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Autore: La Mutaforma    23/08/2014    0 recensioni
Quanto poteva essere rassicurante la certezza di essere di nuovo ingabbiato, lontano dallo spazio inconsistente dei suoi incubi?
Quali terribili sogni popolano l’eterno sonno dei morti?
Sospirò e poggiò la fronte alle ginocchia, aspettando che l’eternità volgesse al suo atto conclusivo.

Storia di due prescelti nati sotto la stella della solitudine.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Anghel Higure, Nageki Fujishiro
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per di qua, presto!
Aspetta,         non vuole che io esca.
Non lo saprà, seguimi. Vieni, c’è tanta luce. Siamo tutti qua. Non mancano mai le caramelle, e abbiamo tanti giochi.
E…         ?
 
I suoi incubi sfumavano in un grigiore tetro, una lenta discesa verso l’abisso.
Al suo risveglio, lo accoglievano le familiari pareti e gli scaffali della biblioteca. Ormai avvezzo all’abituale sensazione di pesantezza alla testa, spinse la schiena contro il muro alle sue spalle, e constatò che era reale.
Come il mal di testa, come la sua prigionia.
Quanto poteva essere rassicurante la certezza di essere di nuovo ingabbiato, lontano dallo spazio inconsistente dei suoi incubi?
Quali terribili sogni popolano l’eterno sonno dei morti?
Sospirò e poggiò la fronte alle ginocchia, aspettando che l’eternità volgesse al suo atto conclusivo.  
 
 
La matita strisciava, graffiando il foglio spiegazzato. Il suo fruscio ipnotico si era fatto spazio tra i suoi pensieri, i suoi occhi ingranditi da quell’insignificante riflesso.
Una matita su un foglio.
Una matita che si muove.
Una matita che si muove per una mano. Viva.
Fujishiro Nageki non avrebbe saputo dire con esattezza quanti giorni fossero, ma da un certo momento, tra una nota e l’altra del suo lamento funebre, uno strano ragazzo aveva preso l’abitudine di venire in biblioteca. Per disegnare.
Doveva essere uno studente del corso di disegno. In ogni caso, non poteva chiedere conferma a lui, né controllare sui tabulati.
Fuori, batteva la pioggia contro i vetri delle finestre. Un ritmo incessante insinuato come sottofondo alle sue giornate d’autunno, un rumore contro i vetri come pugni che battevano dentro la sua testa.
Che supplicano di uscire?
Lo spettro si era seduto dall’altra parte del tavolo, di fronte allo sconosciuto. Non faceva a dir la verità molta differenza, visto che non poteva vederlo. Ma era sempre una sorpresa studiare qualcosa che gli fosse estraneo. In quei momenti, ricordava di non essere solo nella scuola, e le voci che sentiva nei corridoi e le ombre che vedeva nel cortile dalla finestra, non erano di fantasmi, ma parte di una realtà vivace e in movimento.
Osservare la vita che continuava senza di lui era il masochista piacere che si dava per sentirsi ancora parte di essa.
Ero proprio come voi, sapete? Come miss Tosaka, come mr Kawara, come tutti i ragazzi che vedo dalla finestra.
Ma quella consapevolezza sfuocata gli pareva sempre più un antico sogno che un ricordo. Nella sua memoria immacolata si ergevano riferimenti letterari di ogni genere, ma non un solo volto familiare che lo rimandasse al mondo prima di adesso.
Un interminabile adesso che sembrava non avere fine apparente.
E come quel mondo –tanto sospirato, di cui suo malgrado non faceva parte– lo  affascinava e lo spaventava, così lo intimidiva quella figura davanti a lui, misteriosa e aliena, sfuggente come un soffio di vento.
Come sempre, probabilmente come ogni giorno, la campana, quasi un richiamo demoniaco, faceva echeggiare i suoi rintocchi, e la strana apparizione –curioso da parte sua vedere le cose sotto quel punto di vista– spariva nei corridoi. 
Restavano, di quell’ora di silenzio e di concentrazione, i fogli sul tavolo e i passi dei suoi stivali oltre la porta.
Ma durava solo quell’attimo. L’assenza. La consapevolezza che mancava qualcosa, all’ambiente.
Poi schiariva il grigiore della sua familiarità con la solitudine, e tornava ad intonare il suo canto funebre.
 
Un giorno, dovette cambiare.
Con una bella metafora, quei giorni erano come leggere sempre la stessa pagina di un libro. O fare sempre lo stesso ritratto.
Quando cominciava a non distinguere più i giorni che passavano, Fujishiro Nageki si appostò alle sue spalle, senza il timore di essere notato, spiando sul foglio. La mano, bendata con strette garze, coprì come d’istinto gli schizzi disordinati, e il ragazzo alzò inspiegabilmente lo sguardo.
Era la prima volta che lo vedeva da così vicino.
Cercò nelle sue vuote memorie la descrizione di una sensazione vagamente simile che aveva letto nei suoi libri.
Nulla.
Era spaventoso.
I suoi capelli, di un inesprimibile colore tra il verde e il blu, gli coprivano disordinatamente la fronte fasciata e l’occhio bendato, il sinistro. L’altro, color verde mare, lo fissava. E quello sguardo non lo attraversava, lo colpiva e lo feriva, come un dardo.
Non stava guardando dietro di lui. Stava guardando proprio lui.
Mi… vede?
“Devi scusarmi, non volevo disturbarti”
Trascorse un istante di silenzio, in cui trattenne il fiato, paralizzato da quello sguardo che gli aveva inchiodato le gambe al suolo e il respiro in gola.
Lo strano ragazzo fece strisciare rumorosamente la sedia sul pavimento spingendola all’indietro e si alzò in piedi. Era meno massiccio di quanto avesse immaginato in precedenza. Era piccolo e esile, e guadagnava solo grazie ai grossi stivali qualche centimetro che lo faceva sembrare più alto di lui, ma era di corporatura visibilmente sottile.
Ciò non lo rendeva tuttavia meno imponente.
“Tu non sei di questo mondo”
Gli parve quasi di non capire.
“Come?”
“Non sei di questo mondo. Non siamo di questo mondo”
Fuggì via, e nell’impeto della corsa la matita rotolò sul pavimento, tracciando una via di fuga che Nageki non avrebbe potuto seguire.  
 
Lo ha davvero detto?
Detto, e ripetuto.
Chiamò la sua mente a riflettere. Quando aveva confessato a miss Tosaka il suo segreto, lei era rimasta sorpresa, e lo stesso era stato con Kawara.
Ma quel ragazzo, perché aveva parlato in quel modo?
Aveva detto –e più di una volta, maledizione, nemmeno l’illusione di aver frainteso– che non apparteneva a quel mondo.
Come poteva vederlo? Come poteva saperlo?
Nageki spinse via il suo libro e guardò la luce del tramonto che scivolava come una mano lontana sotto le finestre chiuse.
Non siamo di questo mondo.
 
Il giorno dopo sembrava non essere cambiato nulla. Si era seduto dall’altra parte del tavolo, al solito posto, e aveva cominciato a disegnare sui fogli che aveva lasciato il giorno prima.
Poi, preso coraggio, Nageki aveva chiesto il suo nome.
“Io sono lo scarlatto angelo caduto di Judecca, Higure Anghel”
Nonostante l’iniziale stupore per quella così criptica risposta, la sua meraviglia fu nell’avvertire quanto facilmente comprendesse le sue parole.
“Io mi chiamo­–”  
“So chi sei” La sua voce era chiara e profonda, più matura di quanto ci si sarebbe aspettato da un corpo così snello. 
“Ah sì?”
“Textoris Melodia Funeris”
Nageki si morse un labbro, scavando nelle sue magre conoscenze di latino.
“Il… tessitore del canto funebre?” tentò lui, esitando.
“Hai bisogno che te lo confermi?”
“Lo hai tradotto malissimo, comunque. Dovresti rivedere le tue conoscenze di latino”
Anghel ignorò il commento e tornò ai suoi disegni, noncurante.
“Come mai non… hai mai provato a parlare con me?”
“Non avevo messaggi dall’Abisso da riferirti, Eterno Studioso”
La campana diede i suoi rintocchi, e il ragazzo si alzò. Si aspettava che andasse via di corsa, invece rimase a fissarlo.
“Se mai avessi bisogno dei servigi di un servo di Dio, pronuncia il mio nome per evocarmi” disse, e ne andò, a passo sostenuto, come se improvvisamente non avesse più fretta.
Nageki rimase coi suoi mille pensieri nella testa.
“Un nome per richiamarlo”
Come un fantasma senza memoria.
Un nome per richiamarlo.
Un nome per dargli pace.
 
   
 
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