, Filippa che era così devota a Dio, così
cultrice di quella retta via in cui credeva, che le faceva mordere le labbra
alla santa messa, così ortodossa, tacque, non disse ciò che ogni volta che negli
ultimi cinque anni le aveva sentito ripetere ad ogni disgrazia, che erano le
prove che Dio ci assegnava, tacque, consapevole di ciò che Lele aveva sempre
saputo, quando Roma sarebbe caduta, sarebbero crollati tutti. La domanda era
un’altra, quale sangue la sua signora temeva? E quanto imminente era?
“Andiamo” aveva detto poi la
madonna, richiamandolo dai nefasti pensieri, “Mi sono stufata di questo
abbigliamento, del viaggiare e dell’orrida identità di Aclima Lysimacus” aveva
ringhiato, legando il mantello alla gola, quasi schifata da quella cosa. Sul
viso s’era dipinta ancora l’espressione di stizzita altezzosità che l’aveva
sempre caratterizzata.
Informazioni
utili, se così possono essere chiamate:
Il piano temporale: Alfonso è in ordine cronologico il primo, con
il pranzo con la sorella, poi c’è Iil viaggio di Lele, Aclima e Filippa che è preso nel pomeriggio stesso, entrambi
sono il giorno dopo il capitolo precedente;
Leonardo, Giuliano e Girolamo invece avvengono allo stesso momento, ora più ora meno,
diciamo Riario e Della Rovere sulla sera e Leonardo in piena notte (si
Verrocchio dipinge di notte), seguito
poi da Vanessa che chiude il
capitolo con il pranzo, un giorno dopo rispetto gli altri.
Allora
la prima cosa di cui bisogna parlare è in assoluto è che questo capitolo vi è
un forte fattore religioso, abbiamo finalmente intrapreso l’argomento centrale
di questa storia: Caino. Da Vinci’s
Demons ha il suo Caino ed Alessandro De La Rovere, ha la sua Enoch ed è Roma. E tutto è collegato in maniera particolare. Aclima, i
Demopulos, i Ricci, Leonardo etc … sono collegati tutti dalla colpa di Caino.
Il Cardine centrale è Caino, ma anche la Famiglia.
Quella sulla quale Girolamo ammette di poter passare sopra, ma a cui tenere. I
Ricci, i De Medici ed De La Rovere, sono famiglie con i propri demoni e le
proprie salvezze. Si quindi è tutto un legame di famiglia.
Parlando di famiglia, abbiamo scoperto
qualcosa di Lele, che era spostato,
che sua moglie di chiamava Giuliana
ed era una persona particolare. Avremo ancora modo di parlare di lei. Il motivo
per cui ho scelto Lele come voce narrante? Aclima
è ancora troppo presto per poter parlare con la sua mente ed invece volevo
ridare respiro a Filippa, perché la
sua parte conterrà anche l’incontro con Leonardo e, soprattutto, Nico, avuto
appena svegliata dalla trance. E be il suo saluto con Sandro.
Riguardo a Sandro, è andato a Roma con Leonardo,
senza però aver dato spiegazioni, rinunciando anche alla sua arte. Il motivo è
intuibile per i più, non per Leonardo, ma non perché non ci arrivi, ma
semplicemente perché non gli interessi minimamente. Lui voleva solo avere meno
impicci, con Sandro, e tenere al sicuro Lorenzo.
Ma non ha fatto i conti su quanto possano essere teste calde gli artisti. Come
dice il buon Zo, che prima o poi gli
ucciderà tutti haha.
Riguardo ad Andrea che dipinge in piena notte, sta macchinando qualcosa anche
lui. E’ una particina, fatta solo per essere commovente, ma vedrete :) Lui e
Leonardo sono comunque la vera famiglia presente nella storia, senza Se e senza
Ma …
Nico
è rimasto a Firenze, con Vanessa,
che come vedrete a bisogno di una mano, visto che un pranzo se trasformato in
un omicidio. L’avevo detto che avrei continuato a scrivere di morti ammazzati,
e l’ho fatto. Finalmente abbiamo scoperto l’identità della ragazzina incinta, Caterina Sforza, che come sapevamo già
non era ad Imola, ma a complottare omicidi a Firenze. Ed Eliseo l’ha detto, tanti piccoli Riario in giro prossimamente!
La parte di Girolamo e Giuliano,
serve proprio per mostrare quanto poco ci si possa conoscere. Girolamo dice:
Giuliano non sa cos’è l’amore ed il brano dopo Giuliano afferma d’essere
innamorato. Poi sai per rendere più
Pathos, il fatto che i due cugini sappiano di essere in guerra e siano
costretti fuori da Roma, mentre tutti i simpatici servi sono ad operare a Roma
per un garzone del macellaio. Ma come abbiamo visto i Demopulos hanno molti e molti segreti.
Riguardo Alfonso
ed Eleonora, non allungheranno
la trama, hanno una particina, la svolgeranno e poi continueranno con i loro
affari. Era giusto per far vedere che mentre Ippolita si intrattiene con Lorenzo e con Caterina, anche suo
marito non si sta girando i pollici.
Come al solito abbiamo un frammento dei
soliti fratelli, la volta scorsa era la sorella con il più piccolo, ora è con
il mediano.
Non dico altro, perché credo non ci sia altro
da dire. Insomma tutto parla chiaramente. Aclima lo dice, sono alle soglie di
una guerra, per il sangue. Il problema è con tutte questa fantastiche famiglie
in guerra tra loro, di chi quale sangue si parla?