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Autore: Alaska__    22/08/2014    4 recensioni
In revisione
{ OS • 17-year-old!Connor • spin-off di Semplici pedine nei loro Giochi • OCs }
«E so che sei bravo a disegnare». Indicò il foglio che Conn aveva appoggiato pochi minuti prima sul tavolo. «È casa, vero?» chiese Peter, e i suoi occhi sembravano quasi coperti da un velo di nostalgia.
«Sì». Il diciassettenne si allungò per prendere il disegno e lo porse a Peter. Il dodicenne sgranò gli occhi, fissandolo indeciso per qualche secondo, ma poi le sue mani corsero agli angoli della carta e lo presero timidamente, quasi avesse paura di romperlo. «È per te» aggiunse Conn. «Volevo dartelo domani, ma ti sei svegliato».
[...] «Grazie. Sei il miglior mentore del mondo» sussurrò.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi, Finnick Odair, Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Sparks • Picking up the pieces. '
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‘Cause I fear I might break
And I fear I can’t take it
Some night I’ll lie awake
Feeling empty.
I can feel the pressure
It’s getting closer now.
-Paramore; “Pressure”
 
 
Stava fumando ininterrottamente da almeno un’ora.
Conn premette il mozzicone di sigaretta contro il fondo del posacenere, spegnendola. Un ultimo sbuffo di fumo uscì dalle sue labbra, prima di dissolversi nell’aria. Nel vagone permeava ancora un odore acre. Il ragazzo si alzò, aprendo un poco il finestrino – quel tanto che bastava per far uscire la puzza.
Si sedette di botto sul divano, osservando lo scorrere del panorama al di fuori dell’enorme vetrata che sostituiva la coda del treno. Non c’era molto, in quella zona: solo un fitto bosco. La ferrovia era affiancata da due file di alberi.
Chiuse per un istante gli occhi, immaginando di essere altrove. Avrebbe tanto voluto saltar fuori dal treno e correre verso casa, verso il Distretto 4. Voleva tornare da suo fratello, per festeggiare perché aveva superato la sua prima Mietitura senza essere stato estratto.
Voleva anche un’altra sigaretta.
Aprì gli occhi, portando una mano all’altezza del petto, dove si trovava il taschino della camicia. Estrasse il suo amato pacchetto di sigarette, per poi ripetere le stesse azioni di prima. Questa volta, però, fu un accendino a spuntar fuori dalla sua tasca. Conn prese il pacchetto e lo aprì.
Era vuoto.
«Merda» si lasciò sfuggire, alzando gli occhi al cielo. Una volta giunto a Capitol City, avrebbe dovuto comprarne altre.
Accartocciò il pacchetto con aria arrabbiata, per gettarlo sul tavolino accanto al posacenere. Intrecciò le mani dietro la nuca, abbandonandosi contro lo schienale del divano.
Doveva solo resistere fino alla Capitale, poi avrebbe comprato un altro pacchetto. Sapeva che non era salutare – Finnick non faceva altro che ripeterglielo, da quando lo aveva beccato mentre fumava vicino agli scogli – ma non riusciva più a farne a meno. Era l’unica cosa che lo facesse stare calmo quando i ricordi degli Hunger Games appena passati gli tornavano in mente, opprimendolo. Inconsistenti, eppure pesanti: era così che gli sembravano. Non passava notte senza che sognasse il volto sfigurato della ragazza del Distretto 7 o la testa del ragazzo del Due che volava via dal suo collo, compiendo una perfetta parabola. Ogni giorno, si chiedeva cosa sarebbe successo se fosse stato lui quello a morire. Era conscio di aver vinto anche per fortuna – in fondo, moltissimi tributi erano morti a causa delle trappole create dagli Strateghi. Durante la festa finale al Tour della Vittoria aveva sentito diversi abitanti della Capitale che si lamentavano di quanto quell’edizione fosse stata poco emozionante, sebbene tutti lodassero la meravigliosa Arena che era stata proposta.
Il tipico rumore della porta scorrevole che si apriva lo fece voltare. Era convinto che fosse Finnick, ma quello che si ritrovò davanti non era lui, bensì Peter – il tributo maschio.
Il dodicenne gli lanciò uno sguardo spaventato. I suoi occhi azzurri erano lucidi di lacrime e ciò si sarebbe notato anche a metri di distanza.
«Ciao» lo salutò Conn, sorridendogli. Il ragazzino si grattò una guancia, imbarazzato.
«Ciao» rispose. «Credevo che non ci fosse nessuno». Tirò su con il naso.
«Se ti do fastidio, me ne vado». Conn si alzò in piedi, recuperando l’accendino che aveva lasciato accanto al posacenere. Peter si affrettò a scuotere la testa.
«No. Semmai sono io quello che se ne deve andare. Sono venuto qui perché Finnick mi ha detto del vagone» spiegò, indicando la vetrata. Conn gli fece cenno di avvicinarsi, prima di sedersi. Il ragazzino rimase fermo qualche secondo, incerto sul da farsi. Poi si avvicinò al divano, appoggiando una mano sullo schienale.
Conn lo squadrò da capo a piedi. Peter aveva le gambe magre e tremanti, che spuntavano sotto un paio di pantaloncini al ginocchio. La sua pelle abbronzata – tipica del Distretto 4 – creava un bel contrasto con la camicia bianca.
Aveva l’età di Dave, ma sembrava decisamente più piccolo. Il fratellino di Conn era già alto per i suoi dodici anni, ma quel ragazzino – forse per l’atteggiamento spaurito che mostrava in quel momento – dimostrava almeno dieci anni.
«Beh? Non ti siedi?» lo esortò il diciassettenne dopo un istante. Peter – probabilmente perso a guardare fuori dal finestrino – sobbalzò. Annuì, sedendosi addosso al bracciolo. Non si appoggiò nemmeno allo schienale: rimase seduto sull’orlo del divano.
«Guarda che non mangio» disse Conn, divertito. Per aver paura di lui – con quel suo viso innocente – bisognava davvero essere messi male, pensò.
Il ragazzino si mise in una posizione più comoda, con lo sguardo ancora perso fuori dalla vetrata. Tutta l’ansia che manifestava pochi minuti prima sembrava quasi svanita, dinnanzi a ciò che vedeva, ma i suoi occhi continuavano ad essere lucidi di lacrime. A Conn venne istintivo pensare a una dodicenne dell’edizione precedente – tributo del Distretto 10 – che lui aveva incontrato all’addestramento. Era scivolata mentre faceva pratica con il tridente e si era fatta male, al che era scoppiata a piangere. Probabilmente, però, cercava solo una scusa per tirare fuori tutta la rabbia che aveva provato nei giorni precedenti.
«Sei in classe con Dave, tu, o sbaglio?» chiese Conn, dopo qualche minuto. Doveva distrarsi dal pensiero delle sue inesistenti sigarette – e pensò bene che, per farlo, poteva iniziare ad approcciarsi al tributo. Il ragazzino annuì, grattandosi una guancia.
«È tuo fratello, giusto?» La sua voce era ancora tremante per via delle lacrime.
«Esatto».
«Gli assomigli». Peter si era fatto più vicino adesso, e lo osservava attentamente con i suoi occhi azzurri. «Avete gli stessi occhi. E le lentiggini. E i capelli rossi».
Conn rise. «Credo che bastasse il gli somigli». Il tributo abbozzò un sorriso, che svanì subito. Le lacrime ricominciarono a scorrere lungo le sua guance.
Il mentore si sentì per un attimo spaesato. Non aveva mai amato dover consolare le persone – era pessimo, in certe cose. Si grattò la testa, imbarazzato, prima di toccare delicatamente la spalla del dodicenne. Si avvicinò.
«Ehi, non devi piangere. Ci sono io a proteggerti» mormorò. Il ragazzino – improvvisamente – si voltò e lo abbracciò. Lì per lì, Conn rimase sbalordito, ma poi le sue labbra si stirarono un sorriso e strinse il dodicenne.
«Non voglio morire» mugolò Peter, con il volto premuto contro il petto di Conn. Il ragazzo si limitò a star zitto, aumentando ancora di più la stretta attorno alla vita sottile del dodicenne. Era come lui un anno prima, solo più spaventato e impreparato. Era giovane – anche troppo – e Conn sapeva, in cuor suo, che la vittoria di quel ragazzino era alquanto improbabile. Nessuno vinceva a dodici anni, nessuno ci era mai riuscito. Con solo un po’ di forza d’animo, però, ce l’avrebbe potuta fare.
«Ascoltami», sciolse l’abbraccio, prendendolo per le spalle. Il ragazzino si guardò intorno, un po’ spaesato. «Peter!» Conn lo prese per il mento, alzandogli il volto per guardarlo negli occhi. «So che hai solo dodici anni. So che sei praticamente un bambino. Ma non frega un cazzo, okay?» Il ragazzino sgranò gli occhi – doveva essere uno di quelli la cui madre gli proibiva di dire parolacce. Ma Conn, in quel momento, si sentiva improvvisamente arrabbiato. Ce l’aveva con il sistema degli Hunger Games perché erano troppo crudeli per mandare a morte un ragazzino così dolce e piccolo. Ce l’aveva con chi aveva istituito i Giochi, con chi gli aveva tolto l’infanzia e con chi gli aveva rovinato l’adolescenza – oltre ad avere distrutto quella di Peter, che ancora doveva diventare un adolescente.
«Tanto si sa che a dodici anni nessuno vince gli Hunger Games». Tirò su con il naso, passandosi rabbiosamente una mano sulla gota per asciugarsi le lacrime.
«Tu sarai l’eccezione che conferma la regola». Peter gli lanciò uno sguardo speranzoso.
«Lo credi davvero?»
Conn sorrise, asciugandogli le lacrime con le dita. «Certo. Basta che anche tu lo pensi».
 
*
 
Gli mancavano solo pochi particolari e il disegno sarebbe stato pronto.
Conn ci aveva lavorato tutta la sera. Non appena erano tornati dall’intervista, si era messo all’opera, dopo aver rimuginato per gran parte del giorno su quale sarebbe stato il soggetto.
Aveva scelto il mare. Quello del Distretto 4, di casa sua, quello che Peter era abituato a vedere tutti i giorni.
Voleva regalarglielo prima che andasse nell’Arena per lasciargli almeno un ricordo di casa sua. Quei giorni da mentore erano stati faticosi, ma altrettanto fruttuosi. Dopo la loro chiacchierata nel treno, il dodicenne si era fatto un po’ di forza e aveva iniziato a credere di più in se stesso. Conn – dal canto suo – era felicissimo di aver trovato un ragazzino così a cui badare. Non era niente male, Peter, anche se era molto timido. Fargli da mentore era stato un piacere – come prima volta, il diciassettenne poteva ritenersi soddisfatto.
Mordicchiò distrattamente la matita, chiedendosi come avrebbe reagito in caso di morte. Finnick lo aveva avvertito, pochi giorni dopo il loro arrivo a Capitol City: «non affezionarti troppo. Potresti soffrirne». Conn aveva fatto spallucce e non aveva risposto. Sapeva che il suo amico aveva ragione, ma non riusciva proprio ad essere freddo. Come si poteva comportarsi in modo distaccato con un dodicenne spaventato che andava incontro a morte – quasi – certa? Lo stesso Finnick si era affezionato in fretta, anche se spesso Conn lo sorprendeva a guardare Peter con gli occhi verdi colmi di tristezza, come se già prevedesse la morte del dodicenne.
Il Vincitore dei sessantottesimi non pensava che si sarebbe affezionato così tanto a quel ragazzino. Forse perché gli ricordava un po’ Dave – nonostante come caratteri fossero agli antipodi – forse perché entrambi erano due novellini: lui – con i suoi diciassette anni – era il più giovane tra i mentori, mentre Peter aveva dodici anni e non era riuscito a sopravvivere alla sua prima Mietitura.
Ma sopravvivrà all’Arena, si disse il ragazzo, come a volersi incitare.
Alcuni passi che provenivano dal corridoio lo costrinsero a voltarsi. Peter era lì, con addosso il pigiama e i capelli biondi arruffati. I suoi occhi azzurri si sgranarono, nel vederlo, ma poco dopo le sue labbra si distesero in un sorriso.
«Non dormi?» domandò il mentore, mentre tracciava l’ultima riga del disegno. Il dodicenne si avvicinò al divano, sedendosi accanto a Conn.
«Non riesco a prendere sonno». Si grattò la testa, con gli occhi fissi sul disegno che il Vincitore aveva appena terminato.
«Anche io non riuscivo, prima di entrare nell’Arena» ammise Conn, passando una mano sul foglio per togliere i residui di gomma. «È una cosa normale».
«E cos’hai fatto? Per addormentarti, intendo».
Il mentore si passò una mano tra i capelli arruffati, cercando di riportare a galla tutti i ricordi della sera precedente l’entrata nell’Arena. «Sono andato sul davanzale a guardare un po’ la città e ho chiacchierato con Finnick» rispose infine, indicando la grossa finestra che dava proprio sul centro della Capitale. Ricordava bene i sentimenti provati in quel frangente: l’ansia, la paura, la voglia di correre a casa. Aveva immaginato di essere al Distretto 4, sugli scogli, ad osservare le onde che vi infrangevano contro, mentre il vento caldo gli carezzava il volto.
«Io chiacchiero con te, allora, va bene?» Peter sorrise e Conn fece una risatina, arruffandogli i capelli.
«E pensare che l’altro giorno avevi quasi paura di me». Gli fece l’occhiolino. Dalla bocca del dodicenne fuoriuscì una risatina.
«Ho scoperto che sei simpatico. Mi ricordi mio fratello maggiore».
Il diciassettenne inarcò un sopracciglio con fare ironico. «Forse perché anche io sono un fratello maggiore».
«Dave parla sempre bene di te». Conn aggrottò la fronte, divertito. Si appoggiò allo schienale del divano, continuando a guardare il disegno, ormai completato.
«Ah, sì? E cosa dice, di tanto bello?»
Peter fece roteare gli occhi, sovrappensiero, mentre cercava una risposta. «Dice che sei forte con il tridente e che sei bravo a pescare e giocare a calcio. Ha detto anche che disegni benissimo e sai cantare un po’».
Il diciassettenne arrossì. Cantava, di tanto in tanto, sotto la doccia o in camera sua, quando era tranquillo, ma non avrebbe mai detto che Dave lo avesse sentito e se ne vantasse con i suoi amici.
«E quando ve le avrebbe dette queste cose?» domandò, sempre più curioso. Era anche un modo per far distrarre Peter da ciò che sarebbe accaduto l’indomani.
«Quasi tutti i giorni? Parla sempre di te, in qualche modo finisci sempre in mezzo ai nostri discorsi».
Conn ridacchiò. Non l’avrebbe mai ammesso, ma gli faceva piacere che Dave dicesse certe cose su di lui. «E voi gli credevate?»
Peter fece spallucce, grattandosi la nuca. «Insomma, che sei bravo con il tridente ne abbiamo avuta la conferma l’anno scorso. A calcio ti ho visto giocare qualche volta con quel tipo biondo e strano che non sta zitto un attimo».
Il diciassette scoppiò a ridere, quasi strozzandosi con l’acqua che aveva iniziato a bere. «Si chiama Dixon» lo informò, tossicchiando e ripensando alla faccia del suo migliore amico. In effetti, non stava zitto neanche a spegnerlo. Però era un buon amico – questo Conn doveva ammetterlo, visto che era stato uno dei pochi a stargli accanto dopo la sua partecipazione agli Hunger Games.
«Ecco, lui. Per quanto riguarda il canto non lo so, vuoi cantare qualcosa?»
Il mentore arrossì e si sbrigò a scuotere la testa. «Canto solo in camera mia, sotto la doccia e per qualche ragazza». Percorse con lo sguardo il corpo minuto di Peter. «Tu mi sembri un maschio».
Il dodicenne fece una risatina. «E so che sei bravo a disegnare». Indicò il foglio che Conn aveva appoggiato pochi minuti prima sul tavolo. «È casa, vero?» chiese Peter, e i suoi occhi sembravano quasi coperti da un velo di nostalgia.
«Sì». Il diciassettenne si allungò per prendere il disegno e lo porse a Peter. Il dodicenne sgranò gli occhi, fissandolo indeciso per qualche secondo, ma poi le sue mani corsero agli angoli della carta e lo presero timidamente, quasi avesse paura di romperlo. «È per te» aggiunse Conn. «Volevo dartelo domani, ma ti sei svegliato».
«Davvero?» C’era stupore nella voce del ragazzino. Il suo mentore sorrise, indicandogli un punto vicino all’angolo del foglio in cui aveva scritto per Peter, da Conn.
«Tutto tuo. Almeno, quando sarai nell’Arena, ti ricorderai di casa». Gli occhi del dodicenne si riempirono di lacrime. Ammirò il foglio per qualche istante, prima di posarlo sul tavolo e allungarsi per abbracciare il suo mentore.
«Grazie. Sei il miglior mentore del mondo» sussurrò.
«… Che tu rischi di uccidere a stringermi così». Cercò di avere un tono di rimprovero, ma il divertimento nella sua voce era palpabile. Conn prese il piccolo volto di Peter tra le mani, fissandolo in quei due cieli azzurri che erano le sue iridi. «Io credo in te, okay?»
Il dodicenne annuì, asciugandosi le lacrime con la mano chiusa a pugno. «Okay» rispose, sciogliendo l’abbraccio. Conn aprì la mano, mostrandogliela. Peter la fissò per un attimo, interrogativo, ma poi un gran sorriso comparve sul suo volto e appoggiò la sua mano a quella del diciassettenne.
«E ora, a nanna!» Il Vincitore si alzò in piedi e Peter lo imitò.
«Buonanotte» mormorò il ragazzino, avviandosi verso la sua camera.
«’Notte». Conn rimase fermo a guardarlo, mentre andava a dormire. Peter continuava a fissare il foglio con aria ammirata e contenta, e lui non poté che esserne felice. Per la prima volta in vita sua, aveva l’impressione di aver fatto qualcosa di veramente giusto.
 
*
 
 
Un colpo di cannone.
Conn non poté far altro che restare paralizzato, con lo sguardo fisso sul maxi-schermo, mentre un hovercraft raccoglieva il corpicino di Peter – appena caduto da una delle torri del castello che era l’Arena quell’anno.
Sentì la mano di Finnick posarsi sulla sua spalla, delicata, e la sua voce dire alcune frasi che lui non udì, preso com’era a guardare la televisione.
Ci aveva creduto. Aveva sperato fino all’ultimo che Peter vivesse – e c’era quasi, considerato che nell’Arena erano rimasti solo in cinque. Quattro, si corresse mentalmente, Peter è morto.
Si divincolò dalla presa di Finnick, correndo nella sua stanza, al quarto piano. Sbatté la porta con tanta violenza che avrebbe potuto far cadere per terra il vetro delle finestre.
Peter era morto.
Appoggiò la fronte al muro, singhiozzando, piangendo come mai aveva fatto in vita sua. Non aveva pianto nemmeno quando era stato estratto per la Mietitura.
Ma lì era diverso.
Aveva fallito. Doveva ammetterlo. Aveva fallito come mentore per quella che era la prima volta – e forse nemmeno l’ultima.
Finnick lo aveva avvertito di non affezionarsi, ma lui non lo aveva ascoltato, preferendo voler bene a quel ragazzino, cercando in ogni maniera di ottenere uno stupido sponsor per mandargli dell’aiuto nell’Arena.
Chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime scorressero silenziosamente sul suo volto.
Fallimento.
Sentì la porta aprirsi, ma non ci fece caso. Avrebbero potuto dirgli tutte le parole del mondo, ma non sarebbero mai bastate a farlo star bene. Certe volte non serviva pronunciare delle frasi fatte. Sapeva che un lui rimarrà sempre nel cuore di chi lo ha amato non avrebbe cambiato nulla.
Peter era morto, andato, spezzato. Non sarebbe più tornato, non avrebbe più vissuto, non sarebbe mai diventato un adolescente e non avrebbe mai realizzato i suoi sogni.
«Conn?» La voce di Finnick traboccava preoccupazione, ma lui non ascoltò. Rimase fermo, con la fronte ancora premuta contro il freddo muro della sua stanza e il volto di Peter che gli sorrideva ancora in testa.
«Lo so che sei incazzato, ma questo non cambierà le cose». Il diciassettenne non rispose. «Conn, girati». Finnick gli diede uno spintone con la mano e obbligò a voltarsi. Messo con le spalle al muro, il Vincitore dei sessantottesimi Hunger Games non poté far altro se non ascoltare quello che il suo ex-mentore aveva da dirgli. Passò una mano sulla guancia, asciugandosi le lacrime.
«È colpa mia» mormorò con voce roca. «Avrei dovuto proteggerlo». Finnick gli mise una mano sulla spalla, comprensivo.
«Se è per questo, è anche colpa mia» ribatté, guardandolo negli occhi. «Ero anche io suo mentore. E anche io sono arrabbiato tanto quanto te, ma non abbiamo colpa e tu lo sai».
Il diciassettenne scosse la testa. «Lui ci credeva veramente».
«E si è visto. Ha lottato, ma non è bastato. Non è colpa tua, né sua, né mia. Sappiamo di chi è la colpa».
Tutta la rabbia provata poco prima sembrò esplodergli nel corpo e dovette trattenersi dal prendere a pugni il muro. Se non ci fosse stato Finnick a tenerlo, avrebbe potuto farlo.
La colpa era di chi aveva istituito gli Hunger Games. Avevano permesso che non solo Peter, ma anche tanti ragazzini innocenti morissero in maniera atroce solo per divertimento. Era il loro gioco e i tributi, i mentori null’altro erano se non delle pedine che venivano mosse a loro piacere. Avevano fatto lo stesso con lui, con Finnick, con tutti gli altri partecipanti.
Ma prima o poi sarebbero stati loro a cambiare le cose.
 
*
 
Conn si sistemò il cappuccio della felpa nera, di modo che gli coprisse i capelli e gettasse delle ombre sul suo viso, così che non fosse riconoscibile.
«Sei pronto?» Dave gli passò un plico di foto, recuperate quel pomeriggio. L’idea di Serena era stata semplice, ma poteva rivelarsi efficace: appendere ai muri del Distretto le foto di tutti i tributi morti durante le precedenti edizioni degli Hunger Games. Era un gesto di ribellione, un gesto che voleva far sentire almeno un po’ in colpa coloro che lavoravano per il governo.
Il ventiduenne annuì, facendo passare tutte le foto. Nel frattempo, Dave aveva alzato un braccio per salutare Serena che arrivava verso di loro insieme a suo fratello Lael. Mancava solo Finnick, dopodiché ci sarebbero stati tutti e avrebbero dato il via alle danze.
Molti dei volti raffigurati nelle foto li conosceva, altri erano del tutto sconosciuti. La prima che vide fu quella di Alex – il tributo morto nell’edizione precedente, quella vinta da Serena. Il secondo era quello di una delle ragazzine a cui aveva dovuto fare da mentore, durante la settantunesima edizione. Dopo questo, apparve il volto che per tante notti era stato soggetto principale dei suoi incubi. Peter.
Il dodicenne lo guardava con le sue iridi color del cielo e un mezzo sorrisino stampato sul volto dai tratti ancora tanto fanciulleschi. I suoi capelli biondi erano leggermente spettinati, come dopo una giornata passata in spiaggia.
Conn rimase fermo a guardarla per qualche istante, perdendosi nei ricordi di quella settimana in cui aveva avuto modo di conoscerlo. Era stato il suo primo fallimento, la sua prima volta come mentore. Tra tutti i tributi che erano morti, Peter era quello che più gli era rimasto nel cuore, quello che gli ricordava perché stava per compiere quel gesto di appendere le foto.
Le cose stavano cambiando. Forse, finalmente, si sarebbe fatta giustizia anche per tutti quei poveretti che erano morti.
«Sei pronto?» Il tocco di Serena sul suo braccio lo distrasse. Alzò lo sguardo, incontrando gli occhi verdemare della sedicenne che lo fissavano con aria decisa. Annuì, mentre un mezzo sorrisino faceva capolino sul suo volto.
«E tu?»
Serena aggrottò la fronte. «C’è da chiedermelo?»
Il gruppetto – raggiunto anche da Finnick – iniziò a camminare, mentre le ombre si allungavano sempre di più e il buio diventava padrone del Distretto 4. Conn provò a ricordare quando era stata l’ultima volta che si era sentito così elettrizzato. Erano da anni che sognava di fare una cosa del genere e finalmente si stava presentando l’occasione.
Camminando, prese la foto di Peter e la mise al primo posto. Sarebbe stata la prima che avrebbe affisso.
Finalmente anche quel dodicenne dagli occhi tristi avrebbe avuto un po’ di giustizia. 




 
 


Alaska's corner

Orsù.
Questa storia l'ho completata ieri, ma non mi andava molto di pubblicarla, perché credevo fosse venuta un po' uno schifo. In effetti, è senza pretese, l'ho scritta perché mi piaceva l'idea di parlare della prima, tragica esperienza di Conn come mentore. Lui è sempre stato uno che si affeziona alla gente, quindi Peter è stato una parte importante nella sua vita, anche perché un po' gli ricordava Dave, nonostante il carattere molto diverso. Il fratellino di Conn è molto più deciso di Peter, meno indeciso e un pochino (tanto) più vanitoso, anche se è tutta una maschera per pararsi il culo, ecco. 
Dave appare alla fine con Serena, la vincitrice dei settantatreesimi Hunger Games nella mia long Hurricane of fire. Ed è lì che ho scritto dei tributi e delle loro foto, così ho pensato di inserirlo anche qui. 
Ah, Peter apparirà anche in Dunkelheit, una mia futura storia su un mio OC, ma per ora mi tappo la bocca per non fare spoiler. 
Spero vi sia piaciuta!
Alla prossima,
Alaska. ~

Ps: la faccia di Red - 
 Connor Likin - D4
   
 
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