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Autore: Zick    22/08/2014    1 recensioni
Antonio e Lovino si ritrovano soli.
E forse è il momento che ne parlino.
(Il sequel promesso di 'Faceva Male')
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Prussia/Gilbert Beilschmidt, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Romano sospirò, entrando in sala conferenze e trovandola vuota.
Ad altri poteva sembrare strano come lui, il pigrone per eccellenza, lui, il re dei ritardatari, lui, potesse arrivare addirittura in anticipo ad un meeting dall’inutilità tanto enorme quanto ovvia, sprecando del tempo prezioso che poteva essere sfruttato in ben più importanti attività, quali poltrire o… poltrire.
Ma il punto era proprio quello.
 
Aveva infatti da tempo compreso, il meridione, che arrivare in anticipo, non solo gli risparmiava ore ed ore di rimproveri da parte di crucchi biondi e palestrati, e fratellini idioti, ma gli permetteva inoltre di trovare una posizione confortevole per potersi addormentare senza problemi.
 
Quindi, senza fermarsi sulla soglia un momento di più, si andò ad accomodare nel posto che oramai occupava da mesi.
Ed istintivamente il suo sguardo si spostò sulla sedia vuota che un'altra persona occupava.
Una persona dagli occhi verdi e la pelle scura, poiché l’idiota passava ore ed ore a raccogliere i suoi stupidissimi pomodori, con quel sorriso che sembrava cucito sulla sua faccia, tanto spesso glielo vedeva addosso.
E non lo vedeva da un po’, quel sorriso.
 
Con uno sbuffo stizzito chiuse gli occhi, non pensando più a niente e a nessuno.
Soprattutto, non pensando a quel sorriso.
 
 
 
 
Spagna si lasciò andare ad un potente sbadiglio, posando lo sguardo sulla miriade di plichi che teneva tra le mani.
Troppo occupato a fabbricare rose, era rimasto molto indietro con il lavoro e, per mettersi in pari si era svegliato presto, dirigendosi in sala conferenze prima del solito.
 
Entrò e vide l’ultima persona che avrebbe desiderato trovarvi.
Romano era lì, bellamente addormentato su una delle sedie, nessuna traccia di qualsivoglia preoccupazione sulle sue fattezze che Spagna conosceva a menadito.
 
Si fermò ad osservarlo un momento di più di quanto sarebbe stato opportuno fissare una persona. Specialmente se quella persona usciva con il tuo migliore amico. Dunque si diede uno schiaffo mentale per distogliere l’attenzione da lui mentre andava a sedersi all’altro lato del tavolo, posando i documenti sulla superficie e sedendosi pesantemente.
 
Fece del suo meglio. Davvero, fece del suo meglio per tenere lo sguardo fisso sui segni neri comunemente chiamati parole che gli scorrevano davanti agli occhi, senza acquisire nessun senso logico.
 
E quindi sbuffò, immaginando quanto si sarebbero arrabbiati prima Germania, che si ritrovava a fare la babysitter a tutte le nazioni del mondo, e poi il suo capo se non si fosse messo in pari al più presto.
 
Ma i suoi occhi si rifiutavano di restare per più di due secondi sulle pagine, per scivolare su una forma conosciuta e molto più piacevole di loro.
E della forma catturarono la postura, le labbra semichiuse, le ciglia lunghe, il respiro regolare.
 
Ogni dettaglio. Ogni sfumatura.
Avidi. Assetati di lui.
 
D’improvviso Lovino parve tendersi come una corda di violino.
La testa, rimasta fino a quel momento ciondolante contro la spalla, si rizzò. Gli occhi, ancora semichiusi e stanchi scandagliarono la stanza. E si spalancarono nel trovare Antonio, ancora una volta chino sui documenti.
 
Lovino quasi cadde dalla sedia dallo stupore.
“C-che cazzo ci fai tu qui?” Fu tutto quello che riuscì a borbottare, prima che Antonio lo guardasse e sorridesse.
 
Non era un sorriso.
No, aveva speso secoli con lui e poteva affermare con una certa sicurezza che quello che stava mettendo in mostra in quel momento non era un sorriso.
Non per davvero.
 
“Hola, Romano. Stavo sistemando alcuni documenti. Non volevo disturbarti.”
Romano.
Non Lovino. Non Lovinito. Non Lovi.

La sua mente parve bloccarsi all’inizio di quella stupida frase. Su quel nomignolo mancato, e che tante volte aveva affermato di disprezzare con tutto sé stesso.
Scuro in volto, posò lo sguardo sul tavolo per non mostrare la debolezza dei suoi occhi e grugnì un assenso.
 
Lunghi istanti di silenzio si prolungarono nella sala dopo quelle parole.
Un silenzio che quasi fece mancare l’aria ad entrambi.
Perché non ci erano abituati. Quando erano insieme, o per le grida di Lovino o per le risate di Antonio, non vi era mai silenzio.
Non così pesante.
Non così asfissiante.
Una volta, stare insieme era facile come respirare.
 
“Quindi… come va con Gil?”
Una domanda innocente, posta al puro fine di rompere il silenzio.
Lovino alzò gli occhi su Antonio, che, con gli occhi fissi sul suo lavoro, pareva totalmente disinteressato all’argomento.
 
“Come diamine dovrebbe andare?”
Si limitò a rispondere con un’altra domanda.
Non gli disse che voleva ci fosse Antonio al suo posto.
Non gli disse molte cose, in quella domanda.
 
“Bene, bene…”
Borbottò Antonio.
 
Ma Lovino avrebbe voluto che lui si arrabbiasse.
Che si alzasse e gli dicesse…
Gli dicesse…
 
“Vuoi un caffè?”
No, non era esattamente ciò che aveva in mente. Pensò, alzando lo sguardo sullo stupido spagnolo e sul suo stupido sorriso finto.
Con un broncio magistrale, annuì.
 
Antonio, allora, parve sul punto di dire qualcosa. Aprì la bocca, prese un respiro e…
La richiuse, scuotendo la testa e dirigendosi verso la porta della stanza.
 
Passarono diversi secondi.
Lovino ci provò. Ci provò sul serio a tenere i piedi incollati sotto il tavolo.
E fallì miseramente.
 
Con una sfilza di parolacce che avrebbero fatto arrossire perfino il più svergognato dei marinai, Lovino si catapultò fuori dalla porta, sui passi dell’imbecille  che lo aveva preceduto.
 
“Tutto qui? Bene, bene? Tutto qui quello che hai da dire?”
Gridò furiosamente
Antonio si voltò a fissarlo, dapprima confuso dall’improvvisa reazione dell’italiano. Ma poi si scurì in volto.
 
“Cosa vuoi che ti dica?” Chiese, ignorando completamente, i passanti che osservavano a turno lui e Romano gridarsi cose da un lato all’altro del corridoio, e che, imbarazzati, si limitavano ad assistere a quell’assurda partita fra loro.
“Non lo so, ma qualcosa sarebbe apprezzato.”
 
Sospirò, il povero spagnolo, passandosi una mano tra i capelli, frustrato.
“Ti ho dato il mondo, Roma! Non dirmi che non te ne sei accorto. Cosa vuoi ancora? Cosa vuoi ancora da me?”
“E CHE ME NE FACCIO DEL MONDO SE TU NON CI SEI, IMBECILLE?”
 
Il tempo si bloccò attorno a loro. Lovino boccheggiava, a metà fra lo stupore di aver appena gridato quelle parole e la voglia di mettersi a piangere, perché finalmente, finalmente le aveva dette. Tentava di riprendere fiato, di aggiungere altro ma le parole parevano essersi date alla fuga, come sempre quando cercava di spiegare qualcosa di così… intimo.
 
Ad Antonio, d’altra parte, pareva aver spento il cervello.
Non capiva.
Non capiva come qualcosa di così meraviglioso, così perfetto gli fosse sfuggito tra le punte delle dita. Non capiva come aveva fatto a non accorgersi fino a quel momento quanto Lovino stesse smaniando per lui.
Restò immobile per un paio di secondi, quasi le parole lo avessero preso a testate e lo avessero tramortito.
 
Improvvisamente aveva realizzato una cosa.
Non glielo aveva mai detto.
 
Percorse il corridoio a grandi falcate, afferrando Lovino per i polsi ed efficacemente bloccandolo.
“Te amo, Lovi.” Disse.
 
Tre stupidissime parole, che Lovino aveva aspettato per tutta un’eternità.
“Alla buon’ora, cretino.” Fu la sua unica risposta, accompagnata da due guance color amaranto e un paio di occhi lucidi.
 
E non ci fu bisogno di aggiungere altro perché, nello stesso istante, Antonio si chinò e Lovino si alzò sulle punte.
Le loro labbra si incontrarono, non a metà, un po’ prima.
Ma andava bene anche così.
 
Ignorarono risolini ed applausi, contenti di essere, di nuovo, solo loro.
 
 
 
 
Gilbert chiuse gli occhi, appoggiandosi al muro dietro l’angolo del corridoio che portava alla sala conferenze.
 
L’aveva sempre saputo che non sarebbe durata.
Due anime destinate a trovarsi, quei due.
Faceva male.
Sospirò e riaprì gli occhi,  trovandone un paio di lillà concentrati sulla sua magnifica persona.
E ghignò.
“Matt. Andiamo a farci una birra.”
 
Ignorò tutte le proteste del povero Canadese su come ‘il meeting sarebbe cominciato da lì a poco!’, su come ‘Germania si arrabbierà tantissimo!’ e su come fosse ‘decisamente troppo presto per bere!’, trascinandoselo dietro verso il primo bar.
 
 
 
 
Aprì gli occhi quando sentì il chiarore del sole ferirgli le palpebre. Li richiuse con un grugnito.
Doveva proprio decidersi a chiuderle quelle benedette tende, pensò, rigirandosi nel letto.
Le due braccia intorno a lui si allargarono un istante per permettergli quel movimento, solo per tornare a stringerlo maggiormente.
 
Borbottò e mugugnò, come suo solito, ma finì per strofinare il volto in quel petto che profumava di buono e le sue stesse braccia si mossero per cingere il corpo vicino al suo.
 
“Buenos dias, Lovi.” Furono le parole sbadigliate da Antonio.
E Lovino, non visto, sorrise.
Sì, era proprio un buon giorno. 



Angolino della Zick.
Ecco un altra fic per i miei cari lettori. Sappiate che non mi piace molto come è riuscita, quindi fatemi sapere, ok?
Bye bye
Zick.

 
  
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