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Autore: Gageta    22/08/2014    8 recensioni
Qualcosa nel loro matrimonio era andato storto, qualcosa di sottile e indefinito. E tra tutti, quello che ne soffriva di più, che ci rimetteva senza alcuna colpa, era sicuramente Hamish.
[Johnlock, parent!lock, angst]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ebbene, dopo lo sclero post Ice Bucket Challenge di Benedict eccomi tornata ad infestare EFP :)

Fresca di vacanze (sono stata a North Gower Street ancora non ci credo *^*), parto alla carica con questa nuova… cosa.

Non saprei come definirla, mi sono praticamente buttata inseguendo i miei pensieri nei dormiveglia, scrivendo sull’iPod quando mi capitava, e questo è quello che mi è venuto fuori. Sono solo cinque capitoletti dove… beh. Sherlock e John li abbiamo visti in tutte le salse, avevo voglia di metterli anche in questa situazione enonmiprendoaltrecolpe.

Non mi sento di dire nient’altro, la storia spiegherà da sé, e nel caso potete sempre chiedere, ovviamente xD

Solo, questo mi tocca dirlo, Sherlock potrebbe essere molto un filino OOC ma, insomma, John e un figlio fanno il loro effetto. Ah, e soprattutto non ho tenuto conto della terza stagione (quella grande pugnalata al cuore).

E niente. La dedico a  MelaChan e Polla89 che hanno insistito tanto per leggerla (e che mi hanno dato preziosi consigli^^) e anche alle ragazze del gruppo Sherlockians per le nostre chiacchierate^^

Inoltre, come non dimenticarla, un immenso grazie alla mia carissima beta lalla_4 che mi sopporta e sostiene sempre nelle mie idee (e che voleva una parent!lock e l’ha avuta :P).

A chiunque vorrà leggere,

buona lettura!

 

 

 

 

 

La Terza Parte di Noi

Prologo

 

I

l legno è lucido, liscio al tatto, riflette la luce soffusa dell’alta lampada vicina, rivelando una lieve ammaccatura, una piccola rientranza in un piano altrimenti perfetto. Ad occhio distratto può sembrare un irrilevante difetto, che non guasta la bellezza dell'intatta superficie. Ma un difetto, un piccolissimo e all'apparenza insignificante errore può portare, in un sistema più grande e complesso, ad un primo cedimento, e, se non corretto fin da subito, alla caduta finale. Un'irrimediabile, e anche fin troppo breve, caduta finale.

Le lancette ticchettano, vicine e lontane, deboli e potenti, sfasate tra loro nel proprio ritmo personale, non sincronizzate. Il tempo scorre, inesorabile e lento, lentissimo nel susseguirsi dei secondi, dilatati all’infinito, nell’influenzabile impressione degli eventi che colpiscono, che lasciano il segno, che si vorrebbero proiettare all’infinito nel resto della propria esistenza.

Nell’attesa, il tempo è nemico di cuori spezzati, di animi legati (ancora per poco), di paure e angosce mai rivelate, trattenute. Sottigliezze invisibili agli occhi, difetti riuniti nel buio, nelle bolle d’aria costrette sul fondo, schiacciate dal peso dell’acqua che, infine, riescono a contrastare, risalendo verso l’aria sovrastante, loro compagna, nel ripristino originale dell’ordine naturale.

John respira, lascia che il fiato si risvegli, che i polmoni si dilatino nella ricerca d’aria, un’aria che non ha mai trovato così pesante, così piena di tensione e… insicurezza.

Tedioso.

Abbassa gli occhi alle sue mani, a quelle dita morbide, tozze ma delicate, le dita di un medico militare, di un collega, amico, amante.

La penna è ruvida sotto l’epidermide, una bic di semplice plastica, di sottomarca, una comunissima e usurata, unico elemento in disaccordo con la ricca stanza che li circonda, che nella sua anestetica semplicità colpisce per l’innegabile costo del mobilio lì attorno. È l’unica cosa che si è permesso di portare, l’unico richiamo a quella che ora è la sua vita. Semplice, logorata dall’acerbo degli ultimi mesi, incolore.

Non osa alzare gli occhi, John, non osa per paura di incontrare il freddo e falsamente distaccato sguardo del maggiore degli Holmes, di fronte a lui. Ringrazia che ci sia una scrivania tra loro, ringrazia che quella semplice barriera possa proteggerlo dalla sua presenza. Sa di non essere il benvenuto (non più), sa che in quegli occhi chiari, così diversi da quelli del fratello, è celato un profondo dolore, un dolore con il quale John non vuole avere a che fare. Sa che l’incondizionato amore fraterno che lo lega a Sherlock è lì, a ribollire, pronto a deformare quei lineamenti ora forzati in un’espressione tranquilla e ferma.

Si rigira la penna tra le mani, John, la rigira tra le dita, la picchietta piano sul legno lucido, riflette la luce sulla sottile facciata di quel solido esagonale, rivelando le scritte incise, incancellabili. Ne osserva la punta di sottile acciaio, l’inchiostro che è pronto per uscire, pronto a mettere fine a tutto.

Un'occhiata. Una porta che si chiude. La fine.

Non ha mai pensato a come sarebbe stata, a quando sarebbe arrivata. Non lo ha mai fatto in più di dieci anni, non ha mai creduto di averne bisogno. Ancora adesso, dopo mesi d'insonnia, John si chiede perché, da dove tutto sia partito, che cosa sia successo per farlo ritrovare in una situazione del genere.

Deglutisce, azzarda un’occhiata all’orologio da polso, alle lancette che ticchettano, di secondo in secondo, scandendo il tempo che lo prepara all’azione finale.

È in ritardo. Di dodici minuti e quaranta secondi. Non se ne sorprende, sa che non deve farlo. Non è stato puntuale neanche al loro matrimonio, perché dovrebbe esserlo ora?

Tedioso.

Sorride lievemente al pensiero, di riflesso, correggendosi subito quando se ne rende conto. Per chi gli sta di fronte, un minimo sorriso è solo motivo di odio, ancora più profondo di quanto già non sia.

Dovrebbe pensare al futuro, dovrebbe volerlo fare, dopo la sua scelta. Dovrebbe voler credere che sia la giusta cosa da fare, che non abbiano avuto altri modi per decidere, più tempo per valutare.

Non ne hanno avuto, comunque, è stata tutta una corsa veloce, diretta verso il traguardo, verso quella che ha tutti gli aspetti di una vittoria. Ci vuole credere, vuole che quella sia una conquista, non vuole piegarsi a quel sottile pensiero della sconfitta, non vuole credere che sia stata tutta una messa in scena, tutta una barriera eretta intorno a sé dai sensi di colpa. Non ne può più di sentirsi così, non è suo dovere sentirsi così.

Dovrebbe sentire rimorso. Dovrebbe pensare con nostalgia al loro passato, dovrebbe pensarci attentamente, anche in questi ultimi istanti in cui può ancora cambiare tutto.

Dovrebbe, John. Dovrebbe ma non vuole.

Alza il mento, alza fieramente lo sguardo, si raddrizza sulla poltrona e guarda un punto al di là di Mycroft, si fissa sulla parete rossastra della stanza. Del Diogene’s Club. Lo ha voluto Sherlock, come ha voluto che fosse suo fratello ad ufficiare la cosa.

Non ci ha parlato, non ha fatto nient’altro che rispondere con un laconico “ok” al suo messaggio di avviso.

Lo sai che preferisco i messaggi.

Il tempo di parlare è finito da molto, troppo, tempo. E nessuno sembra avere più la voglia di farlo, la forza di farlo. E in fondo, si convince, è meglio così.

Un rumore in lontananza, lo schianto di una porta che si chiude (o si apre?) passi frettolosi in avvicinamento, e poi lui è lì, avvolto nel suo cappotto nero (sempre lo stesso, tenebroso, cappotto nero), i riccioli ribelli che gli incoronano il volto, che oscillano dolcemente al ritmo del suo passo.

John non lo guarda, lo immagina. Potrebbe disegnare a memoria ogni tratto del suo volto, ogni espressione corrucciata che ha assunto in anni di convivenza, ogni striatura di quegli occhi dai colori impossibili (eterocromia, John, soltanto questione di geni). Il bianco latte della sua pelle, le labbra perfette che ha visto arrossire sotto la pressione dei suoi baci, il movimento fluido del suo corpo, le sue movenze, quando è sotto di lui, quando riempie lo spazio tutto intorno a lui, quando non c’è nient’altro che lui, solo lui.

Quando c’era si corregge con un debole sospiro.

C’è uno svolazzo al suo fianco, a destra nel suo campo visivo.

Sherlock si abbassa e scarabocchia la sua firma su un foglio, poi su un altro.

Dietro di lui, col fiatone, Lestrade li guarda con occhi spenti, rivolgendo con la testa un gesto di saluto a John.

Quando Sherlock si rialza non lo guarda. Rimane rigido al suo posto, ed è solo per sbaglio che John nota la sua mano stretta a pugno lungo il fianco.

Deglutisce, stringe un po’ più la penna tra le dita, poi firma anche lui, segue le tracce già lasciate da lui.

Ed è tutto lì.

Mycroft raduna i pochi fogli con espressione impassibile e annuisce piano, come un cenno a suo fratello.

John azzarda un’occhiata verso suo marito, ex marito, e lo vede sparire con uno svolazzo del cappotto, a passo quasi feroce, il volto una maschera di ghiaccio, priva della benché minima emozione.

Qualcosa dentro di lui si rompe definitivamente. Lo sguardo addolorato di Lestrade è solo una conferma in più.

John si alza con un sospiro stanco e gli occhi gli cadono sulla propria mano, focalizzandosi sull’anulare, sulla sottile striscia leggermente più chiara, ricordo presto invisibile di una vita passata.

Dentro di lui, soltanto amarezza.

 

~*~

 

La piccola figura se ne sta lì ormai da ore, appollaiata su quella panchina, le ginocchia al petto e le braccia strette intorno ad esse. Immobile.

I lunghi riccioli scuri gli incorniciano il volto, gli occhi chiusi nascondono il loro colore azzurro brillante, il volto pallido è contratto in una smorfia di contenimento.

Il sole splende alto nel cielo con la sola compagnia di qualche nuvoletta sparuta. Non un filo di foschia rovina la bellissima giornata, non un solo avvenimento è capace di turbare la tranquillità del luogo. Il vento soffia leggero tra le foglie della quercia di Regent's Park, sollevandone di tanto in tanto qualcuna prematuramente secca; con il suo tocco leggero è l’unico in grado di smuovere di qualche millimetro qualcosa nel ragazzo sulla panchina. I bei riccioli scuri ondeggiano, sospinti dal vento, e accarezzano il volto pallido del giovane.

Poi, all'improvviso, con un lieve tremore la figura sembra prendere vita. Con un lieve movimento delle palpebre i suoi occhi si spalancano e si posano sul vasto parco davanti a loro, tuttavia senza vederlo veramente. Le mani si contraggono in uno spasmo e si chiudono su loro stesse con forza. La mascella si contrae e le labbra esalano un debole sospiro.

Un singolo singhiozzo lo percuote, fa tremare le spalle fragili, schiacciate dal peso di tutto quello che sta accadendo. Può quasi sentirle le parole, tutte quelle non dette, quelle scritte e quelle che tante volte gli sono state ripetute: le può sentire vibrare nella sua testa, come un rombo lontano.

In realtà non sa niente Hamish, o quasi. Quello che sa è che è tutto sbagliato, e se a qualcuno interessa, quello è soltanto lui.

 

 

 

 

Note:

Giusto per precisare: in questo capitolo Sherlock ha quarantanove anni, John ne ha cinquantaquattro e Hamish otto. Siamo nel 2025. (Ho tenuto conto delle età di Benedict e Martin).

   
 
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