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Autore: Jazzmary    24/08/2014    4 recensioni
Erano le dieci e mezzo quando mi accorsi di aver dimenticato la giacca nell'ufficio del preside. Avevo mezz'ora per recuperarla e per orientarmi meglio nel collegio. Quando arrivai - fortunatamente senza perdermi e incontrare qualcuno - feci un respiro profondo e vidi un ragazzo dietro la scrivania. Ci guardammo.
Era alto. Poco più alto di me, credo. Aveva le iridi di un verde profondo, capelli neri e disordinati. Indossava una felpa grigia e per pantalone una tuta dello stesso colore. Scalzo.
Mi sentii strana sotto quello sguardo indagatore.
"Lei è un professore?" ruppi quel silenzio imbarazzante. Lui sorrise e mi sentii sciogliere.
"Be', ehm, si. Io..."
Me ne resi conto solo dopo. Anche le bugie di Percy Jackson hanno le gambe corte.
Genere: Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Percy/Annabeth
Note: Lemon | Avvertimenti: PWP
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                                                                                                                                                                                                    "Tutto bene?"

    "No."

    "Ti stai comportando come una bambina."

    "Parla il genitore che manda sua figlia in un collegio."

    "Ingrata." 

    "..."

    "Arriveremo lì per le otto,  Annabeth."

    "Non vedo l'ora." Dissi io, sarcastica.

 

 

 

    

 

 

   Una stanza luminosa, il pavimento in parquet, il soffitto ricoperto da una carta da parati stellata, il letto sgualcito ancora da rifare e una libreria piena per metà.

Questo era il mio mondo.

Piccolo ma soddisfacente.

Ed io avevo solo il pensiero di non dover restare troppo tempo fuori da questa bolla troppo profumata. 

Mi rifugiavo sempre lì. Finché alla mia "matrigna" non venne la splendida idea di mandarmi in un collegio. 

 

 

 

"Dobbiamo proprio farlo?" 

"Sii ragionevole, tesoro. Quella ragazzina non fa altro che starsene rinchiusa lì. Non è di alcuna utilità. Magari se la mandassimo in un collegio estivo si farebbe qualche amico e nel frattempo potrebbe imparare qualcosa di nuovo. Ha troppi grilli per la testa e non me la sento di farla crescere in questo modo. Magari un riformatorio sarebbe l'ideale per..."

"No."

"Pensaci un po'. Pensa a cosa avrebbe fatto la tua vecchia moglie non sapendo gestire una situazione del genere."

"Mia moglie non l'avrebbe mandata neanche dallo psicologo."

"Te lo ripeto. Pensaci. È anche a scopo educativo."

 

 

 

A scopo di smaltimento umano, piuttosto. Quella donna voleva solo liberarsi di me.

Era il rimpiazzo di mia madre. Mi chiedo ancora perché papà avrebbe dovuto sposare una vipera così. Lo psicologo ce l'ha di bisogno lei, mi sa. 

Ma comunque siano andate le cose, la mia matrigna era decisa a buttarmi fuori di casa e in seguito ad una scenata, mio padre si lasciò convincere. Pericolosa? Andiamo! Si sarebbe al massimo informata sul collegio più severo e puzzolente degli Stati Uniti e mi ci avrebbe mandato senza neanche storcere il naso: niente di che. 

La mamma è morta pochi anni fa di cancro, quando avevo solo undici anni. Papà non si è più ripreso ed è cambiato. E' uno scrittore irlandese che si è trasferito in Gran Bretagna dopo essersi incantato davanti alla bellissima campagna di Reading, nel Berkshire. Ci siamo sistemati in periferia, in una casa medio-grande che si affaccia sul verde. 

Ma il problema nella mia esistenza non è solo la mia matrigna, sembra che il problema sia proprio io. Papà aveva perso tutto il suo interesse nei miei confronti, io avevo quasi perso del tutto la stima nei suoi, di confronti. Passavo le giornate a suonare al pianoforte qualcosa che dubitavo a chiamare musica, a leggere e a fare lunghe passeggiate solitarie. Ma intanto io ero "un peso", come se non ci fossero vuoti. "Di nessuna utilità", come se fossi inutile o dovessi darmi da fare (per che cosa?).

Tutto quadrava, ma io volevo tornare ad essere la principessa di papà, non una figlia senza amici, solitaria e quasi del tutto priva di attenzioni.

Vivevo da me stessa, contavo solo su me stessa, e non mi accorgevo che andavo in cattività. Com'è che si dice? A malore, a male, al macello. E al macello ci andavo davvero. 

La lontananza era assicurata. 

Il viaggio proseguiva silenzioso e forse era meglio per me, dato che il solo parlare mi rendeva nervosa e faceva scaturire liti. Papà non era venuto.

"Ti troverai benissimo, vedrai." Disse la vipera.

"Ne sono sicura. Una topaia con un topo in più, cosa vuoi che sia?" dissi sarcastica, dai sedili posteriori.

"Senti signorina, adesso ne ho abbastanza! Cerca di allacciare meglio quei capelli, sembri una forsennata e quegli occhi sono orribili, hai le occhiaie!" Sbottò.

"Oh, signorina" dissi, facendo il verso "ma hai mai visto che razza di gatto peloso e spelacchiato ti sta in testa? Quel biondo cacca fa venire la nausea. Con tutto il rispetto per le cacche e i gatti."

Frenò.

"Sono pronta a scendere e a picchiarti, piccola mocciosa."

"Fai pure." La sfidai.

Ma lei non scese neppure dalla macchina, non slacciò neanche la cintura. Si girò solo dalla mia parte e disse: "Sei orfana di madre. Cerca di avere quanto meno rispetto per chi sta cercando di prendere il suo posto."

La guardai. Un odio profondo mi pervase fino a farmi stringere i pugni dalla rabbia. Un sorriso malefico le comparse in viso. Avrei voluto sputarle in faccia e gridarle l'odio che avevo dentro.

"E' inutile che mi guardi in quel modo." Si girò e mise in moto.

Il resto del viaggio fu trascorso ascoltando la radio trasmettitrice delle 19:07. 

Arrivammo per le 19:53. Sette minuti prima di quanto avessi sperato. 

Non volevo scendere. Mi sentivo una nota stonata in un contesto invisibile. Le gambe erano come cemento, sentivo le farfalle nello stomaco, la testa prendeva a girarmi... Avrei voluto viaggiare per sempre e non arrivare mai. 

Mi fece scendere a forza. Prima parlando gentilmente. Poi le minacce.

Osservai il mio riflesso sul finestrino dell'auto: occhi grigi sonnolenti, capelli per gli affari loro... Sembravo una forsennata da rinchiudere in manicomio. Per un secondo, mi chiesi se quello che avevo dietro fosse davvero un manicomio.

 

 

Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere 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Le diciassette pagine scritte sul mio diario. Interessante.

 

La vipera imprecò per la quarta volta. 

Odio le imprecazioni. 

 

 

Mi accompagnò fino alla porta. Nonostante fosse estate faceva freddo, il clima era diverso lì.

 'Siamo negli Stati Uniti, non più in Gran Bretagna, Annabeth' mi ripetei per la quarta volta. 

Alzai gli occhi: il cielo si preparava ad un temporale.

Quel posto è lugubre. Il cancello ferrato che si affaccia sul cortile enorme è pieno di polvere e ruggine. La vipera arricciò il naso.

Spinsi il cancello e osservai meglio il cortile: c'erano panchine in legno, qualche gnomo da giardino, tavoli rotondi in marmo con sedie di ferro accostate vicinoun giardiniere annaffiava il prato, o meglio, i filetti d'erba sparsi qui e là, in certi punti gialli, in altri verde. Notai qualche lampione spento e una stradina di polvere che conduceva alla villa. La villa era un edificio alto cinque piani. La porta era in ferro battuto, con quadri di vetro che lasciavano intravedere l'ingresso. C'erano tante finestre, il muro dell'edificio era bianco e pienamente fatto in pietra. 

Salii i cinque scalini che mi dividevano dal battente. Bussai tre volte, sbattendo con rabbia il cerchio di ferro. 

Aprì la porta una donna ossuta, alta, con gli zigomi alti, i capelli neri legati su una crocchia, e gli occhi grigi. Si rivolse a noi con un ghigno, e prima che potesse proferire parola, la mia matrigna disse "Oh, ecco Annabeth Chase, signorina...?" 

"Non ha importanza" rispose asciutta la donna "porterò la signorina Chase dritto dritto dal direttore".

"Allora, ehm, suppongo che non ci sia più bisogno di me" si rivolse verso di me "ti troverai bene, Annabeth. Non aver paura".

'e chi ha paura?' pensai, ma non dissi niente, osservai solo la sagoma della mia matrigna scomparire dentro la macchina, finché svoltò l'angolo, e allora guardai la signora davanti a me.

"entra, Annabeth" mi disse.

I corridoi del mio nuovo collegio erano puliti, sulla tonalità irrevocabile di un bianco perla, dal pavimento al soffitto. Mi portò dinanzi a una porta, con su scritto 'DIREZIONE', in maiuscolo. Bussò, e da dentro si sentì un "avanti" stanco. Un uomo grassoccio, dalle iridi vicino al porpora, sulla settantina d'anni, mi fece cenno di entrare e di accomodarmi su una sedia. Mi guardai intorno: c'erano molti quadri che ritraevano paesaggi, appesi alla parete. C'era una grande e sostanziosa libreria in mogano, una grande finestra alle spalle dell'uomo, una grande scrivania sulla quale era accostata una sedia da ufficio, un divano nero con un tavolino in vetro abbinato, e due sedie in pelle nera. Su una di esse c'ero io. E il resto attorno a me.

Il preside schioccò la lingua e si rivolse a me con un ghigno "bene bene bene. Devi essere Annabelle Blunt".

"No, signore. Sono Annabeth Chase. Vengo dalla Gran Bretagna" dissi con una punta di fastidio nella voce.

"Oh, sì! Ora ricordo" esclamò il preside alzandosi da dietro la scrivania "io sono il preside Dioniso, ma preferirei venire chiamato Signor D. Questo, signorina Annabelle..."

"Annabeth" lo corressi per la seconda volta in meno di un minuto. Il direttore continuò come se niente fosse, rivolgendomi fugaci occhiate e parlando con quel tono trascinato e monotono, come se avesse imparato tutto a memoria.

"...è un collegio di rigide regole per quanto riguarda la libertà di voi ragazzi. Non si può uscire senza il permesso del preside e del genitore. Il coprifuoco è alle undici nei giorni feriali, mentre sabato e domenica è accordato per mezzanotte. Chi trasgredisce queste regole verrà severamente punito" mi guardò a lungo come per vedere la mia reazione e poi continuò "si fa sport ogni giovedì e ogni lunedì alle quattro. Si studia. Oh si" aggiunse quando vide la mia espressione sorpresa. Mi aspettavo di tutto tranne studiare in un collegio estivo. "le lezioni" continuò "si terranno nei giorni feriali a partire dalle undici di mattina fino alle due. Oltre a studiare, nel pomeriggio ci saranno dei corsi creativi come ceramica, pittura, disegno, cucito e molto altro. Sono sicuro che si troverà bene per il resto dell'anno". "Cos..." iniziai. Era un'estate. Doveva esserlo per forza. Non ebbi modo di parlare. "La sua stanza è la numero 5. L'unica rimasta vuota, a quanto vedo" e osservò una lista scorrendo su di essa con l'indice destro "ha i documenti?" domandò all'improvviso. "quali documenti?" replicai, ma subito dopo la signora che mi aveva aperto la porta disse "tutto apposto". Non mi ero neanche accorta che fosse lì.

Il signor D sospirò. "Porta questa ragazza nella sua stanza e lascia che posi i bagagli. La cena è ancora in corso, potrà raggiungere gli altri aiutandosi con la cartina. La colazione è dalle sei alle dieci e trenta. Non faccia tardi o ne subirà le conseguenze. Arrivederci" e con questo si congedò, girandosi verso la finestra e dandomi le spalle. Mi alzai titubante dalla sedia e la signora-non-importa-come-si-chiama disse "seguimi", e io obbedii, felice di lasciare quell'ufficio. La signora-non-importa-come-si-chiama mi lasciò davanti ad una porta porgendomi le chiavi. E con questo disse "ci vediamo a cena" e andò via.

Aprii la stanza e rimasi lì tutta la sera. Non avevo fame e non avevo voglia di vedere qualcuno.

Piuttosto mi sentivo tradita dal mio stesso padre.

 

Erano le dieci e mezzo quando mi accorsi di aver dimenticato la giacca nell'ufficio del preside. Avevo mezz'ora per recuperarla e per orientarmi meglio nel collegio. Quando arrivai - fortunatamente senza perdermi e incontrare qualcuno - feci un respiro profondo e vidi un ragazzo dietro la scrivania. Ci guardammo.

Era alto. Poco più alto di me, credo. Aveva le iridi di un verde profondo, capelli neri e disordinati. Indossava una felpa grigia e per pantalone una tuta dello stesso colore. Scalzo.

Mi sentii strana sotto quello sguardo indagatore. 

"Lei è un professore?" ruppi quel silenzio imbarazzante. Lui sorrise e mi sentii sciogliere.

"Be', ehm, si. Io..." disse lui un po' a disagio, mi sembrò.

"Mi scusi, professore. Ho soltanto dimenticato la giacca. Torno in stanza" e con questo mi congedai quando quello strano - e anche molto giovane - professore mi chiese "in che stanza sei?" amavo quella voce.

"La numero cinque" dissi, per poi tornare indietro.

   
 
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