Ebbene, dopo lo sclero
post Ice Bucket Challenge
di Benedict eccomi tornata ad
infestare EFP :)
Fresca di vacanze (sono stata a North Gower Street ancora non ci credo *^*), parto alla carica con
questa nuova… cosa.
Non saprei come definirla, mi sono praticamente buttata inseguendo i miei pensieri nei
dormiveglia, scrivendo sull’iPod quando mi capitava,
e questo è quello che mi è venuto fuori. Sono solo cinque capitoletti dove… beh. Sherlock e John li abbiamo visti in tutte le salse,
avevo voglia di metterli anche in questa situazione enonmiprendoaltrecolpe.
Non mi sento di dire nient’altro, la storia
spiegherà da sé, e nel caso potete sempre chiedere, ovviamente xD
Solo, questo mi tocca dirlo, Sherlock potrebbe
essere molto un filino OOC ma, insomma, John e un figlio fanno il loro
effetto. Ah, e soprattutto non ho tenuto conto della terza stagione (quella
grande pugnalata al cuore).
E niente. La dedico a MelaChan e Polla89 che hanno insistito tanto per leggerla (e che mi hanno dato preziosi
consigli^^) e anche alle ragazze del gruppo Sherlockians per le nostre chiacchierate^^
Inoltre, come non dimenticarla, un immenso grazie
alla mia carissima beta lalla_4 che
mi sopporta e sostiene sempre nelle
mie idee (e che voleva una parent!lock
e l’ha avuta :P).
A chiunque vorrà leggere,
buona lettura!
La Terza Parte di Noi
Prologo
I |
l
legno è lucido, liscio al tatto, riflette la luce soffusa dell’alta lampada vicina,
rivelando una lieve ammaccatura, una piccola rientranza in un piano altrimenti
perfetto. Ad occhio distratto può sembrare un irrilevante
difetto, che
non guasta la bellezza dell'intatta superficie. Ma un difetto, un piccolissimo
e all'apparenza insignificante errore può portare, in un sistema più grande e
complesso, ad un primo cedimento, e, se non corretto fin da subito, alla caduta
finale. Un'irrimediabile, e anche fin troppo breve, caduta finale.
Le
lancette ticchettano, vicine e lontane, deboli e potenti, sfasate tra loro nel
proprio ritmo personale, non sincronizzate. Il tempo scorre, inesorabile e lento,
lentissimo nel susseguirsi dei secondi, dilatati all’infinito,
nell’influenzabile impressione degli eventi che colpiscono, che lasciano il
segno, che si vorrebbero proiettare all’infinito
nel resto della propria esistenza.
Nell’attesa,
il tempo è nemico di cuori spezzati, di animi legati (ancora per
poco), di paure e angosce mai rivelate, trattenute. Sottigliezze
invisibili agli occhi, difetti riuniti nel buio, nelle bolle d’aria costrette
sul fondo, schiacciate dal peso dell’acqua che, infine, riescono a contrastare,
risalendo verso l’aria sovrastante, loro compagna, nel ripristino originale
dell’ordine naturale.
John
respira, lascia che il fiato si risvegli, che i polmoni si dilatino nella
ricerca d’aria, un’aria che non ha mai trovato così
pesante, così piena di tensione e… insicurezza.
Tedioso.
Abbassa
gli occhi alle sue mani, a quelle dita morbide, tozze ma delicate, le dita di un medico militare,
di un collega, amico, amante.
La
penna è ruvida sotto l’epidermide, una bic di semplice plastica, di sottomarca,
una comunissima e usurata, unico elemento in disaccordo con la ricca stanza che
li circonda, che nella sua anestetica semplicità colpisce per l’innegabile
costo del mobilio lì attorno. È l’unica cosa che si è permesso di portare,
l’unico richiamo a quella che ora è la sua vita. Semplice, logorata dall’acerbo
degli ultimi mesi, incolore.
Non
osa alzare gli occhi, John, non osa per paura di
incontrare il freddo e falsamente distaccato sguardo del maggiore degli Holmes,
di fronte a lui. Ringrazia che ci sia una scrivania tra loro, ringrazia che
quella semplice barriera possa proteggerlo dalla sua presenza. Sa di non essere
il benvenuto (non più), sa che in quegli occhi chiari, così diversi da quelli
del fratello, è celato un profondo dolore, un dolore con il quale John non vuole avere a che fare. Sa che
l’incondizionato amore fraterno che lo lega a Sherlock è lì, a ribollire,
pronto a deformare quei lineamenti ora forzati in un’espressione tranquilla e
ferma.
Si
rigira la penna tra le mani, John, la rigira tra le dita, la picchietta piano
sul legno lucido, riflette la luce sulla sottile facciata di quel solido
esagonale, rivelando le scritte incise, incancellabili. Ne osserva
la punta di sottile acciaio, l’inchiostro che è pronto per uscire, pronto a mettere fine a tutto.
Un'occhiata.
Una porta che si chiude. La fine.
Non
ha mai pensato a come sarebbe stata, a quando sarebbe arrivata. Non lo ha mai fatto in più di dieci anni,
non ha mai creduto di averne bisogno. Ancora adesso, dopo mesi d'insonnia,
John si chiede perché, da dove tutto sia partito, che cosa sia successo per
farlo ritrovare in una situazione del genere.
Deglutisce,
azzarda un’occhiata all’orologio da polso, alle lancette che ticchettano, di
secondo in secondo, scandendo il tempo che lo prepara all’azione finale.
È
in ritardo. Di dodici minuti e quaranta secondi. Non se ne sorprende, sa che
non deve farlo. Non è stato puntuale neanche al loro matrimonio, perché dovrebbe
esserlo ora?
Tedioso.
Sorride
lievemente al pensiero, di riflesso, correggendosi subito quando se ne rende
conto. Per chi gli sta di fronte, un minimo sorriso è solo motivo di odio,
ancora più profondo di quanto già non sia.
Dovrebbe
pensare al futuro, dovrebbe volerlo fare, dopo la sua
scelta. Dovrebbe voler credere che sia la giusta cosa da fare, che non abbiano
avuto altri modi per decidere, più tempo per valutare.
Non
ne hanno avuto, comunque, è stata tutta una corsa veloce,
diretta verso il traguardo, verso quella che ha tutti gli aspetti di una
vittoria. Ci vuole credere, vuole che quella sia una
conquista, non vuole piegarsi a quel sottile pensiero della sconfitta, non
vuole credere che sia stata tutta una messa in scena, tutta una barriera eretta
intorno a sé dai sensi di colpa. Non ne può più di sentirsi così, non è suo
dovere sentirsi così.
Dovrebbe
sentire rimorso. Dovrebbe pensare con nostalgia al loro passato, dovrebbe
pensarci attentamente, anche in questi ultimi istanti in cui può ancora
cambiare tutto.
Dovrebbe,
John. Dovrebbe
ma non vuole.
Alza
il mento, alza fieramente lo sguardo, si raddrizza sulla poltrona e guarda un
punto al di là di Mycroft, si fissa sulla parete
rossastra della stanza. Del Diogene’s Club. Lo ha voluto Sherlock, come ha voluto che fosse suo fratello
ad ufficiare la cosa.
Non
ci ha parlato, non ha fatto nient’altro che rispondere con un laconico “ok” al
suo messaggio di avviso.
Lo sai che preferisco i
messaggi.
Il
tempo di parlare è finito da molto, troppo,
tempo. E nessuno sembra avere più la voglia di farlo, la forza di farlo. E in fondo, si
convince, è meglio così.
Un
rumore in lontananza, lo schianto di una porta che si chiude (o si apre?) passi
frettolosi in avvicinamento, e poi lui è lì, avvolto nel suo cappotto nero (sempre
lo stesso, tenebroso, cappotto nero), i riccioli ribelli che
gli incoronano il volto, che oscillano
dolcemente al ritmo del suo passo.
John
non lo guarda, lo immagina. Potrebbe disegnare a memoria ogni tratto del suo
volto, ogni espressione corrucciata che ha assunto in anni di convivenza, ogni
striatura di quegli occhi dai colori impossibili (eterocromia, John, soltanto questione di geni). Il bianco latte
della sua pelle, le labbra perfette che ha visto
arrossire sotto la pressione dei suoi baci, il movimento fluido del suo corpo,
le sue movenze, quando è sotto di lui, quando riempie lo spazio tutto intorno a
lui, quando non c’è nient’altro che lui, solo lui.
Quando c’era si corregge con un debole sospiro.
C’è
uno svolazzo al suo fianco, a destra nel suo campo visivo.
Sherlock
si abbassa e scarabocchia la sua firma su un foglio, poi su un altro.
Dietro
di lui, col fiatone, Lestrade li guarda con occhi spenti, rivolgendo con la testa
un gesto di saluto a John.
Quando
Sherlock si rialza non lo guarda. Rimane rigido al suo
posto, ed è
solo per sbaglio che John nota la sua mano stretta a pugno
lungo il fianco.
Deglutisce,
stringe un po’ più la penna tra le dita, poi firma anche lui, segue le tracce
già lasciate da lui.
Ed
è tutto lì.
Mycroft
raduna i pochi fogli con espressione impassibile e annuisce piano, come un
cenno a suo fratello.
John
azzarda un’occhiata verso suo marito, ex
marito, e lo vede sparire con uno svolazzo del cappotto, a passo quasi
feroce, il volto una maschera di ghiaccio, priva della
benché minima emozione.
Qualcosa
dentro di lui si rompe definitivamente. Lo sguardo addolorato di Lestrade è
solo una conferma in più.
John
si alza con un sospiro stanco e gli occhi gli cadono sulla propria mano,
focalizzandosi sull’anulare, sulla sottile striscia leggermente più chiara,
ricordo presto invisibile di una vita passata.
Dentro
di lui, soltanto amarezza.
~*~
La
piccola figura se ne sta lì ormai da ore, appollaiata su quella panchina, le
ginocchia al petto e le braccia strette intorno ad esse. Immobile.
I
lunghi riccioli scuri gli incorniciano il volto, gli occhi chiusi nascondono il
loro colore azzurro brillante, il volto pallido è contratto in una smorfia di
contenimento.
Il
sole splende alto nel cielo con la sola compagnia di qualche nuvoletta sparuta.
Non un filo di foschia rovina la bellissima giornata, non un solo avvenimento è
capace di turbare la tranquillità del luogo. Il vento soffia leggero tra le
foglie della quercia di Regent's Park, sollevandone di tanto in
tanto qualcuna prematuramente secca; con il suo tocco leggero è l’unico in
grado di smuovere di qualche millimetro qualcosa nel
ragazzo sulla panchina. I bei riccioli scuri ondeggiano, sospinti dal vento, e
accarezzano il volto pallido del giovane.
Poi, all'improvviso,
con
un lieve tremore la figura sembra prendere vita. Con un lieve movimento delle
palpebre i suoi occhi si spalancano e si posano sul vasto parco davanti a loro,
tuttavia senza vederlo veramente. Le mani si contraggono in uno spasmo e si
chiudono su loro stesse con forza. La mascella si contrae e le labbra esalano
un debole sospiro.
Un
singolo singhiozzo lo percuote, fa tremare le spalle fragili, schiacciate dal
peso di tutto quello che sta accadendo.
Può quasi sentirle le parole, tutte quelle non dette,
quelle scritte e quelle che tante volte gli sono state ripetute:
le può sentire vibrare nella sua testa, come un rombo lontano.
In
realtà non sa niente Hamish, o quasi. Quello che sa è che è tutto
sbagliato, e se a qualcuno interessa, quello è soltanto lui.
Note:
Giusto per precisare: in questo
capitolo Sherlock ha quarantanove anni, John ne ha cinquantaquattro e Hamish
otto. Siamo nel 2025. (Ho tenuto conto delle età di Benedict e Martin).