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Autore: RLandH    22/08/2014    0 recensioni
“Mamma dice che devo tenervi d’occhio” aveva detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine.
Leonardo Da Vinci incontra in un sogno un ragazzino che sembra presentarsi come un'altra sorsata alla fontana della conoscenza.
Girolamo è perseguitato da incubi.
Una serva, un artista, una madonna ed un indovino.
E tutti sono legati inevitabilmente dal desiderio di una donna di conoscenza, incapace di viver ancora nel dubbio.
Leonardo l’aveva guardato, “Chi sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto.
Genere: Avventura, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nico, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Grazie a tutti quelli che seguono, leggono, commentino, ricordino e preferiscano questa storia. Davvero vi ringrazio, credo sia la seconda storia in tutta la mia vita cui mi occupo in maniera totalitaria, cercando di strutturare tutto in maniera diligente in modo che non ci siano bizze vario. Spero possiate perdonare il mio ritardo, ma ho passato un inverno a servire pesce e scrostare piatti, ed i pochi giorni liberi gli ho spesi cercando di prendere la tintarella al male e ricamando quindici minuti al giorno per dare senso alle parole di questa storia. Ringrazio ancora tutti e chiedo scusa ancora.

Il capitolo di questa settimana è meno prolisso e meno noioso del precendente, ho spezzettato la storia ed eliminato la questione onirica, che nello scorso capitolo mi ha preso la mano. Vedrò di spezzarlo è modificare l’atto IV in due parti …

Buona Lettura

RLandH

 

 

Sono forse il guardiano di mio fratello?

 

 

Atto V: Il peccato è accovacciato alla tua porta

 

(1459)

Chiuse le ginocchia pallide al petto così da incastrare il naso tra le rotule. Suo fratello le accarezzò il crine, con una finta gentilezza che mai aveva fatto parte del suo animo e certamente da un anno a quella parte lo aveva abbandonato completamente. “Tu sei più forte di questo” bisbigliò con voce profonda, infilando le dita nei capelli e separando i nodi che s’erano andati a formare. Fece emergere il volto dalle ginocchia, fissando il fratello, il secondo della famiglia, il maggiore dei maschi, l’erede.  Perché per tutti lei non era che una femminuccia. “Non voglio sposarmi” aveva detto con voce sottile, sentendosi schifosamente stupida, fragile ed inetta, come mai non era stata. Le sue mani tremavano. “Non voglio un uomo, non più, ho voi mi bastate” aveva detto, cercando di racimolare il coraggio nel fondo del suo petto. Aveva l’impressione di sentir il dolore dell’anno prima sulla pelle. “So che temi il tuo marito sia violento” aveva detto suo fratello, circondando le sua schiena con le sue forti braccia, “Mi avrai sempre” le aveva confidato, “Tu ti sei presa cura di me ed io ora mi prendo cura di te” le ricordò , mentre si intrecciavano le loro dita, in quello sguardo si sentiva sicura, annuì, calmando i tremori, che l’avevano animata da che i loro genitori le avevano parlato del matrimonio. Ad una donna non era concesso ribellarsi alle autorità paterne, ne al marito, se fosse stato violento, si sarebbe dovuta far forza e stringere denti, incassando i colpi, odiava la debolezza del suo sesso, Dio era stato ingiusto a non averle dato la dignità di essere uomo. “Se mai dovesse farti del male, sorella” aveva parlato poi suoi fratello, “Io lo ucciderò” aveva aggiunto, non era un gioco, lei lo capiva, suo fratello era serio, quello era un giuramento, avrebbe davvero ucciso qualcuno che le avesse fatto del male, ne era certa, non per la cieca fiducia fraterna, ma perché l’aveva già fatto prima. Sedici anni e già le mani sporche d’una morte, tutt’altro che innocente. Si sentiva in colpa lei, che avesse condannato l’anima di uno dei suoi fratelli per l’incapacità di proteggersi da sola? Avrebbe dovuto impararlo, per salvare le due persone più importanti della sua vita, dall’inferno. Perché era lei la più grande, era suo dovere proteggerli.

 

(01-1479)

“Potresti anche mostrarti contento del mio arrivo a Napoli” aveva detto infastidita sua sorella Eleonora,  dondolava la piccola Sancha sulle gambe, regalandole uno sguardo materno, “Sono sempre contento quando tu o Beatrice venite a trovarmi” aveva risposto lui in tono velenoso. Era vero, per lo più, era davvero allietato quando le sue sorelle tornavano – almeno più dei suoi fratelli – ma devastava orribilmente quando cominciavano a far le signore e padrone. Particolarmente in quel momento, che il regno di Napoli era suo. “Devo dire che Sancha è proprio bella” aveva commentato, accarezzando i capelli della bambina di appena un anno, “Come una gazzella” lo prese in giro, guardandolo con occhi sinistri, cattivi, come quelli di loro padre. “Perché non sei così affettuosa anche con i miei figli legittimi?” aveva domandato Alfonso esasperato, mentre si sistemava meglio sulla tavola, “Ho una passione per i bastardi” disse cattiva, pizzicando le guance di Sancha che rise.  Il re ordinò che venisse servita la cena a lui e alla sua dolce sorella, “Poi odio quella sgualdrina Sforza” aveva aggiunto, giocando con i capelli neri della bambina. Eleonora l’aveva poi guardato prima di sorridere in maniera piccata, “A proposito dov’è la mia amata sorella?” aveva domandato, mentre servivano del pasticcio di piccione, “Da sua nipote” aveva risposto sterile Alfonso, cominciando a nutrirsi del suo pasto.

“Mila, riporta Sancha a Trogia” aveva impartito Alfonso ad una cameriera, che aveva annuito, strappando dalle braccia la piccola bambina per riportarla dalla madre. “Se Sancha mangiasse con noi, dovrei permettere a tutti i miei figli di essere qui” disse Alfonso tra una portata e l’altra. E già era complicato sopportare Eleonora, figurarsi con bambini urlanti a destra e manca. La donna alzò le spalle e si godè la cena con distaccato interesse. Ferrara l’aveva cambiata, di Eleonora D’Aragona non era rimasto che un briciolo, visibili nell’aspetto, si chiedeva se sotto quei bei vestiti e quei monili luccicanti ci fosse ancora quella sadica amante della danza dei coltelli. Beatrice era l’intelligente della casa, ma Eleonora era il piccolo orgoglio di Re  Ferrante, non le aveva mai detto in tutta la sua fanciullezza di star zitta, come faceva con lui, aveva anche mostrato un segno di tristezza, quando Eleonora era partita per Ferrara, subito dopo essersi maritata.

Da bambina Eleonora lo vinceva sempre nelle competizione, Alfonso ribatteva che perdeva perché da bravo fratello adorava lasciarla vincere, ma non era vero. Eleonora era forte e cattiva, il solo pensare alla sua infanzia, gli portava dolore al petto, dove quella troia caucasica aveva inciso la parola giocattolo  in quella sua stramaledettissima lingua, immaginava quanto irrisoria sarebbe stata la risata di Eleonora se l’avesse scoperto, immaginò il suo viso contratto dal divertimento e gli occhi azzurri ruggenti. “Immagino tu non sia venuta qui solo per una visita di cortesia” disse Alfonso, che ormai la sua famiglia la conosceva bene, “Mi mancavi” commentò con voce divertita, leccandosi le labbra. “Non ti credo” aveva risposto seccamente quello. Dopo la presa di Otranto, Eleonora aveva scritto solo una lettera per la compianta morte di suo padre, scusandosi di non poter venire al funerale, con una scrittura distratta, veloce ed impersonale, non sua ma di suo marito, in basso, sul fondo, con quella grafia piccola, minuta e calcata che la rappresentava, aveva scritto dei complimenti per aver fatto qualcosa di concreto per una volta. Eleonora sapeva sempre tutto, Alfonso era certo si riferisse al parricidio del loro padre che alla tenuta della città.

Mangiò un po’ dello stufato di piccione che avevano portato, sentendolo stopposo nella bocca, era davvero la cena melliflua o la compagnia? Eleonora sorseggiava acqua con letizia, perché chiunque nascondesse qualcosa non poteva perdersi nell’ebbrezza d’anche un solo bicchiere di vino e la madonna di Ferrara era un’abile prestigiatrice nell’arte della menzogna. “Ti spiegherò tutto, fratellino” aveva concesso alla fine, posando il calice orato sul tavolo, prima di concedersi anche lei allo stufato, per riscaldarsi il ventre, “Ma tu dovrai organizzare una festa in maschera in mio onore” aveva detto con un sorriso depravato sul viso, gli occhi azzurri luccicavano di malizia, a guardarla Eleonora D’Aragona sembrava l’innocenza e la dignità cucita sul viso d’una donna, con abiti eleganti, tutt’altro che volgari ed una croce al petto simbolo della sua buona fedeltà a Dio, ma Alfonso sapeva fosse nulla più che una becera sirena. “Così che tutta Napoli possa ridere dell’assenza di mia moglie?” aveva detto lui infastidito, era una scusa insulsa, ma difendibile, per tutto il regno si chiacchierava della relazione che v’era stata tra il Magnifico e Ippolita Sforza e non era affatto sua intenzione farsi ridere ancora dietro, lasciando al popolo la chiacchiera su dove fosse sua moglie. “Trogia sarà contenta di sostituirla” aveva risposto a tono sua sorella, “Potrà fingere per una notte d’esser regina di Napoli” aveva aggiunto, quasi intrigata, “Non solo renderai lei felice” aveva ripreso, “Ma anche la tua adorabile mogliettina morente d’invidia” aveva detto Eleonora. Una maledetta sirena.

 

“Padre”  aveva provato ad esordire, “Santo padre” l’aveva corretto disgustato l’uomo, standosene con un sorriso tirato sul suo trono d’oro massiccio, “Santo padre” ripeté a tono basso quello, “Io starei …” aveva ricominciato, ma era stato interrotto un’altra volta, dall’alzata di mano di Sisto, che aveva anche dato l’impressione bruciarlo con gli occhi, piccoli e cattivi, sistemandosi poi meglio la tiara papale sul capo, seduto mollemente sul suo trono, Sisto pareva immensamente distante da ciò che Pietro doveva essere, nulla più che un Re terreno, ornato d’oro  e gioielli, vittima consapevole del peccato. “Non ci importa” – aveva imperato quello – “Cosa tu e la tua puttana stiate combinando nel ghetto ebraico, Girolamo” il suo tono era maligno, irremovibile come fosse stato di stoica pietra, lanciando uno sguardo snaturato, ma con una malcelata esasperazione, al nipote, “Accompagnerai Lupo e Giuliano a Bologna, siamo noi ad ordinartelo” aveva impartito, sollevandosi dal suo trono, puntando l’indice abbellito con un anello d’orato, con un diadema vermiglio come il sangue. Sembrava in quel momento Dio in persona giudicatore, pronto ad aprire una voragine sotto i piedi di Girolamo e mandarlo al giudizio di Minosse, in un girone infernale, tra i caini per aver tradito il proprio padre.  “O osi opporti a noi? Noi che siamo Pietro, che facciamo le veci di Dio in terra?” aveva aggiunto con un tono imperioso, di chi non avrebbe ammesso insubordinazione. Girolamo era minuscolo davanti quel vecchio, non aveva potere, non aveva dignità, “No” rispose succube,  torturandosi a sangue un labbro; il papa lo aveva poi scacciato con nulla più che un movimento della mano, quasi fosse stato un misero insetto.

Onora il padre, dicevano le scritture, ma a Girolamo era venuto, di quei tempi, quanto mai difficile rimanere legato a quel comandamento; quale padre doveva onorare? Quello che rivendicava il sangue? O quello che rivendicava la fede? O quello che rivendicava l’educazione? Avrebbe dovuto seguire Alessandro Della Rovere? Franceso Della Rovere? O Paolo Riario? E perché mai sentiva nel suo petto i cancelli di Pietro chiusi e ferrati, quasi il buon Dio avesse smesso d’ascoltar le sue preghiere.  Era davvero chiuso fuori dalla Grazia? Scacciò quelle malsane idee dalla sua testa, costringendosi a rimanere diligente alle direttive dell’ebreo, al libro, ai suoi sogni e alla sua colpa, qualunque essa fosse. Prima di rendersi conto di dover nuovamente accantonare tutto per svolgere in nome d’un Dio che aveva smesso di assistergli, una missione per il volere degli uomini, che nulla aveva del cielo. Era per la terra, alla terra, che lo allontanava ogni istante di più dalla beatitudine.

 

Girolamo sentiva la rabbia fluirgli in ogni parte del corpo, come fosse stato il suo stesso sangue, mentre osservava  una diligente Zita preparare i suoi bagagli, con una meticolosa cura nel piegare perfettamente i suoi indumenti. Odiava di dover partire di fretta e furia, non essendo ancora venuto a capo, dei misteri di cui la sua mente era stato insidiato dalle parole di Eolo; aveva avuto in custodia Dracone e Silvano per due giorni ed una notte, cavando poco più che un ragno dal buco. Aveva certamente scoperto che il greco fosse l’uomo che Eliseo aveva indicato, visto quello che aveva detto a Zita sulla morte, e nonostante l’aspetto masculino era certamente lui l’amante del cugino. Silvano alle torture aveva piano e strillato, dicendo di non sapere niente, ma Dracone era stato irremovibile, quasi il dolore non lo toccasse, aveva urlato, ma al parlare la sua lingua s’era fatta annodata, aveva semplicemente guardato Zita e chiesto ancora una volta se lei fosse la morte. Poi  Giuliano gli aveva scoperti per caso, o forse era stato quell’abile osservatore d’Artemisio e parlare al suo signore dei loro ospiti. Quando suo cugino aveva visto Silvano ed il suo viso d’angelo, aveva battuto gli occhi disinteressato e Girolamo s’era complimentato per la sua capacità di mentire, ma suo cugino s’era tradito quando aveva visto l’altro uomo in catene, Dracone aveva riso, animato da una qualche perversa consapevolezza, quasi divertito da tutte le torture che aveva subito e Giuliano era rimasto immobile, quasi Dio l’avesse trasformato in una statua di sale.  Appurato Silvano fosse nulla di più che un innocente spettatore, Girolamo s’era sentito vagamente incolpa quando aveva deciso di metter fine alla sua vita, consapevole di essere causa ed artefice della morte del ragazzo, aveva scelto qualcosa di veloce, che permettesse al giovane d’abbandonar quel mondo in maniera tutt’altro che brutale, un riguardo che Girolamo non avrebbe avuto per quasi nessuno al mondo. Raffaele aveva insistito per salvarlo, aveva pensato suo cugino fosse divenuto o troppo tenero di cuore – cosa che Violante non gli avrebbe mai permesso – o eccessivamente schiavo dei suoi istinti – altra cosa per cui sua sorella lo avrebbe volentieri preso a legnate – cosa che aveva ugualmente perplesso Girolamo. Ma il giovane Riario aveva trovato per l’apprendista del macellaio una fine anche peggiore quella che il conte aveva programmato, una misericordiosa morte, l’aveva donato al Santo Padre e poi aveva scommesso con i suoi cugini su quanto sarebbe durato, il sorriso oscenamente divertito, di pura cattiveria; nonostante tutto Girolamo non godeva del male d’un innocente e non aveva partecipato al gioco, Giuliano aveva la mente ossessionata dal suo amante ed ugualmente s’era sottratto, così Raffaele s’era costretto a dover aspettare il rientro di Giovanni.

“Non puoi venire come ne” disse a Zita, quando lei ebbe chiuso la sua sacca. La donna lo guardo allungo, stringendo le labbra, “Sarei perduta senza di voi” disse, ricordandoli il discorso che avevano fatto prima della partenza per il Nuovo Mondo, “Lo so” aveva ribadito quello, “Ma ho bisogno che qualcuno di cui posso fidarmi resti qui” aveva aggiunto, accarezzandole il viso. Giuliano sarebbe stato a Bologna con lui, ma i suoi poteri cardinalizi continuavano a macinare anche in sua assenza, sebbene le persone di cui si fidassero fossero poche, era un uomo furbo suo cugino, se si fosse trattato di qualsiasi altro amante l’avrebbe scialacquato lui stesso, concentrandosi sul prossimo con un sorriso onesto sul volto ed il disinteresse di cui era padrone, ma Girolamo  aveva l’impressione che la fine della sua relazione con Dracone fosse ancora molto lontana dalla fine. Non di certo per la sua abominevole passione o l’amore – per l’amore del cielo, Giuliano ignorava un tale sentimento –  ma perché era l’uomo che Eliseo gli aveva indicato ed ovunque Dracone avrebbe potuto condurre Girolamo, avrebbe fatto strada anche a Giuliano.

L’unica cosa che lo rattristava era la possibilità d’aver suo cugino come nemico, non che questo lo stupisse, aveva imparato, davanti lo sfortunato cadavere di Amelia Donati, che per raggiungere i propri fini si era disposti a calpestare anche il proprio sangue.  Un uomo che uccide il suo sangue è maledetto, aveva detto una volta a sua madre, l’unica che avesse mai considerato come tale, Bianca Della Rovere aveva annuito, passandoli le dita tra i capelli scuri, come Caino aveva aggiunto, il sorriso sul viso della donna era appassito come se l’autunno fosse d’improvviso esploso sul suo viso, ma gli uomini sono marci, aveva risposto sua madre. Quel giorno Girolamo aveva nascosto il viso nel ventre di sua madre ed aveva chiesto quale uomo avrebbe potuto odiare un suo fratello, ribadendo che lui non l’avrebbe mai fatto. Sua madre aveva sorriso in maniera fragile, allora Girolamo non aveva capito, ma poi era stato certo che Bianca, in quel momento, avesse pensato a Francesco ed Alessandro della Rovere; sua madre aveva baciato la sua fronte ed aveva risposto che anche lei ignorava come si potesse odiare un fratello, sua madre era così buona, secondo Girolamo, che quasi si chiedeva come potesse condividere lo stesso sangue di tutti i suoi fratelli, zio Raffaele compreso. L’ultima volta che s’erano visti, qualche annetto prima, le cose erano cambiate, Girolamo conosceva bene la lenta agonia che aveva logorato l’anima di Caino, macchiandolo poi di quel peccato immondo come il fratricidio, ma sua madre lo aveva abbracciato lo stesso, ma a suo fratello il papa, quando era stata a Roma, aveva sputato in viso, Oh Caino, neanche il marchio te concesso, aveva urlato e quella era stata la sua ultima visita a l’Urbe. Girolamo le aveva chiesto come avesse fatto a capire che i due papi erano stati sostituiti, sua madre aveva il viso anziano torturato dal dolore, “Sono i miei fratelli, credi che avrei potuto confonderli per un solo istante, bambino mio?” aveva domandato con le lacrime agli occhi, “Se tu fossi sostituito con qualcuno che ti somigli come una goccia d’acqua, Violante lo capirebbe e gli caverebbe gli occhi con un coltello da pane” aveva aggiunto, sopprimendo un lamento, lei non poteva farlo, perché come Francesco, anche Alessandro condivideva il suo stesso sangue. Poi Girolamo aveva capito che anche sua madre capiva la colpa di Caino.

Girolamo aveva baciato la fronte della sua amante, “Farò in modo che tu e Dracone siate al sicuro” aveva  risposto, nel tempo che lui fosse stato a Bologna, per occuparsi delle commissioni papali. Zita aveva cercato di nascondere sul viso un espressione pavida, sfiduciata molto dalle parole del conte e Girolamo s’era sentito impotente della sua incapacità di rassicurarla, lei che era l’unica cosa bella che aveva. “Starete da mia sorella, madonna Violante Riario Sansoni” le aveva detto il Conte alla fine, dopo un lungo respiro; per il potere Romolo aveva ucciso Remo, Caino assassinato Abele, suo padre imprigionato suo zio, ma in tutto quel marciume, quel tradimento delle famiglie, Girolamo poteva sentire la sicurezza che Violante gli dava, l’ultima certezza che aveva, oltre l’ingenuo amore per Zita. Nonostante la rabbia che aveva animato sua sorella nel loro ultimo incontro, Riario sapeva del legame imprescindibile che gli legava,  siamo come Oreste ed Eletra noi, aveva bisbigliato lei,  quando s’erano visti, c’era astio nel suo tono, ma poi l’aveva stretto ed aveva pianto sulla sua spalla, fragile come una bambina.

Zita aveva sorriso rincuorata, baciandolo di sorpresa. Girolamo l’aveva allontanata lentamente, “Andrete da lei, questa notte, vi porterà Raffaele” aveva aggiunto, suo nipote era un ragazzo furbo, che sapeva sempre quand’era opportuno chiedere e quando no; si era anche offerto d’estorcere tutto quello che poteva da quel sodomita, Zita avrebbe dovuto presenziare a tutti gli interrogatori per esser certa della veridicità. “Partirete domani mattina, mio signore?” aveva domandato Zita, anche se la risposta a quella domanda, la conosceva assai bene, l’uomo aveva mosse il capo in segno d’assenso, allora la donna l’aveva baciato ancora, con ardore e passione, pareva quasi animata dalla paura che quella fosse la loro ultima notte. Girolamo l’aveva stretta sentendo anche lui l’ardore del non volersi allontanare, del desiderio di volerla tenere stretta, quanto avrebbe voluto sciogliere il suo caustico matrimonio e sposare quella donna davanti agli occhi del signore, così che si sarebbero potuti amare in maniera candida. Spinse Zita sul letto cominciando a spogliarla dei suoi abiti, ricambiato dalla donna che s’impegnava, tra un bacio ed una risata di fare la stessa cosa, non più un ombra ruggiva nei suoi occhi. Baciò ogni porzione della pelle che vedeva scoperta, discendendo lungo quel ventre scuro, pensando alle parole di Eliseo, sulla sua paternità, sarebbe stato così orribile se avesse impalmato Zita quella notte? Si sentì profondamente egoista. La baciò sulle labbra, assaporando la dolcezza di quelle labbra, per guardarla negli occhi,  “Mio Re Salomone” sussurrò lei, quasi divertita,  Girolamo la baciò ancora, mentre con una mano raggiungeva la sua femminilità, umida.

 

Lucrezia Normanni era uscita dalla vasca da bagno come Venere era sorta dalle acque, con i capelli biondi impregnati d’acqua, che gocciolava sul suo corpo gnudo. Giuliano aveva spesso disdegnato la morbidezza d’un corpo femminile, trovando nelle illustrazioni sconce sempre più appagante osservare Ares che la sua amante. Ma Lucrezia era un eccezione, dovuta più al carattere della donna, che ricordava più quello d’un esotico animale delle savane che d’una delicata matrona Romana. “Vai a Bologna?” aveva domandato Lucrezia, camminando scalza sul pavimento del suo bagno, fino a raggiungere la sua camera da letto, incurante dell’aria gelida di gennaio che filtrava dalle imposte,  invece della sua veste notturna, la donna l’aveva sbeffeggiato indossando la sua veste cardinalizia. “Cosa vuoi da me, Giuliano?” aveva chiesto, la stoffa s’era impregnata d’acqua aderendo al suo corpo tondo, mostrando le sue vergogne sotto la tunica porpora. Un osceno, quanto meraviglioso sacrilegio. Eppure davanti tale beltà, Giuliano immaginò che nudo come era venuto al mondo ci fosse stato Dracone, lui però non sarebbe rimasto a farsi guardare come faceva lei, con il narcisismo tipico delle donne, quello si sarebbe già avventato su di lui, per baciarlo, martoriarli le labbra, la pelle e lo spirito. Giuliano non aveva mai amato nessuno dei suoi amanti, trovando quel sentimento nulla più d’un veleno, piacevole, meraviglioso, ma ugualmente mortale. Eppure sarebbe stato  una menzogna, a Dio, agli uomini, a se stesso, se non avesse ammesso di aver ardito d’amore per Lucrezia e Dracone, aveva spesso di continuo fantasticato d’averli nel suo letto assieme, nudi e pronti per l’amore, a volte aveva immaginato d’osservarli e basta, mentre s’amavano loro, vedere le due persone di cui s’era infatuato far l’amore con lui a guardarli, l’unioni della bronzea carnagione di Dracone con il pallore di Lucrezia. I loro gemiti, che sarebbero stati per le sue orecchie musica.

Accarezzò le guance rosate di Lucrezia, con delicatezza, “Non esiste al mondo, persona di cui ora mi preoccupi più di te” mentì, perché c’era anche Dracone, che era da qualche parte nelle segrete di quella Gomorra travestita da Eden. “Sarebbe meglio se per tutta la mia assenza, restassi nella tenuta dei Normanni” aveva detto, infilando le dita nei capelli bagnati, “Che dovrei venire a fare qui, in tua assenza, scusa?” aveva riposto piccata lei, “Compagnia al santo padre?” aveva detto impudente.  Giuliano aveva riso, profondamente divertito, “Certo certo” sminuì la faccenda, non prima d’averla colta di sorpresa con un bacio tenero sulle labbra, Lucrezia sorrise in maniera tremendamente seducente, “Così mi tentate, eccellenza” rise, allacciandoli le braccia al collo ed avventandosi sulle sue labbra. Eppure per quanto la lingua della donna si insidiasse in lui, la mente di Giuliano non riusciva a privarsi completamente dell’immagine di Dracone in catene, con uno zigomo completamente distrutto ed il viso coperto di sangue. Per quanto, per una volta  il desiderio di salvare qualcuno fosse nobile, non poteva dirsi innocente, era vero il rapporto che s’era formato tra i due, era vera la loro passione e le sue labbra, ma il motivo per cui si era avvicinato a lui, non aveva nulla di leggero. “Non starai pensando ancora al tuo giovane macellaio” aveva detto irrigidita lei, scostandosi appena, con le sopraciglia crucciate; dalla cena da Girolamo, Giuliano aveva impiegato davvero del tempo per assicurare la sua amante che lei era l’unica, che con chiunque altro avesse avuto qualcosa, non era stato altro che uno sfogo d’istinti. Una menzogna meravigliosa, amara come l’aceto, che Lucrezia aveva inghiottito assieme ai suoi baci ed alle sue parole fatte di miele. “No, mia bella” disse,  assaporandola ancora le sue labbra, “Sono preoccupato per la partenza di domani” aveva risposto e per il compito che aveva affidato al suo fidato Artemisio, salvare Dracone.  La bocca di Lucrezia s’era costretta in un cerchio, sul viso solitamente stizzito era dipinta un espressione imbarazzata e preoccupata. S’avvicino a lui, portò la bocca all’orecchio, “Ora ci penso io” bisbigliò, prima di succhiare il lobo, s’era allontanata, tenendo sulle labbra un sorriso, poi s’era chinata sulle ginocchia.

 

“La prego Dragonetti, ditemi che avete notizie di Madonna Orsini?” aveva domandato Vanessa, mentre dava ancora una volta disinteressatamente un’occhiata alle lettere che la maggiore delle figlie di Lorenzo aveva scritto al padre e a lei, ripetendo ancora una volta di non avere notizie della madre. Giovanni era al suo fianco per correggere le sue cadute letterali, non avendo ancora la fanciulla preso pratica nella lettura e preferiva di gran lunga la compagnia del giovane Nico. “No, mia signora” disse spento l’uomo, chinando il capo, tenendo il capello tra le dita al petto, in una forma di rispetto che Vanessa trovava ancora faticoso abituarsi. “O santo cielo” bisbigliò, chiudendo tra le mani il viso. Aveva desiderato per tutta la vita un minimo di considerazione, ma era passata dall’essere una suora deflorata che si faceva le ossa in una locanda alla Matrona di Firenze. Erano mesi che non riusciva a cogliere un solo momento con Giulio tutto per loro, dovendo sempre apparire al meglio al fianco di Lorenzo, per mostrare quando la famiglia De Medici, fosse forte; non era neanche riuscita a salutare, prima che partissero, Leonardo e Zoroastro, Nico quella mattina le aveva detto avessero lasciato Fiorenza in piena notte, non aveva neanche capito per quale meta, sperava solo di rivederli, qualunque follia stessero architettando, sapeva di potersi fidare di Leo, perché non l’aveva mai delusa, ma non poteva che sentire l’ansia annidata nel ventre .

 “Ser Piero è arrivato” aveva comunicato Dragonetti, dopo che aveva compreso Vanessa non avrebbe detto altre parole, “Giusto … Il pranzo” bisbigliò la donna, sollevandosi dalla sedia, dandosi della sciocca per essersene dimenticata, afferrò la cappa di pelliccia e la chiuse attorno alla gola, nascondendo il vestito arancio scuro, prima di salutare Giovanni con una riverenza e ricordagli che a metà del pomeriggio sarebbe arrivato il giovane Machiavelli, “Si” aveva risposo il giovane facendole un inchino.  “Lorenzo ha ritenuto questo pranzo così importante” aveva detto, uscendo fuori dal piccolo studiolo, seguita da Dragonetti.

Nella sala da pranzo, la tavola era pienamente apparecchiata, con tutti le vettovaglie lucide, della buona portata, anche Pietro era lì, vestito di tutto punto, senza aver però osato sedersi. La prima volta che aveva visto quell’uomo dal viso imbrunito, ne era stata quasi spaventata, era venuto alla locanda per una strigliata a suo figlio. Leonardo l’aveva guardata, imponendole con gli occhi di non immischiarsi, per non urlare a Pietro quanto meraviglioso fosse il suo ragazzo, Vanessa aveva conficcato le unghia nel bancone con così tanta forza da spezzarle. Ma quando Leonardo era partito, aveva detto a Pietro di essere con quel bastardo una persona migliore di come era stato con lui e così era stato, in Vanessa ed in Giulio aveva trovato la sua espiazione. Sorrise appena la vide, “Ti trovo splendida quest’oggi, signora” disse, chinando appena il capo in maniera signorile, Vanessa ricambiò con una riverenza, che le ancelle della casa De Medici le avevano insegnato.

La tavola era imbandita per sei persone, Vanessa ricordava Lorenzo le avesse accennato dei preziosi ospiti che avrebbero avuto quella sera, ma non ricordava se avesse per caso rivelato le loro identità, oltre questo, in quel momento alla cena erano presenti solo in due, lei e Piero. Si stava giusto chiedendo dove fosse Lorenzo, quando un servitore era irrotto ancora una volta nella sala, “Signori” aveva detto con un momento di imbarazzo, prima di sistemare una seconda persona con lui, un giovane uomo,  forse coetaneo di Vanessa, dall’aspetto gradevole, anche se un po’ trasandato, nella barba incolta ed i capelli lunghi, era pallido come un lenzuolo e portava un abito ricco d’un colore vivace, si sosteneva grazie ad un bastone di legno chiaro, dall’impugnatura nera e rifinita. Vanessa aveva vissuto abbastanza tempo tra il popolo per riconoscere un mercante arricchito, “Il signor Morgante Ricci” aveva presentato con voce squillante, accennando al nuovo venuto, “Ser Piero Da Vinci e madonna Vanessa Moschella” aveva ripetuto presentando gli altri uomini. Il sorriso di circostanza che era stato sul viso del padre di Leonardo, cosa che Vanezza aveva notato, s’era congelato, “Benvenuto” aveva mormorato, mostrando un finto tono accogliente, “Il Magnifico aveva invitato mio padre per il pranzo” aveva detto Morgante, “Ma per un affare era assente dalla nostra amatissima Repubblica, che ha pensato di mandare me, il suo primo figlio” aveva esclamato; muoversi gli dava una certa fatica e strisciava con la gamba sinistra. Aveva sorriso Morgante quando l’aveva notata, “Una vecchia caduta da cavallo” aveva mormorato, mostrando comunque un espressione allegra, quasi per niente incupito da quello.

“Ma l’uomo più amato di Firenze dove è?” aveva domandato Morgante, osservando attentamente Piero. Vanessa non poteva dire fosse un uomo sinistro, ma c’era un luccichio nei suoi occhi che non le rendeva sentirsi perfettamente a suo agio in sua compagnia. “Starà arrivando” aveva risposto l’altro uomo cercando di contenere un minimo nervosismo. Vanessa aveva guardato i piatti lucidi di ceramica sistemati sulla tovaglia turchina, tanta riverenza per chi? I Ricci erano una famiglia che s’era fatta un nome si, negli ultimi  anni di Firenze, una nota e ricca famiglia Mercantile. Spesso aveva visto il detentore degli affari della famiglia, il padre di Morgante, un uomo tutto d’un pezzo,  canuto sul capo, con le rughe sul viso, vestito in maniera impeccabile, tenere al suo braccio una donna dai capelli grigi ed un espressione affievolita. “Per la gioia del cielo, mi ha concesso la visione di tale bella creatura” aveva detto il giovane, con un sorriso solare, ammiccando a Vanessa, che s’era stretta maggiormente al corpo la cappa, le guance si erano colorate, fino a sembrare mele. Da quel momento nella sala da pranzo era caduto uno strano silenzio, accompagnato dall’espressione imperturbabile ed arcigna di Piero ed un sorriso serafico di Morgante. Vanessa s’era chiesta se non avesse dovuto condurli alla tavola, come da brava padrona di casa, ma si sarebbe sentita sciocca ed impudente, se poi i piani di Lorenzo fossero stati altri. Il silenzio durò ancora.

 

Fu Lorenzo De Medici stesso a romperlo, quando era entrato nella sala, aveva sul viso sfoggiato un sorriso come fosse stato un monile di pietruzze lucenti, vestito in maniera elegante, con un giacca di pregiata stoffa rossa, con bottoni di giada, dal decoro di fiori, aveva il giglio d’orato di firenze appuntato al petto. Ordinato, sagace, ben curato. Vanessa sorrise nel vederlo. Lorenzo era meno bello di quanto fosse mai stato Giuliano, meno appariscente, interessante, all’apparenza più mediocre, ma molto più astuto e diligente. Per quanto lei non avesse mai parlato con il suo compianto amante del fratello, per quanto Lorenzo De Medici fosse stato nulla più di un estraneo steso sul tavolo di Leonardo, ora Vanessa si sentiva rischiarata sempre dalla sua presenza; forse perché s’erano fatti compagnia nella solitudine che albergava in quella tenuta e dietro la fortezza di impegni che s’erano costruiti attorno i due. Lorenzo viveva per Vanessa in un costante stato di gratitudine, per donare al palazzo De Medici non solo una presenza femminile, ma per aver donata a Firenze intera l’erede che avevano trepidamente atteso. Lei per lui provava famigliarità, perché Vanessa non poteva ignorare che il sangue che animava quell’uomo, fosse lo stesso degli uomini che aveva amato di più nella sua vita, Giuliano e Leonardo. Uno era in grazia al signore e l’altro Vanessa temeva sempre di perderlo.

Dopo Lorenzo era entrata una donna, era magra, alta e d’aspetto vispo, aveva una lunga cascata di capelli luminosi, due trecce  strette dalle tempie s’univano sul retro della nuca, fasciandole il crine come una corona spessa d’oro intrecciato, tra i fili di capelli c’erano fiori pallidi e perle bianche. Il corsetto era stretto, pieno di lacci, da gran dama, indossava un abito ambra, con frange vermiglie e decori neri, uno smeraldo lucente come monile, stretto in fili d’oro nero sul collo magro. “Sua maestà” aveva bisbigliato timoroso Ser Piero. “Vanessa, mia cara, posso presentarti  la Regina di Napoli Ippolita Sforza?” aveva detto suadente Lorenzo, predendo le mani fini della donna e baciandole, sebbene la postura fosse quella tipica dei galantuomini, Vanessa riconosceva negli occhi lui, amore nudo e vero come poche volte aveva visto e negli occhi di lei devozione come d’una suora a dio. “Sua maestà, il buon Piero lo conosci, la madonna qui è Vanessa mia cognata ed il nostro ospite …” aveva ripreso Lorenzo ammiccando a Morgante, “Non è messer Goffredo Ricci” aveva detto spezzando la sua lingua. Vanessa s’era sentita come se la sua stessa pelle le fosse stretta, quando Lorenzo l’aveva alzata così di grado da farla moglie di Giuliano, lei che non era stata altro che per l’uomo una morbida fuga dai suoi doveri, se l’avesse dovuta sposare forse quell’uomo l’avrebbe odiata, Vanessa l’aveva vista la donna che le sarebbe spettata, piccola, minuta e colpevole del disonore d’un cognome che non s’era scelta, ma così bella e fresca, che al confronto Vanessa s’era sentita usurata.

Morgante non aveva perso il sorriso restando con il bastone ben piantato a terra, davanti i falsi sorrisi fermi sulle labbra dei due, “Perdonatemi Magnifico e sua Meastà, mio padre si scusa, ma era lontano da Firenze per affari ed ha pensato fosse meno sconveniente mandare il suo primogenito che rifiutare l’invito” aveva detto con una galanteria così fine Morgante che per qualche istante Vanessa aveva pensato fosse sul serio un nobile e non il figlio d’un mercante arricchito.  “Un Ricci è un Ricci” aveva detto Ippolita con una risatina divertita, allontanandosi appena da Lorenzo, per allungare la mano verso il giovane, dove svettava un anello d’argento con una pietra rossa come il sangue, “Morgante Ricci, mia regina, incantato” aveva detto l’uomo, baciando le dita. “Accomodiamoci allora” aveva detto Lorenzo riprendendo il suo solito carisma, “Manca un ospite” era stato proprio Morgante a farlo notare, lanciando uno sguardo allo scintillante piatto da portata che sarebbe rimasto senza commensale, “Non temete” –  lo rincuorò la Regina Ippolita – “Arriverà”, il suo tono era stato calmo, misurato e le sue labbra quasi squarciate in un sorriso. Vanessa aveva avuto l’impressione che quelle parole fossero più una minaccia che una rassicurazione.

Lorenzo sedé, come da tradizione, a capo tavola, alla cima opposta s’accomodò la regina di Napoli, con le dita incrociate sul ventre. Vanessa s’accomodò alla destra del Magnifico, alla sua destra s’accomodò Piero, ritrovandosi così alla sinistra di Ippolita. Morgante sedé all’altro fianco di Lorenzo, sotto richiesta stessa di quest’ultimo, lasciando il posto vacante tra lui e la Regina, di fronte Piero. Erano stati serviti vini con miele e sidro di mele frizzante. La prima portata era stato del pane soffiato con del formaggio erborinato, poi era stato il formaggio giallo con i datteri ed altre – troppe – portate fredde s’erano succedute. Vanessa era quasi arrivata alla nausea, quando era arrivato la zuppa di porro. L’aveva mandata giù quasi a fatica, osservando invece gli altri commensali non disturbati da tutto quel cibo, poi s’era ricordata fossero tutti di nobili natali o quasi, che nessuno di loro probabilmente aveva dovuto nella vita neanche per un istante far la fame, prima dell’entrare in collegio, Vanessa aveva sentito fin nelle ossa la mancanza di cibo.

“Non potremmo gustare questo buon pranzo senza tuo padre” aveva detto Lorenzo orgoglioso a Morgante, “Tuo padre è un moderno Marco Polo” aveva  bisbigliato, quello aveva annuito, “Anche lui adora definirsi così” aveva detto gongolante quello, con un tono squillante di voce, profondamente soddisfatto di quei comportamenti. “Davvero?” aveva domandato Ippolita, sbattendo gli occhi,  “Certo mio padre è un mercanti di ogni genere” aveva spiegato divertito Morgante, “Da tutto il mondo conosciuto” aveva aggiunto. Vanessa aveva osservato al mercato i loro importi, era vero s’occupavano di tutto, da vasi, cibarie e probabilmente anche persone. “Anche se ultimamente si stanno avendo problemi per la via della seta” aveva commentato risentito. “Ed è un’attività di famiglia?” aveva domandato incuriosita la donna, prima di bevacchiare un po’ di vino e mangiucchiare del cibo, “Si, sono stati mio padre e mio zio ha fondarla,  più di un ventennio fa” aveva  cominciato a spiegare, “Anche se mia zia non ha mai permesso al suo sesso di limitarla negli affari” aveva aggiunto. “Giocasta certo” aveva detto Lorenzo, “Ci siamo incontrati ad una festa” aveva spiegato con un tono sbrigativo, “Ha sposato un uomo bretone giusto?” aveva ripreso, al ché Morgante aveva annuito, “Mio padre non ne era molto contento all’inizio” aveva rivelato con un tono basso, “Sperava potesse sposare un nobile altolocato italiano” aveva bisbigliato, prima di rivelare che s’era augurato quell’augurio anche per lui Morgante, visto che Goffredo era stato costretto a sposare una donnicciola figlia d’una piccola famiglia ormai da tempo decaduta, che di nobile non aveva altro che il nome. Vanessa era stata quasi sconvolta dalle parole di Morgante, quell’uomo non aveva avuto una sola volta un tono gentile verso la donna che era sua madre. Le era scivolata la forchetta, se un giorno Giuliano avesse parlato di lei a quel modo? Come una donnaccia che aveva avuto la fortuna di stendersi sotto un uomo dal ceto sociale più alto. “Tutto bene?” aveva bisbigliato Ser Piero toccandole la spalla, “Si, mi è solo scivolata la forchetta” aveva bisbigliato lei, cercando di fingere imbarazzo, recuperando la posata.

Ippolita aveva continuato a tenere il sorriso serafico sul viso, “E tuo zio?” aveva domandato, inclinando il capo, sul palmo della mano, un  gomito puntellato sul tavolo. Il viso di Morgante s’era fatto ombroso,  come se quella domanda fosse stata una spada in pieno petto, “Mio zio è morto” aveva detto quello con voce secca,  quasi rabbiosa, “Che dio abbia in gloria l’anima del buon Domenico” aveva annuito Lorenzo, con voce bassa, aveva poi rivelato fosse capitato che a qualche festa data dal buon Cosimo partecipassero i Ricci, tra cui proprio il compianto Domenico. “Alla sua buon’anima” aveva  detto Morgante sollevando un bicchiere di vino, “Io quasi non lo ricordo” aveva confessato, “E neanche mio cugino, Reginaldo, suo figlio bastardo” aveva detto il giovane con voce bassa. Vanessa aveva osato chiedere della madre del bastardo, visto la sua affinità verso gli illegittimi.  “Vive ancora a Pisa, ha un mulino” aveva confidato con voce civettuola Morgante, rivolgendosi proprio a lei con un sorriso scanzonato sul viso, “Reginaldo la vede spesso” aveva confidato, prima di portarsi alle labbra del vino e macchiarla di rosso violaceo. Ippolita aveva continuato a tenere su un sorriso davvero divertito come se l’intero discorso fosse il suo più grande svago, Vanessa la guardò appena, era come se negli occhi ci fosse un fondo di cattiveria. “Ma non si è mai sposato?” aveva indagato battendo le ciglia, prima di dedicarsi nuovamente al suo pranzo, “Voleva” aveva spiegato Morgante, “Ma le cose erano complicate” aveva spiegato, Ippolita aveva sollevato le sopraciglia pallide, “C’è stato lo sfortunato incidente che ha messo fine alla sua vita” aveva ampliato il ragazzo, posando i calici sul tavolo.  “Incidente?” aveva domandato Ser Piero indagato anche lui, il suo viso s’era fatto serioso e così anche Vanessa aveva capito che più informazioni avessero carpito da Morgante e dalla sua famiglia, più avrebbero fatto il gioco di Lorenzo. Ricci era in panciolle quasi assuefatto da tutto quell’interesse dell’alta gente per lui, figlio d’un mercante; “Così è stato detto” aveva detto lapidario. O lei le capiva quelle frasi, quelle circostanze, così è stato detto, diceva Morgante, così è stato fatto passare, urlava in realtà.

Dragonetti era arrivato al momento del prosciutto piccante, reso così da una qualche spezia arrivata dall’oriente. Vanessa aveva sollevato lo sguardo, sorridendo gentile, “Mio signore” aveva detto serio l’uomo chinando il capo a Lorenzo, “L’ultima ospite” aveva rivelato, prima d’essersi fatto da parte. Vanessa aveva osservato con interesse la porta da cui era apparsa una figura piccola.  Era una ragazzina travestita da donna, con una veste morbida d’azzurro intenso, stretto sul petto e scollato, non indossava un corpetto, ma diveniva improvvisamente morbido, come le antiche romane, l’attaccatura del seno, agghindato da tre cinta di perle di mare, ma sul petto erano state cucite pietre brillanti, assieme a merletti pregiati che sbuffavano da sotto la veste,  richiamando un bavero, al centro dei seni c’era un drago-serpente d’argento lucido. Le maniche erano di velluto morbido gonfio, blu pavone. Sul ventre spiccava un tonda prominenza, fecondo d’un bambino, lungo le spalle scendevano ciocche di capelli ferruginosi. Era piccola, s’era resa conto Vanessa, ma non più piccola di lei, quando aveva trovato un folle in stato di semi incoscienza poco lontano dal convento.  Aveva ali sulle spalle, ossa di legno spezzate e pelle di tele rovinata, era stata follia, ma Vanessa aveva pensato fosse un angelo, forse aveva avuto ragione, Leonardo era un angelo, precipito dal paradiso e costretto ad un inferno che non conosceva soluzione, personale ed angosciante, così da non poter permettere a nessuno di salvarlo. Leonardo era un po’ Lucifero ed un po’ Icaro – l’aveva sentito spesso di parlare dei peccati di Dedalo, ma Vanessa avrebbe voluto dirgli che erano quelli di Icaro che pendevano sulla sua testa – era tutto quello, sacro e profano. Un uomo che le aveva promesso la luce e le aveva regalato il buio, un’oscurità così stretta da esser soffocante, di cui ora non avrebbe voluto mai liberarsi. La fanciulla non era più piccola di quando Vanessa aveva amato per la prima volta un uomo.

Il viso di Morgante s’era fatto bianco come ossa, come se la sola presenza l’avesse potuto turbare al punto da privarlo del suo sangue. “Signori, ho il meraviglioso piacere di presentarvi la Contessa di Imola” aveva detto Lorenzo sollevandosi dal suo posto, prendendo la ragazza per il braccio in maniera galante, “Caterina Sforza” quando aveva pronunciato quel nome, accompagnato dall’inchino della signora, Vanessa aveva sentito Piero irrigidirsi al suo fianco. La Regina Ippolita s’era sollevata ed aveva baciato la ragazza sulle gote e sulle palpebre, prima di stringerla in un abbraccio quasi materno, poi la scortò personalmente fino al posto vuoto, proprio al fianco di Morgante. “Contessa” aveva detto Lorenzo, “Loro sono Ser Piero dotto il legge, mia cognata Vanessa e il signor Morgante Ricci, il figlio del mercante Goffredo Ricci” aveva ripreso presentando i commensali.  Caterina Sforza non aveva accennato neanche un minimo sorriso di circostanza, come se l’intera sala la indisponesse. “Scusate il ritardo” aveva detto la ragazzina con un tono perentorio, prima di giustificare il suo ritardo a causa di un malore, nel farlo s’era toccata il ventre tronfio. “Di cosa si discuteva in mia assenza?” aveva domandato poi, mentre una cameriera le serviva il brodo, cercando di ricacciare indietro l’istinto di vomito, cosa che Vanessa ricordava bene; “Di morti” aveva risposto Ippolita quasi divertita.  L’argomento aveva fatto strisciare sul viso della contessa un sorriso.

“Di morti è sempre pieno il mondo” aveva detto la ragazza dai capelli rossi, bevendo dell’acqua chiara, “Giusto un brutto cadavere è stato trovato a Roma, vero cugina?” aveva domandato Ippolita alla ragazzina, con voce divertita. Caterina aveva annuito, prima di ingurgitare un po’ di minestra, “Carlo Mondella” aveva spiegato, “L’hanno ritrovato nel Tevere” aveva rivelato la ragazzina. Morgante aveva riso divertito, “Il Tevere d’oggi giorno è come lo Stige” aveva detto, Caterina aveva riso alla battuta, “Concordo più cadaveri che pesci” aveva risposto la Contessa, con voce dura. Vanessa aveva osservato i suoi occhi erano d’un verde maculato di castano, da risultare gialli, come quelli d’un qualche felino. “Lo hanno aperto come un maiale e buttato nel fiume, i pesci ne hanno mangiato gli occhi e mordicchiati gli organi” aveva detto tremendamente divertita Caterina. Vanessa s’era chiesta come potesse mentre mangiava parlar di cadaveri con così tanta disinvoltura, incinta come era, lei che avrebbe volentieri in quel momento vomitato nel vaso lì di fianco. “Avevo sentito avessero appuntato anche qualche dito, non mi avevi accennato questo, cara” aveva ripreso Ippolita, davvero orgogliosa di continuare quell’argomento. Vanessa era sul punto di alzarsi e congedarsi da quell’ispida cena, mentre osservavano il maialino da latte con il miele, che veniva servita al centro del tavolo.

“Tortura” aveva spiegato Caterina, “Qualcuno voleva risposte” aveva detto la ragazzina, “Forse le ha ottenute” aveva detto Morgante rigido. La Contessa aveva sorriso in maniera superficiale, ma era calato il gelo sul suo viso, “Certo che le ho ottenute” aveva detto poi, con voce gelida. Tutti gli occhi della sala erano concentrati su di lei, ma quelli gialli di Caterina guardavano il commensale, “Quindi la mia domanda, signor Morgante, è perché la sua famiglia mi voglia morta” aveva commentato, prima di guardare il suo ventre, “Ci voglia morti” aveva aggiunto, toccandosi con le mano sottile il grembo. Morgante aveva mantenuto il suo sorriso sbarazzino, “Dunque questa è una trappola” aveva detto esasperato, “O direttamente la mia condanna?” aveva chiesto a Lorenzo De Medici, “Perché mai se mi è concesso il Magnifico si occupa della contessa di Imola?” aveva domandato rabbioso. Poi era avvenuto tutto in fretta, Morgante aveva afferrato il suo bastone da passeggio ed aveva provato  a colpire Caterina dritta sul ventre, Lorenzo l’aveva afferrato per le spalle cercando di bloccarlo, ma Ricci lo aveva colpito sull’addome con un gomitata, Vanessa aveva urlato, “Guardie” aveva strillato Piero, mettendosi tra lei ed il resto del mondo.

Ippolita era schizzata in piedi ed aveva afferrato il braccio della parente per tirarla indietro, ma Caterina s’era già lancia su Morgante armata d’un coltello da burro, lui le aveva messo le mani alla gola zoppicando appena. Lorenzo era finito per terra, s’era alzato respirando a fatica, afferrando il bastone da passeggio, aveva colpito Ricci alla gamba offesa; nonostante la poca aria alla gola, Caterina aveva infilzato con il coltello l’avambraccio di Morgante. L’uomo aveva urlato e lasciato il collo bianco della ragazzina, il rosso aveva macchiato le vesti, il tavolo ed il viso di Caterina. Morgante era caduto per l’urto alla gamba e s’era sfilato il coltello schizzando ancora rosso, che s’era riverso sotto di lui. Dragonetti era entrato di tutta furia, assieme alla guardia cittadina ed un uomo dai capelli biondi, “Contessa” aveva detto questo afferrando per le spalle Caterina, questa era fuggita recuperando il coltello sporco di rosso, prima che riuscissero a fermarla, l’aveva già piantato tra gli occhi di Morgante. “Caterina, sant’iddio il bambino” strillò Ippolita  circondandole il petto con le braccia per tirarla indietro, “Adelchi aiutami” ringhiò al biondo, che aveva aiutato  la regina e spintonare Caterina senza però urtare in alcun modo il grembo, “Contessa” ripeté, “O per la gloria di Dio, Adelchi! La tua incompetenza mi farà finire al creatore prima del tempo”  aveva detto riprendendo fiato.  Dragonetti aveva aiutato Lorenzo ad alzarsi, “State tutti bene?” aveva domandato immediatamente il Magnifico; a causa di tutte le urla che aveva gettato, le si era spezzata la voce nella gola. “Si ma io non ho avuto le mie risposte” aveva detto Caterina, liberandosi delle mani che la teneva ferma,  Lorenzo De Medici la guardò critico, quasi disgustato, non che Vanessa avesse guardato loro, osservando solo il coltello tra gli occhi sbarrati di Morgante, non aveva avuto così paura dalla presa della città da parte del duca d’Urbino. S’accasciò per terra quasi esangue, Piero le venne dietro per sorreggerla, “Certamente ora abbia un nemico comune, contessa” aveva detto duro Lorenzo, “Giocasta e Goffredo Ricci non faranno di certo passar liscia questa morte” aveva commentato con voce tetra. Caterina aveva sorriso, “Io non li temo” era stata la lapidaria risposta della ragazzina. Piero aveva tenuto Vanessa su con le sue mani, cosa di cui le gli fu infinitamente grata, “Impudente giovinezza” aveva bisbigliato sprezzante lui.

 

“Io vengo” aveva detto Lorenzo, mentre osservava Leonardo buttare a casaccio vestiti o quant’altro in una bisaccia, “No” aveva ribadito Da Vinci. Andavano avanti da almeno un paio d’ore e nessuno dei due aveva ancora deciso di ritornare sui suoi passi. “Ho sempre desiderato vedere Roma” aveva detto vago Di Credi avvicinandosi all’uomo con un sorriso che Leonardo avrebbe definito schifosamente adorabile, “Visitare Roma con me e come girare con un cappio al collo nella speranza qualcuno scelga di annodarlo da qualche parte” aveva risposto serio l’altro. Anche se avrebbe davvero gradito la compagnia di Lorenzo, averlo introno l’avrebbe primariamente distratto dalla sua missione ed in secondo luogo l’avrebbe messo in un grave pericolo, pur di ferirlo, il papa avrebbe fatto a quel ragazzino cose orrende e Riario non sarebbe stato da meno pur di scoprire cosa stesse macchinando. Aveva deciso anche di non portare Nico, sia perché era sempre utile a Vanessa, qualche esperto di legge, sia perché sarebbe stato quantomeno inutile nascondere che l’influenza del conte aveva segnato in maniera indelebile il ragazzo.

Lorenzo gli aveva toccato la guancia, “Io non temo Roma, Leonardo” aveva risposto, rubandoli un bacio, “Non temo papa Sisto, ne la gloria di Dio in persona”  aveva aggiunto sicuro di se. “Mi piace questo tuo cieco ottimismo” aveva detto Leonardo, “Mi ricorda me” aveva detto orgoglioso quello, dandoli un bacio leggero, Lorenzo era una creatura meravigliosa, tutto di lui lo diceva, aveva un viso sottile, dai tratti infantili ed i riccioli bruni, serpentini, come quelli d’una figura antica. “Ma la risposta è ancora no” aveva stabilito ancora una volta Da Vinci, “Non verrai a Roma con me” aveva risposto. Il viso di Lorenzo s’era tinto di rossa rabbia, gli zigomi erano infuocati come se fossero stati accessi da tizzoni ardenti; forse avrebbe dovuto dirgli che era per il suo bene, ma la verità era che se avesse detto quello Lorenzo avrebbe passato le notti con occhi sbarrati contando i giorni e le ore, si era innamorato quel ragazzino, Leonardo lo comprendeva, ma non aveva la forza di spezzare un cuore, non così bello come quello di Lorenzo, era un’anima innocenza che non aveva voglia di sporcare, ne di illudere. Non era certo che un giorno sarebbe stato in grado di poter concedere il suo cuore a qualcuno di diverso di Lucrezia Donati, un’anima nera come lui, con un cuore secco ed un dolore nel petto. Gli sarebbe piaciuto poter essere così folle da amare qualcuno in maniera innocente. Lorenzo gli picchiò le mani sul torace. “Sei pronto? Ho fatto sellare i cavalli” aveva esclamato Zoroastro entrando nella stanza di Leonardo, con i ricci scomposti ed un vestito molto sobrio in confronto al suo solito, “Si” aveva risposto Da Vinci, “No” Di Credi, “Io non sono ancora pronto” aveva commentato, Zoro aveva inclinato il capo, guardando il ragazzo più giovane tra l’esasperato ed il divertito, “Se così è, vado a sellare un quarto cavallo” aveva detto alla fine con un sorriso soddisfatto, prima di voltarsi. “Quarto?” aveva domandato Leonardo andandoli dietro, “Avevo detto a Nico di non venire” aveva ribadito, “O Leonardo, adoro quando sei così autoritario, ma non puoi controllare tutti”  aveva borbottato Lorenzo alle sue spalle. Zoroastro aveva riso tremendamente divertito scompigliandosi ancora di più i capelli riccioluti, “Ma Nico ha detto che resterà con Vanessa, anche se è tremendamente abbattuto” aveva commentato, “Botticelli mi ha detto che sarebbe venuto con noi”. Leonardo aveva arrestato la sua camminata improvvisamente, Lorenzo le era finito addosso, mentre Zoroastro aveva terminato la sua avanzata, voltandosi verso di lui, quasi per gustarsi la sua espressione.

Leonardo aveva trovato Botticelli nella sua stanza, stava sistemando le sue ultime cose, cioè valutava se dovesse portare il pennello di tasso o quello di coda di scoiattolo. “Per quale assurdo motivo vuoi venire a Roma con noi?” aveva domandato Da Vinci entrando nella stanza di Sandro. Il ragazzo aveva sollevato gli occhi,  se ne stava in panciolle sul suo letto, indossava soltanto la calzamaglia e gli stivali neri lucidi, standosene a petto nudo, era magro come un chiodo, “Non con voi” aveva ribattuto, posando i pennelli sul tavolo da lavoro, “Solo il viaggio, vado a Roma per tutt’altre questioni” aveva ribattuto, voltandosi verso Leonardo, del tutto turbato dalla sua seminudità, nonostante fosse tutt’altro che abituato a starsene in quello stato di fronte una persona. “Ti ricordavo più muscoloso, Sandro” aveva detto Lorenzo sbucando dalla porta, “Non voglio che nessuno di voi due venga” aveva strillato Leonardo decidendo di ignorare quella battuta, che aveva colorato di rosso le gote di Botticelli. “Adoro quanto tu sia deciso, Leo” aveva esclamato Lorenzo,  con un tono divertito, come se le parole dell’uomo non avessero alcuna importanza, “Ma io verrò con te” aveva aggiunto, stringendoli le braccia al petto, Leonardo s’era allontanato, “Sarebbe davvero pericoloso” aveva ripetuto con un tono quasi funereo.  “Apriti cielo, le vostre manfrine sbrigatevele altrove”  s’era lamentato Sandro, afferrando una camicia cipria dai bottoni in legno lucido; “Io verrò comunque” aveva stabilito l’artista, “Non mi riguardano le vostre facezie” aveva detto sicuro di se Botticelli, chiudendo i bottoni della camicia.

Da Vinci avrebbe volentieri ucciso entrambi i giovani, tra Sandro le cui motivazioni rimanevano mistero e Lorenzo che s’era incaponito non c’era stato verso di dissuaderli. “Cosa ci vuoi fare, sono gli artisti” aveva detto Zoroastro ridendo di lui, mentre dava dei semi al cavallo, Nico al suo fianco rideva divertito da quella battuta, “Tu cerchi di convincerli che quello che fanno è un azione suicida, ma loro lo fanno lo stesso” aveva ripreso, mantenendo un sorriso sardonico. Dopo aver passato l’intero pomeriggio ad urlarsi con quei due non era decisamente dell’umore per badare all’ironia del tombarolo. Yana era venuta da loro, ad ogni suo passo la gonna le si gonfiava di continuo, portava una borsa di traverso, “Dimmi che non vuoi venire anche tu” aveva quasi supplicato Leonardo, la ragazza aveva sollevato un sopraciglia, “Una sola vita non mi basta per sopportare un altro viaggio con lei, maestro” aveva risposto Yana, lasciandoli cadere la borsa sulle braccia, Da Vinci l’aveva aperta scoprendo che era ricolma di viveri, “Verrocchio vi manda la sua benedizione” aveva detto Yana prima di andare via. Leonardo s’era sentito così piccolo, da che aveva scoperto della taciuta visita di Filippa Demopulo, non aveva più parlato con il suo maestro. “Dovresti andare, Leo” gli aveva consigliato Zoroastro, perché per quanto Leonardo si sentisse offeso, ciò che Andrea faceva era ciò che ogni padre faceva nella speranza di proteggere il figlio. Aveva annuito e s’era diretto verso l’interno della Bottega.

Andrea era nel suo studio, faceva una cosa che Leonardo non gli vedeva da fare da anni, dipingeva alla luce d’una candela, era un quadretto piccolo, che prendeva fino al seno quello che erano i primi segni d’una figura femminile, un incarnato pallido screziato di bronzo, con capelli scuri con fili chiari. “Non aspetterete domani mattina per partire” aveva detto Verocchio, immergendo ancora il pennello nei colori che aveva sulla tavolozza, voltandosi appena verso Leonardo, anche i suoi baffi erano tinti di vernice. “Sebbene viaggiare al buio sia pericoloso, alla luce potrebbe esserlo di più” aveva risposto chiaramente Leonardo, sarebbe stato stupido negare che il suo nome non comparisse sulla lista nera di fin troppe persone, Verocchio rise, era un immagine soffusa, alla luce crepitante d’una candela. “Sii prudente” s’era raccomandato il vecchio, ben conscio di parlare ad un muro, prima di tornare alla figura morbida che rappresentava;  sul tavolo c’erano sparse delle carte, a cui Leonardo non aveva dato poi così tanta importanza, “Era molto che non dipingevi” aveva constato, sedendosi su una sedia di legno con cuscini colorati, “Forse troppo” aveva riposto l’uomo, lasciando i pennelli, era diventato stanco per dipingere di notte. Così si era accomodato accanto a Leonardo.

 “Non mi piace questa storia” disse Andrea, “C’è di mezzo il Turco” aveva detto evasivo Leonardo, cercando una mera giustificazione, “Per questo” aveva aggiunto Verrocchio,  appallottolando la pergamena da un lato della scrivania, davvero spaventato da quello; “Ragazzo mio, l’ho capito da quando tuo padre si è presentato alla mia porta che eri speciale” aveva cominciato Andrea dopo un lungo sospiro, “Avevi quegli occhietti vispi” aveva ripreso il maestro, accompagnando l’azione con ampi gesti delle mani, che fecero ridere Leonardo, gli occhi di Andrea erano stanchi, vecchi, ma ancora lucidi della meraviglia, che brillava solo nei giovincelli, “Ho capito che avrei dovuto esser sempre vigile, per impedirti di finire dei guai” aveva ripreso Verrocchio, con una risata genuina sul viso, che Leonardo aveva volentieri accordato, Andrea aveva fallito, in un modo o in un altro, Leo aveva sempre trovato il modo di finire in qualche problema, nonostante tutti gli sforzi di Andrea.

“Nonostante ormai mi sia abituato a vederti in catene da qualche parte” aveva commentato con un tono di voce basso, con le palpebre semi-chiuse, “Non posso fare altra cosa se non preoccuparmi” aveva commentato, le dita nodose si erano fermate sulle vecchie pergamene. Leonardo gli aveva messo una mano sulla spalla, avrebbe voluto rassicurarlo sul fatto che sarebbe tornato, ma sia lui sia Andrea erano ben consapevoli di quanto raramente i piani di Leonardo seguissero la via stabilità; avrebbe potuto rincuorarlo dicendoli di conoscere perfettamente l’anno della sua morte, ma il tempo ed il destino erano un fiume circolare, che cambiava sempre, un Leonardo aveva perso il libro delle Lamine, lui non avrebbe compiuto lo stesso errore. “Puoi fidarti di me?” aveva domandato alla fine guardando l’uomo che era suo padre, quello che lui almeno sentiva come tale, Verrocchio aveva annuito, “Sempre, ragazzo mio” aveva risposto quello, prima di nascondere quelle pergamene ingiallite, percorse da inchiostro rugginoso in un vecchio cassetto squassato della scrivania. Leonardo le aveva guardate appena, chiedendosi cosa ci fosse scritto, dopo il viaggio avrebbe indagato. “E ora che vada” aveva detto Da Vinci sollevandosi dalla sedia su cui si era accasciato, ricordandosi di dover ancora convincere quegli altri due di non venire, “Mi raccomando Leo, sii prudente” lo pregò il maestro, consapevole sella sua stessa illusione, Leonardo aveva chinato il capo prima di defilarsi, Si padre, aveva pensato.

Nelle stalle, Nico aveva sistemato la borsa di viveri su un cavallo dal manto scuro come il fumo d’un incednio ed il crine nero come il carboncino. “Abbiamo fatto serrare tutti i cavalli, Maestro” lo aveva rassicurato Nico, passando la mano segnata dalle lacrime di vedova, sul muso dell’animale, in un misurato gesto d’affetto. Dire che il giovane non nascondesse un risentimento sarebbe stato sciocco, il suo viso era come sempre colorato dalla semplicità, ma Leonardo scorgeva negli occhi un venato rimprovero a se stesso, probabilmente Nico si dava la colpa per non essere stato considerato nel viaggio, lui che lo aveva accompagnato fino in Valacchia. “Assicurati che Vanessa sia sempre sicura” aveva detto Leonardo; tutta Firenze sarebbe morta per proteggere Giulio, ma la sua amica? Difficilmente. Nico aveva annuito, “Certamente” aveva ripreso prima di osservare Zoroastro che si avvicinava, Leo notò continuava ad essere vestito in maniera sobria ma indossava un mantello violaceo con stelle argentate, era seguito da Botticelli con una sacca alle spalle vestito di cipria con i risvolti argentei e Lorenzo di Credi, conciato come suo solito con colori sfavillanti e qualche balza, non avevano decisamente idea di come si viaggiasse di nascosto. Sospirò affranto, cosa che aveva fatto ridere Zoro ed anche Nico.

Lorenzo si era avvicinato a lui, lo aveva baciato in maniera gentile continuando a tenere sulle labbra un sorriso, “Ma chi si occuperà ora del quadro della Madonna con il drago-serpente?” aveva chiesto il biondo, infilando una mano tra i riccioli biondi. Botticelli aveva mosso la mano disinteressato e questo aveva stupito parecchio Leonardo, non era mai capitato che Sandro mettesse qualcosa davanti la sua arte, qualsiasi cosa, compreso se stesso. Lorenzo s’era morso le labbra, “Non importa” aveva confidato poi, stringendo le sue dita a quelle di Leonardo, che sapeva avrebbe dovuto scostarle, ma non l’aveva fatto, poi aveva sollevato gli angoli della bocca in un sorriso vagamente dolce, quasi scaldato nel cuore da quell’affetto. Avrebbe probabilmente rotto lo spirito di Lorenzo e questo l’avrebbe perseguitato a vita, così come aveva sfinito l’anima di Jacopo e tutti quelli prima, solo Lucrezia era rimasta in piedi, con quegli occhi ammaliatori e rovinosi, tentatori come quelli del serpente nel giardino dell’eden, ma lui non era Adamo. “Andiamo, su su” aveva detto Zoroastro, ricordando che Leo aveva un appuntamento con una tale madonna ad una locanda davvero famosa, quindi dovevano andare, qualsiasi cosa dovessero fare gli altri due. Dovevano incontrare Aclima Lysimacus da cinque giorni da quel momento alla locanda di Vannozza Cattanei, non avrebbero impiegato tutto quel tempo per arrivare a Roma, ma era meglio fare in fretta. “Certo che deve essere davvero importante, Sandro, da rinunciare ad un quadro” aveva detto Lorenzo, mentre tirava le redini di un cavallo per condurlo fuori dalla stalla, Botticelli era già saluto sulla staffa, aveva sollevato appena lo sguardo, prima di sistemarsi sulla sella, con il viso marmoreo, senza degnarsi di rispondere, “Adorabile come sempre” commentò Leonardo accarezzando il crine del cavallo.

 

Filippa aveva le cosce strette attorno alla sella e le redine del suo cavallo così annodate ai polsi da ferirli quasi, nel terrore di perderle, sul viso, Lele poteva vedere un espressione quasi funerea. Erano stati a Firenze solamente due giorni, eppure gli era orribilmente chiaro che entrambe le sue compagne di viaggio avessero avuto un mutamento. Aclima s’era privata della smorfia altezzosa e dello sguardo autoritario che la segnava, il suo viso era cereo, perso in pensieri che non potevano essere sfiorati dagli altri. Riguardo Filippa, su quel bel volto che a Lele tanto piaceva guardare albergava una distinta confusione e stanchezza, occhiaie scure come mezzelune segnavano gli occhi neri.  Filippa era stata fuori un’intera giornata e quando era tornata pareva così provata, come se fosse scesa nell’inferno e poi tornata. Qualsiasi cosa avesse commesso durante quel giorno di silenzio, forse Lele non avrebbe mai più rivisto l’impacciato sorriso che aveva avuto da che la conosceva.

Il passo dei cavalli era veloce, la sua signora era impaziente di tornare a Roma. Per arrivare dall’Urbe a Fiorenza avevano impiegato tre giorni, viaggiando per lo più di notte, probabilmente questa volta avrebbero impiegato due giorni. Lele riconosceva quell’impazienza. Aveva accompagnato nell’ultimo ventennio la sua signora ovunque lei avesse voluto. Perciò Lele era certo di scorgere l’urgenza, quando sorgeva sul viso della sua signora, come quando di ritorno dall’ultimo viaggio avevano incontrato quello strano uomo dagli occhi contornati di nero. Lui ed Aclima s’erano parlati, serrati e stretti, da cui Lele non aveva potuto scorgere una parola. Aveva temuto fosse un pericolo, aveva tenuto la mano guantata sull’elsa della spada pronta ad estrarla, ma non era servito, separatosi, la sua signora aveva gridato che era impellente tornare a casa. E Lele aveva annuito, perché il suo compito era seguirla e proteggerla.  Era stato parte dei suoi accordi lavorativi, la richiesta fondamentale che il signor Antonio aveva fatto, il giorno che s’erano incontrati la prima volta. Lele era sceso dagli Appennini ed aveva attraversato lo stato pontificio fino alla marcia urbe, lì aveva fatto ciò che ogni buon mercenario fa, aveva offerto la sua spada e la sua arte a chiunque avesse monete sonanti da offrire. E poi era arrivato messer Antonio, era un uomo di poco più vecchio di lui, con i capelli biondi e vestito in maniera impeccabile, aveva  dato una moneta d’oro a Lele e l’aveva assunto, per quanto tempo s’era trovato a chiedere lui, “Finché non ne verrò a noia” aveva risposto l’uomo, tenendo sul viso un sorriso enigmatico. Alla sua tenuta, non poi così magnifica, dispetto quanto avesse immaginato, Antonio aveva fatto sfoggio di sua moglie e se Lele s’era aspettato un gioiellino dall’aspetto incantevole e tremendamente fragile, aveva fatto mali i conti. Aclima, era quasi coetanea di suo marito, ma aveva un aspetto  rigido, con il viso severo, aveva lunghi capelli scuri come la seta nera ed occhi cattivi come quelli di un silvano, “Devi assicurarti che lei sia sempre al sicuro” aveva detto Antonio. Lele aveva pensato fossero fortunati, erano quasi coetanei – aveva visto di giovani ragazzine di undici anni sposare uomini della sua età – e nel vederli s’era reso conto non fossero due estranei costretti a convogliare a nozze, erano come uniti da un sentimento pericolosamente simile all’amore. Aveva pensato fossero stati innamorati e le famiglie avessero acconsentito, per un fortuito caso, a fargli sposare; si era sbagliato, Antonio e la madonna erano stati due sconosciuti che si erano trovati. Non gli aveva mai visti  scambiarsi affettuosità, se non con il figlio che avevano avuto. Poi a Lele era stato ovvio che Aclima non aveva bisogno che qualcuno impugnasse un arma per lei, ma che qualcuno gliene desse una. E Lele le aveva dato una spada, quando aveva capito era ciò che la madonna anelava. “Nessuno pretende che una signora sappia combattere” aveva borbottato,  quando si era ritrovato nel cortile con la sua madonna davanti, acconciata come calzone e camicia, chiusa sotto una parziale armatura grigio scuro, quella aveva roteato gli occhi, nerissimi come l’onice, “Io si” aveva risposto prendendo la spada dalla cintola ed impugnandola malamente. Era stato un caso esasperante all’inizio, ma ben presto, Lele aveva scoperto nel sangue di Aclima l’arte della battaglia.

Erano stati costretti a fermarsi per dare pace ai cavalli e rinfrescarsi. La madonna aveva usato come scusa il doversi cambiare le bende di sangue di Filippa, frase alla quale la ragazza aveva annuito, con le gote colorate di rosso. Così si erano apprestati ad un fiumiciattolo, lo stesso dove qualche giorno prima avevano lasciato che le correnti si portassero via il corpi dei briganti. Aclima s’era sfilata gli stivali di cuoio svuotandoli di alcuni sassolini e fili d’erba che si erano infilati all’interno, sedendosi sulla terra, poi si slacciò il mantello scuro in modo che s’afflosciasse sull’erba, poi aveva recuperato un capello dalla valigia e l’aveva messo in testa, nascondendo la treccia sotto di lui. Da dove veniva lui, una donna come Alcuma non sarebbe mai stata capita, sarebbe stata considerata una strega e Lele si rabbuiò obbligandosi a privarsi di quei nefasti pensieri. Lontana, come un eco, nella sua memoria s’era aperto il viso d’una donzelletta, con i capelli mossi come le onde del mare, d’un castano scuro, occhi grandi e chiari come la rugiada ed un sorriso così dolce d’esser miele.

Filippa aveva sollevato le gambe, sfilandosi sia le pianelle che le calze blu, rimanendo con le gambe nude all’aria invernale di gennaio e Lele pensò fosse ancora più strano, visto fosse nata in terre molto più calde.  Era entrata nel fiume, tenendo sollevato l’orlo così da bagnarsi i piedi fino alle caviglie, si mosse un po’, come presa dai brividi di freddo. A Lele ricordò sua moglie, Giuliana quando si tuffava nei laghi nuda come la terra, con i riccioli sparsi nell’acqua sotto un sole freddo, uno spettacolo così sconvolgente e perfetto che nessun artista avrebbe mai potuto intrappolare. L’essere così libera, aveva condannato la sua bella Giuliana. “Non ci pensare, buon Michele” aveva detto Aclima stiracchiando le ossa, Lele guardò la sua signora, ma quella non aveva dato cenno di voler continuare quella frase, proseguendo ad osservare il panorama agreste che si schiudeva davanti a loro in quel pacato meriggio. Filippa era uscita dal fiumiciattolo, non era riuscita a salvare l’orlo della gonna dall’acqua e questo gocciolava,  aveva le gambe zuppe filo al ginocchio e gocciole rosse le erano scivolate sulle gambe, ma lei l’aveva pulito, infilando nella borsa altre pezze e gettando, sistemando in una sacca che teneva all’interno della bisaccia delle bende bagnate, che aveva lavato. Si era asciugata le gambe ed aveva di nuovo indossato le calze.

Aclima aveva sbuffato ancora una volta, poi si era infilata nuovamente gli stivali, s’era sollevata dalla posizione seduta ed aveva cominciato a dirigersi verso Dalila, non curandosi del mantello che era rimasto sull’erba, che Lele s’era premurato di raccogliere. La signora aveva accarezzato il manto della puledra sul collo, con un gesto delicato, con il palmo scoperto senza esitazione, senza i guanti. Che la sua signora fosse diversa da ogni matrona che Lele dopo vent’anni era chiaro come l’acqua cristallina. Sembrava sempre curarsi massimamente di ciò che teneva. Non era una persona affettuosa e neanche brava a dissimulare. Quando le matrone si incontravano nei giardini,  la sua signora restava rigida come una stecca, accomodata sui cuscini a bere infusi senza accennare un minimo di gioia, se non in compagnia di qualche particolare matrona che garbava un poco, ma dopo vent’anni Lele aveva visto quanto fosse tenace a prendersi cura delle cose che amava; come in quel momento che accarezzava ritmicamente il collo della sua cavalla. Quando suo figlio a nove anni era stato colto da una febbre del diavolo,  aveva passato giorni interi con lui, cercando di raffreddarlo, di farlo mangiare, pregare per lui, tenendogli sempre la mano. Aclima Lysimacus poteva essere tante cose – ed alcune di queste non belle – ma certamente nessuno in tutta l’Urbe avrebbe potuto dire non fosse una buona madre.  Era stato Messer Antonio a dirglielo una volta, esagerato con il vinello, gli aveva detto che una donna così era fatta per amare e che non avrebbe saputo fare altro, però le era stato insegnato a non farlo. Nello spirito della sua signora, c’era qualcosa di spezzato.

“Sai dove siamo?” aveva domandato Aclima con un tono di voce basso, “Conosco chi ti direbbe, che siamo tra Babilonia e Gerusalemme” sussurrò, guardando prima con gli occhi silvani la direzione che s’erano lasciati alle spalle, poi guardò ciò che gli attendeva, la strada per l’Urbe. “Più Sodoma e Gomorra” rispose con scanzonata onestà Lele, pensando alle due città, la fama di peccatrice di Firenze, null’altro che una smaliziata diceria per coprire la libertà, che le altre città italiche non erano in grado di comprendere, ne sarebbero mai state in grado di anelare. E la verità che nascondeva Roma, la pia città, che sotto il velo d’un candore nascondeva il marcio. La sua signora rise, divertita, “E che Dio le punisca entrambe” aveva aggiunto, continuando a tenere prigioniere tra le labbra il riso, l’impazienza sembrava essersi sciolta, così come la melanconia o la preoccupazione, la sua signora sembrava animata d’improvviso dal buon umore, “Ma io non so cosa Firenze sia”aveva confidato, con voce meditabonda la donna, “Se sia davvero l’ultima bolgia dell’inferno, se sia il giardino dell’eden o  Semirare l’altra testa del mondo” aveva aggiunto, guardando con gli occhi d’onice l’indistinto confine di mura che s’andavano a perdere all’orizzonte. Poi voltò lo sguardo a Roma che gli attendeva, “Ma so cosa Roma è” aveva aggiunto, il suo tono era aspro come il ferro, rugginoso e venefico, “Roma è Enoch” aveva aggiunto angustiata. Lele aveva annuito, “Io non sono molto esperto …” aveva risposto con un leggero imbarazzo, lui era un mercenario, alla catechesi nel suo paese i frati avevano insegnato ai bambini ciò che il buon Gesù diceva, i dieci comandamenti e ciò che rendeva la gente un buon cristiano. Cosa che faceva sempre ridere oscenamente Giuliana, così da rimediarci anche qualche schiaffo da quella vecchia ciabatta di suor Maddalena. Provò un moto di rabbia per quella suora, rabbia nera, da desiderare di nuovo di rendere il suo viso violaceo, come i lilla che Giuliana intrecciava nei suoi canestri; ricordò la sensazione della pelle di suor Maddalena, delle unghia scheggiate che graffiavano le sue mani nel tentativo di liberarsi, gli occhi spauriti e la bocca spalancata, incapace di urlare e prender l’aria. Aveva soffocato una suora Lele, vent’anni fa, e non ne provava pentimento. San Pietro aveva chiuso i suoi cancelli per lui, così lui che portava il nome dell’arcangelo era certo avrebbe scontato la sua vita all’inferno, con Giuliana.

La signora aveva chiamato a gran voce Filippa, così la fanciulla era arrivata, indossava una veste marrone come le castagne, si sollevava d’un poco ad ogni passo, con il contributo d’un lieve vento, aveva stretto al petto un’altra famiglia, morbida  e bianca, spezzando così il vestiario. Il viso era ancora assorto, come se il bagno nel fiume non avesse lavato le sue inquietudine, “Cos’è Enoch?” aveva chiesto la madonna, togliendo dalle dita di Lele il suo mantello. Filippa mostrò un viso confuso, colpita da quella stessa domanda, “La città che Caino fondò, nel suo errabondare per la terra” rispose, infilando un ricciolo dietro l’orecchio.  Lele aveva pensato sempre la ragazza somigliasse a Giuliana, ma era l’aspetto, i ricci così scuri, annodati, come il nido d’una rondine, Filippa era candida, piccola e timorosa, spaventata forse della sua ombra, devota alla sua fede e così mite, Giuliana era fuoco e fiamma, sfacciata, leziosa ed indecente. Indemoniata avrebbe detto padre Geremia, se fosse stato là, ma non era lì, era da qualche parte in un bosco, null’altro che un mucchietto d’ossa. “Roma è come Enoch” aveva ripetuto la signora, annuendo, “Romolo uccise Remo per fondare l’Urbe, secondo i pagani” aveva ripreso la madonna, “Una storia assai più interessante che parlare di pescatori e pastori” aveva aggiunto sprezzante, “Se si vuol risalir ancora di più, Roma discende da Enea, che uccise Turno per riavere una patria perduta la sua” aveva commentato quasi divertita, “Roma è nata dal sangue, questo non cambia però” aveva ripetuto tenendo un tono irrisorio, “Come Enoch” aveva concordato Lele. Le fondamenta di Enoch erano state il sangue di Abele che impregnava le mani di Caino e Roma era stata costruita da quelle di Romolo,  macchiate del sangue di Remo. Aclima sorrise, un perverso sorriso che sapeva di resa, “E nel sangue finirà” aveva commentato poi, tutta la contentezza era scomparsa, era rimasto solo un tono lugubre da veglia. “A qualcuno piace pensare che quella Roma sia già morta, nel sangue di Pietro” aveva aggiunto, tenendo un tono funereo, i suoi occhi neri guardarono altrove, dove agli uomini non era concesso, “Ma sbagliano. Quella Roma, esiste ancora” aveva spiegato, “E temo cosa accadrà quando il veleno nel sangue del fratello tradito avrà roso le fondamenta dell’Urbe così a fondo, da farla sprofondare in un abisso senza ritorno e condannarci tutti” aveva detto.  Il respiro di Filippa era spezzato e questo fu ciò che lasciò Lele più di stucco, Filippa che era così devota a Dio, così cultrice di quella retta via in cui credeva, che le faceva mordere le labbra alla santa messa, così ortodossa, tacque, non disse ciò che ogni volta che negli ultimi cinque anni le aveva sentito ripetere ad ogni disgrazia, che erano le prove che Dio ci assegnava, tacque, consapevole di ciò che Lele aveva sempre saputo, quando Roma sarebbe caduta, sarebbero crollati tutti. La domanda era un’altra, quale sangue la sua signora temeva? E quanto imminente era?

“Andiamo” aveva detto poi la madonna, richiamandolo dai nefasti pensieri, “Mi sono stufata di questo abbigliamento, del viaggiare e dell’orrida identità di Aclima Lysimacus” aveva ringhiato, legando il mantello alla gola, quasi schifata da quella cosa. Sul viso s’era dipinta ancora l’espressione di stizzita altezzosità che l’aveva sempre caratterizzata.

 

 

 

Informazioni utili, se così possono essere chiamate:

Il piano temporale:  Alfonso è in ordine cronologico il primo, con il pranzo con la sorella, poi c’è Iil viaggio di Lele, Aclima e Filippa che è preso nel pomeriggio stesso, entrambi sono il giorno dopo il capitolo precedente;  Leonardo, Giuliano e Girolamo invece avvengono allo stesso momento, ora più ora meno, diciamo Riario e Della Rovere sulla sera e Leonardo in piena notte (si Verrocchio dipinge di notte),  seguito poi da Vanessa che chiude il capitolo con il pranzo, un giorno dopo rispetto gli altri.

 

Allora la prima cosa di cui bisogna parlare è in assoluto è che questo capitolo vi è un forte fattore religioso, abbiamo finalmente intrapreso l’argomento centrale di questa storia: Caino. Da Vinci’s Demons ha il suo Caino ed Alessandro De La Rovere, ha la sua Enoch ed è Roma. E tutto è collegato in maniera particolare. Aclima, i Demopulos, i Ricci, Leonardo etc … sono collegati tutti dalla colpa di Caino. Il Cardine centrale è Caino, ma anche la Famiglia. Quella sulla quale Girolamo ammette di poter passare sopra, ma a cui tenere. I Ricci, i De Medici ed De La Rovere, sono famiglie con i propri demoni e le proprie salvezze. Si quindi è tutto un legame di famiglia.

Parlando di famiglia, abbiamo scoperto qualcosa di Lele, che era spostato, che sua moglie di chiamava Giuliana ed era una persona particolare. Avremo ancora modo di parlare di lei. Il motivo per cui ho scelto Lele come voce narrante? Aclima è ancora troppo presto per poter parlare con la sua mente ed invece volevo ridare respiro a Filippa, perché la sua parte conterrà anche l’incontro con Leonardo e, soprattutto, Nico, avuto appena svegliata dalla trance. E be il suo saluto con Sandro.

Riguardo a Sandro, è andato a Roma con Leonardo, senza però aver dato spiegazioni, rinunciando anche alla sua arte. Il motivo è intuibile per i più, non per Leonardo, ma non perché non ci arrivi, ma semplicemente perché non gli interessi minimamente. Lui voleva solo avere meno impicci, con Sandro, e tenere al sicuro Lorenzo. Ma non ha fatto i conti su quanto possano essere teste calde gli artisti. Come dice il buon Zo, che prima o poi gli ucciderà tutti haha.

Riguardo ad Andrea che dipinge in piena notte, sta macchinando qualcosa anche lui. E’ una particina, fatta solo per essere commovente, ma vedrete :) Lui e Leonardo sono comunque la vera famiglia presente nella storia, senza Se e senza Ma …

Nico è rimasto a Firenze, con Vanessa, che come vedrete a bisogno di una mano, visto che un pranzo se trasformato in un omicidio. L’avevo detto che avrei continuato a scrivere di morti ammazzati, e l’ho fatto. Finalmente abbiamo scoperto l’identità della ragazzina incinta, Caterina Sforza, che come sapevamo già non era ad Imola, ma a complottare omicidi a Firenze. Ed Eliseo l’ha detto, tanti piccoli Riario in giro prossimamente!

La parte di Girolamo e Giuliano, serve proprio per mostrare quanto poco ci si possa conoscere. Girolamo dice: Giuliano non sa cos’è l’amore ed il brano dopo Giuliano afferma d’essere innamorato.  Poi sai per rendere più Pathos, il fatto che i due cugini sappiano di essere in guerra e siano costretti fuori da Roma, mentre tutti i simpatici servi sono ad operare a Roma per un garzone del macellaio. Ma come abbiamo visto i Demopulos hanno molti e molti segreti.

Riguardo Alfonso ed Eleonora, non allungheranno la trama, hanno una particina, la svolgeranno e poi continueranno con i loro affari. Era giusto per far vedere che mentre Ippolita si intrattiene con Lorenzo e con Caterina, anche suo marito non si sta girando i pollici.

Come al solito abbiamo un frammento dei soliti fratelli, la volta scorsa era la sorella con il più piccolo, ora è con il mediano.

Non dico altro, perché credo non ci sia altro da dire. Insomma tutto parla chiaramente. Aclima lo dice, sono alle soglie di una guerra, per il sangue. Il problema è con tutte questa fantastiche famiglie in guerra tra loro, di chi quale sangue si parla?

   
 
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