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Autore: IamShe    25/08/2014    9 recensioni
«Anche tra cento. Ti aspetterò, Shinichi. Sempre lì, in quell’angolo della nostra libreria. A spolverare i tuoi libri affinché niente lì dentro possa ammuffire, neanche i nostri ricordi. Non voglio vivere una finta vita perché non posso viverne una con te.»
L'amore, come i libri, è eterno. A volte servono le parole per capirlo, altre un semplice ballo. Non sempre son le labbra a parlare, spesso diciamo molto più di quanto crediamo col nostro corpo e coi nostri occhi. Basterebbe avere l'attitudine a capirlo, anche solo una volta, per sempre.
- Prima classificata al contest dello Shinichi & Ran Official Fan Club -
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I n  q u e l l ’ a n g o l o  d e l l a  n o s t r a  l i b r e r i a
 

a Grazia, per il tuo compleanno. 
Scusa il ritardo.
Ti voglio bene ♥

 
 
C’era una brezza fresca e profumata quando entrò in chiesa. Shinichi pensò che fosse grazie ai gelsomini che decoravano l’altare ed i banchi dove gli invitati sedevano; chi in un’apparente calma che tradiva gioia ed entusiasmo, chi in una falsa concentrazione che mal celava un’evidente noia e stanchezza. Non poté fare a meno di notare le espressioni di persone che conosceva da un po’ e l’ostentata attenzione di molti invece che non aveva mai visto in vita sua.
Non poteva fare altro. Non voleva fare altro.
Il prete sfogliò con delicata abitudine una pagina consunta della Bibbia. Un matrimonio all’occidentale, pensò, quando loro con quella religione non avevano niente a che fare. Eppure in quel momento niente gli sembrò reale. Le mura parevano fatte di aria e gli invitati di immagini distorte ed astratte.
Lui stesso si sentiva come se la sua anima fosse altrove. Non sapeva perché fosse lì, perché ci fosse andato. Il parroco smise di leggere un passo tratto dal Vangelo di Matteo e si avvicinò ai due sposi. Il detective osservò la sua Ran: era tutta in bianco, con al capo un velo che le copriva tutto il viso e la sua bellezza; a stento riusciva a vederla. Il prete prese una pausa, e rivolgendosi allo sposo, lesse velocemente una formula trita e ritrita, che ebbe la bruta facoltà di rendere tutto ciò che Shinichi stava vivendo reale.
La sposa socchiuse gli occhi, e il detective intrappolato in quel corpo da adolescente che ormai non era più il suo, vide tutto al rallentatore. Lei prese un respiro, sorrise di gioia, curvò leggermente il corpo e roteò la testa verso gli invitati. La guardò, e mentre la folla li proclamava marito e moglie, Shinichi sentì il suo cuore cessare di battere.
 
Sei settimane prima
 
Erano mesi che non entrava più in quella villa, che non camminava più fra quelle mura che un tempo erano state sue e dei suoi genitori, o forse - più appropriatamente  - dei libri di suo padre. Aveva sempre creduto che fossero sempre stati quelli i veri padroni di casa. Una volta aveva sognato di vivere in una villa che avesse una libreria ancora più grande di quella che era riuscito a metter su lo scrittore di casa, che occupasse quasi tutti i metri quadrati possibili e che percorresse tutto il perimetro dell’abitazione; era passato così tanto tempo da quando l’aveva pensato che quel sogno era sbiadito, come se avesse perso tutta la sua essenza ed importanza. Da quando il suo corpo s’era rimpicciolito, la sua vita aveva radicalmente cambiato prospettiva: se un tempo la sua sola ragione di vita era stata quella di essere un detective conosciuto in tutto il mondo, di recente la sua unica ossessione era ritrovare quelli che l’avevano costretto ad abbandonare quel sogno di gloria e fama. Erano passati otto anni da quando Gin gli aveva tolto l’identità di Shinichi Kudo, e poco o niente era cambiato.
Anzi, era cambiato tutto. Ran era cambiata; il mondo intorno a lei era mutato, e lei s’era adeguata. Era sempre stata più forte di quanto tanti avevano creduto, più forte di quanto lui stesso credesse. Shinichi sapeva che farla aspettare fosse ingiusto, ma non aveva chissà quale talento nel celare completamente le sue emozioni. Ai aveva ragione, era uno struzzo: nascondeva la testa, ma non il corpo. Allo stesso modo, non aveva saputo trattenere la sua gelosia quando aveva capito che Araide stava tentando di diventare più di una semplice e cara conoscenza, e l’aveva chiamata, fingendosi irritato per come lei avesse perso progressivamente desiderio di sentirlo.
 
«Fammi capire, non ti fai sentire né vedere da mesi, e adesso mi accusi di starti ignorando?»
«No, Ran, ma che dici. È solo che... che hai fatto in questi mesi?»
«Se ti fosse interessato davvero avresti chiamato. Ma evidentemente sei troppo occupato per farlo.»
«No, cioè... sì, lo sai che sono... coinvolto molto con quel caso...»
«Anche io sono coinvolta molto nella mia vita» disse, imitandolo «ma non per questo sparisco dalla circolazione. Devo ancora capire quand’è che avresti intenzione di tornare.»
«Ran, io...»
«Ti prego... non farlo ancora, non mentirmi di nuovo. Ho aspettato Shinichi, ho aspettato tanto. Chi ho aspettato? Tu dove sei, dove sei, Shinichi?»
 
Quella fu l’ultima telefonata prima del matrimonio, a circa otto mesi dal fatidico sì che s’era avvicinato più pericolosamente della scia luminosa d’un fuoco d’artificio. Shinichi non aveva più avuto il coraggio di mentirle, né di chiamarla ancora. Era dilaniato dalla voglia di dire tutto e dalla consapevolezza che sarebbe stato inutile, pazzo, pericoloso. Perché in quei giorni era così vicino all’organizzazione che un coinvolgimento di Ran, a quel punto, sarebbe soltanto risultato profondamente stupido.
Avevano Vermouth tra le mani adesso: un testimone ed un aiuto caldo, fin troppo da risultare bollente. Perché rischiare di metterla in pericolo proprio adesso che avrebbe potuto davvero sbatterli uno ad uno in prigione? Per il solo atto egoistico di non vederla con qualcun altro?
Si era chiesto parecchie volte cosa significasse amare e volere bene, ed era abbastanza convinto che desiderare che lei fosse al sicuro prima d’ogni altra cosa fosse una risposta esauriente.
Entrò in villa come un felino, senza fare il minimo rumore, perché ormai s’era abituato così. Subaru, o l’agente dell’FBI Akai, quel fine settimana non era presente per risolvere alcune faccende al dipartimento in merito alla cattura di Vermouth, e gli aveva chiesto di recuperare alcuni fascicoli nascosti in villa e portarglieli alla base dove si nascondevano gli agenti federali.
Ma la porta non era chiusa come avrebbe dovuto, e c’era un paio di scarpe in più all’ingresso. Shinichi le riconobbe: Ran era lì, in libreria. Si affacciò e la vide immersa in una montagna di libri da cui stava disperatamente tentando di eliminare la polvere. Il detective ebbe un tuffo al cuore: perché era lì? Perché a sei settimane dal suo matrimonio era lì a pulire casa di Shinichi Kudo?
«Ran...neechan.»
La giovane impiegò un po’ di tempo a girarsi. Gli rivolse un gran sorriso, che difficilmente avrebbe mai potuto avere la capacità di nascondere i suoi giganti e gonfi occhi arrossati.
«Conan-kun! Che ci fai qui?»
Lui s’avvicinò lentamente, sforzandosi di sorridere. «Potrei farti la stessa domanda.»
«Oh... io... sto... spolverando. È incredibile quanta polvere s’accumuli sui libri, vero?» poi starnutì, ma Shinichi pensò che non fosse così spontaneo.
«Mi sa che sono allergica alla polvere. Non riesco a smettere di starnutire» disse, cercando di abbozzare un altro sorriso.
«Non dovresti stare... a... scegliere le bomboniere, la torta, a decidere chi far sedere con chi al ricevimento?»
Lei abbassò il capo, fingendo di togliere la polvere da un libro vecchio ormai venti anni. Era un’edizione particolarmente datata delle Memorie di Sherlock Holmes.
«Ho visto la casa dove dovremmo vivere io e Tomoaki-san. È carina, non troppo piccola né troppo grande. Ha due stanze da letto, e due bagni enormi.»
Conan si morse leggermente il labbro, reprimendo la voglia di zittirla, perché di lei e del dottore, e della loro vita futura insieme non voleva proprio sentirne parlare.
«Ma sai che c’è?» riprese Ran, sempre con lo sguardo sul libro, «io quella casa... non riesco a sentirla mia. L’ho vista e mi è sembrata così estranea da bucarmi lo stomaco.»
Il piccolo investigatore si sforzò di prendere parola. «Credo sia solo abitudine.»
Lei sorrise, o si morse il labbro, Shinichi non ebbe modo di capirlo con certezza. «Sai dove mi sento davvero a casa, Conan-kun?»
Lui non rispose, pazientò che lei continuasse.
«Qui» disse, «qui, tra queste mura, tra questi libri impolverati. Credo di essere più qui a casa di quanto possa mai esserlo a casa mia o da qualsiasi altra parte.»
Conan temette che il cuore potesse balzare via dal suo sterno per dirle tutta quanta la verità, ma si impose di restare calmo, lucido, freddo. Che quello non era il momento, e non lo sarebbe mai stato.
«Sarà perché ci hai passato un bel po’ della tua vita» disse, ma lei non parve ascoltarlo.
«Shinichi dove si sente a casa, secondo te?»
Quelle parole galleggiarono in aria per un po’. “Con te” rispose a se stesso, di impulso, come avrebbe voluto fare a voce alta.
«Non lo so» disse invece, abbassando a sua volta il capo. Prese un po’ di coraggio: «ci pensi ancora?»
«Io ci penso sempre, continuamente, ogni istante della mia vita. Vorrei solo che anche per lui fosse così.»
«Ma per lui è così!» buttò fuori tutto d’un fiato, pentendosene l’istante dopo. Gli occhi di Ran elemosinavano speranza, e l’ultima cosa che lui avrebbe dovuto fare, in quel momento, era dargliene.
«E tu che ne sai?»
Provò a tornare sui suoi passi. «Non... non puoi non essere importante per lui, non puoi crederlo davvero.»
«Te l’ha detto lui?» insisté la karateka, mentre le sue palpebre si gonfiavano di nuove lacrime.
«Ran...» sospirò, dimenticando il suffisso parentale, dimenticando di esser troppo simile al suo alter ego adulto mentre lo diceva, mentre la chiamava. Perché in quel modo e con quel tono, solo Shinichi sapeva metterci tutta quell’angoscia e quella tristezza, tutto quel mistero e quell’amore. Lei non poté non riconoscere quella mezza imprecazione, quella voglia di smetterla con tutte quelle bugie. S’alzò, si avvicinò a quello che da tempo considerava suo fratello adottivo, dimezzando le distanze e puntando gli occhi nei suoi.
«Tu... sei lui?»
Conan non fiatò, lei scosse il capo.
«No, non voglio più parlare di lui in terza persona. Voglio parlare a lui. Voglio dirgli tutto quello che sento, tutto quello che ho trattenuto dentro per otto anni. Non a te, Conan. Non sei tu, vero? Non sei tu, Shinichi?»
Conan deglutì un groppo in gola fin troppo grande.
Lei lasciò cadere qualche lacrima, scostandosi dal fratellino. Fece qualche passo indietro, cercando di coprirsi il volto e gli occhi coi capelli. «Mi sento così stupida. Così meschina. Sarà sempre così. Sempre.»
«Ran...» disse, e con la mano provò a bloccarla, ma lei pian piano aveva indietreggiato, velocemente era fuggita via da quella polvere, da quell’intercalare, da quelle menzogne e da lui. Da quell’angolo della sua libreria.
 
Due settimane prima
 
In agenzia non c’era nessuno quel pomeriggio. Conan tornava da un delirante e preoccupante colloquio con l’FBI, che sanciva la fine della spensieratezza e l’entrata decisiva nella fase finale dell’operazione che ormai portavano avanti da un po’. Non sapeva quando avrebbero agito contro l’organizzazione, ma il piano – completamente sviluppato da lui – prevedeva che non ci fossero morti, ma soltanto tanti arresti. Non voleva spargimenti di sangue, preferiva piuttosto che pagassero per le loro colpe per tutta la vita. Come avrebbe fatto lui, se niente fosse andato come avrebbe dovuto. Non aveva più parlato con Ran da quel pomeriggio nella sua libreria. Lei sembrava impegnata fin troppo nei preparativi del suo matrimonio e lui non aveva la minima di voglia di interessarsene, né di riprendere quel discorso, perché se l’avesse fatto – probabilmente – a quel punto avrebbe finito col dirglielo. Era sul punto di chiedersi dove fossero finiti tutti, quando un bigliettino sulla scrivania di Kogoro attrasse la sua attenzione.
“Vieni dov’eravamo l’ultima volta” diceva, nell’inconfondibile scrittura di Ran, e nella convinzione più certa che fosse diretto proprio a lui. Non seppe come reagire né come comportarsi: Ran si sarebbe sposata tra due settimane e lui aveva minuti e secondi contati. Era pericoloso perfino vivere lì, figurarsi farsi vedere a casa dei Kudo. Ma doveva raggiungerla, anche perché ignorarla forse sarebbe stato peggio. Giunse alla villa tre minuti dopo, in tempo record, notando che non vi erano luci accese, sebbene il sole fosse calato già. Entrò, chiudendo la porta dietro di sé.
«Ran-neechan?»
Lei comparve dalla cucina, con una candela in mano. «Sei venuto» sorrise, rasserenandosene.
«Che ci fai qui e che...?» si bloccò, vedendo come aveva arredato la libreria. Vi erano candele sparse a terra che creavano una meravigliosa atmosfera soffusa, che s’andava a coordinare perfettamente con le luci delle lampade che correvano lungo tutto il periodo della biblioteca.
«So che non ti interessa dell’organizzazione del mio matrimonio, ma ci tenevo a farti vedere come vorrei acconciare la sala dove balleremo.»
Shinichi pensò che fosse una fortuna che neanche in quel momento ci fosse Akai, che viveva più alla base che lì ormai.
«Molto...carino» commentò, non riuscendo a recepire il senso di tutto quello.
«Vuoi ballare con me?»
Il detective strabuzzò gli occhi. Poi rise. «Come?»
Lei lo ripeté, con più convinzione, ed un leggero sorriso sulle labbra. Aveva uno strano luccichio negli occhi, come se sapesse qualcosa che fino a quel momento aveva ignorato. «Vorrei ballare con te. Sei il mio testimone, no? Ballerò di sicuro con te alla cerimonia, e voglio proprio vedere di cosa sei capace.»
«Ehm... non è che io sia proprio un ballerino provetto.»
Ran rise di nuovo. Sembrava che si stesse divertendo. Conan non osò chiederle perché e rischiare di farla smettere. «Su, dai, vieni. Ho anche la musica.»
Shinichi sospirò. Si disse che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima volta che l‘avrebbe potuto fare, anche perché non era sicuro di partecipare a quello che avrebbe apostrofato per sempre come giorno più brutto della sua vita. Avrebbe potuto non essere vivo, così come avrebbe potuto star così male da decidere di non andarci; opzione che ultimamente aveva preso sempre più piega.
Ran accese lo stereo e le note della prima canzone partirono veloci, non dando loro il tempo neanche d’avvicinarsi.
«È un lento» lo avvisò con dolcezza, con uno strano sorrisetto sulle labbra, e lui le prese le mani e la fissò con ardore. Le fece scivolare dietro il suo collo, mentre le sue andarono ad abbracciarle la schiena. Si strinsero con lentezza l’uno all’altro, come se volessero trattenersi, come se entrambi sapessero di star osando e giocando con un fuoco che faceva troppe scintille. La musica riempiva l’aria e i loro polmoni, che man mano riuscirono ad aprirsi e gonfiarsi sempre di più. S’abbracciarono perché non sopportavano più di stare così vicini senza toccarsi. Ran appoggiò la testa nell’incavo della sua spalla, mentre Shinichi sfiorò con dolcezza il capo della sua amica d’infanzia. Si mossero tra le candele e giocarono con le ombre che queste andarono a creare loro. A dispetto di ciò che aveva preannunciato, il detective seppe muoversi e guidare la sua dama con maestria, senza il minimo sforzo o impaccio. Ran fece scorrere le sue braccia verso il corpo del compagno, stringendolo in modo che lui poggiasse le sue sulle spalle e le loro nuche si toccassero e si controbilanciassero a vicenda. Chiusero gli occhi: fu quello un momento magico. Per la prima volta, e Shinichi non seppe se fosse successo volontariamente o meno, lui non si sentiva più il suo fratellino, ma di nuovo il suo migliore amico, il suo compagno di vita. Erano solo Shinichi e Ran a ballare nel posto dove loro avevano più ricordi, dove lui da piccolo si rinchiudeva e lei si arrabbiava, e dove ancora da adulto lui restava a leggere e lei gli portava la cena, il pranzo, o una semplice merenda. La canzone si concluse, ma ne iniziò subito un’altra, e i due ballanti non si mossero.
«Questo è un tango.»
Lui sorrise. «Lo so» disse, e trattenendola per la vita, le fece sfiorare coi capelli il pavimento, sbilanciandola all’indietro. Ran scoppiò a ridere e lui la riportò su, facendo aderire perfettamente i loro corpi. Le loro labbra si sfiorarono ma non si toccarono, le loro fronti combaciavano come i palmi delle loro mani, che aprirono le dita e si strinsero l’une alle altre.
«Tutto qui?» lo sfotté lei, leggermente maliziosa. Shinichi accettò la sfida, scordandosi completamente di essere nel corpo adolescenziale di Conan, e facendola piroettare su se stessa, la strinse a lui mantenendola per la schiena e facendole alzare una coscia. Rise anche lui, riportandola all’in piedi, ma pur sempre attaccata a lui. Fece scivolare la mano dietro la sua schiena e la trattenne con forza, poi si mosse verso l’esterno, in un tripudio di movimenti passionali e decisi. Era come se i loro corpi stessero parlando e facendo l'amore tra di loro, senza che loro se ne rendessero conto. Ran non smetteva di ridere, e lui non smise di farglielo fare. Il suo sorriso lo riempiva di gioia.
«Hai visto? Sono anche un tanguero» disse ironico, mentre lei lo fissava imbambolata, come se avesse smesso anche di respirare. Shinichi la osservò stranito, fin quando lei non sbatté le palpebre. Sembrò passata un’eternità.
«Ti amo» gli disse in un soffio smorzato, incapace a trattenerlo ancora. Shinichi sentì il cuore frantumarsi. Fece scivolare la mano tremante nella sua, stringendogliela come per non farlo scappare. Ma lui non disse niente, sembrava dilaniato dalla vita. Sembrava su un altro pianeta.
«Hai sentito? Ti amo. E so che lo sto dicendo a Shinichi. So che sei tu. Non mi importa. Devi saperlo. Io ti amo.»
«Ran...» sembrò pregarla, ma lei non lo udì.
«Io ti amo, Shinichi Kudo.»
«No, non puoi» fu l’unica cosa che riuscì a dirle, perché effettivamente non sapeva cosa fare. Aveva una gran voglia di baciarla, di mandare tutto all’aria, di viverla per una volta. Ma come? E l’organizzazione poi? No, non in quel momento.
Lei rise, incredula. «Non posso? Certo che posso! Io ti amo.»
«Smettila di ripeterlo» la pregò, gli era difficile resisterle in quel modo.
Lei si staccò da lui, attonita. «No che non lo faccio! Io ti amo, lo capisci? Non mi importa più.»
«Importa a me! Non posso. Non puoi. Non possiamo» cercò di dire lui, nel massimo del suo sforzo mentale e fisico. Avrebbe voluto tutto, tranne che rifiutarla. Ma era la cosa giusta da fare, in quel momento.
«Perché non possiamo?! Io ti amo, dannazione...»
Shinichi si puntò le mani a sé. «Mi hai visto, Ran?!»
«Certo che ti ho visto! E non mi importa, davvero. Voglio solo te, in qualsiasi forma tu sia.»
«Non puoi, ed io non posso! Sono minacciato di morte, se mi collegano a te uccideranno anche te. Ed io non posso permetterlo.» Le disse, quasi pregandola. «Non posso. Anche al costo di perderti.»
Lei lo ascoltò incredula, sentendo le lacrime cominciare a scendere copiose. «Chi ti vuole uccidere? Da chi ti nascondi? Dimmelo, io ti aiuterò, te lo giuro.»
«No, tu devi allontanarti da me! Non lo capisci? Più mi hai lontano più sei al sicuro. All’inizio non volevo che sposassi il dottore, ma poi mi son reso conto che era l’unica cosa sicura che t’allontanasse da me. Con lui nessuno ti prenderà di mira.»
«Ma a me non importa d’essere uccisa...» disse lei, «non m’importa se devo fare a meno di te.»
«A me sì, Ran! Credi che per otto anni sia stato facile mentirti? L’ho fatto solo per proteggerti. Ti prego, stammi a sentire!»
«No, no e no. Voglio morire piuttosto che rinunciare a te.»
Lui sospirò, affranto. Sapeva che sarebbe finita così. «Ecco perché non volevo dirtelo. Tu...» provò a dire, ma non poté completare la frase che due labbra lo catturarono e lo zittirono. Cercò di resisterle, ma troppo era il tempo che aveva passato lontano da lei, e troppa la voglia di concludere tutte quelle menzogne con un bacio che si lasciò andare e la afferrò, attirandola a sé. Aprì la bocca e lasciò che la sua lingua giocasse con quella dell’amica di una vita, che si strinse a lui e con le mani gli graffiò la schiena, alzandogli leggermente la maglia. Shinichi la poggiò con delicatezza al muro, che tremava sotto le scosse della musica, che ancora suonava, e sotto la loro passione, che sembrava non potersi arrestare più. Gli occhi della promessa sposa si inumidirono, forse per la gioia che finalmente poté liberare e vivere, e lasciando cadere le lacrime sul volto del detective, diede lui modo di destarsi da quel sogno. Si allontanò velocemente, prima che potesse ripensarci.
«Non posso Ran, devo andare. Stammi lontano, non cercarmi. Sposa Araide, ti merita più di me.»
La fissò un’ultima volta: lei lo stava implorando. Ma lui la ignorò, sparì dietro la porta in legno mogano. La lasciò tremante e piangente sul pavimento, nel buio più crudele e doloroso che neanche le candele riuscirono più a rischiarire quell’angolo della loro libreria.
 
Quel giorno
 
La sposa socchiuse gli occhi, e il detective intrappolato in quel corpo da adolescente che ormai non era più il suo, vide tutto al rallentatore. Lei prese un respiro, sorrise di gioia, curvò leggermente il corpo e roteò la testa verso gli invitati. La guardò, e mentre la folla li proclamava marito e moglie, il detective sentì il suo cuore cessare di battere.
Non era lei. Cominciò a guardarsi intorno, chiedendosi cosa ci facessero quegli invitati lì, se avesse sbagliato matrimonio, o se soltanto fosse solo impazzito. Lo sposo, sorridente e gaudente, era senza ombra di dubbio Araide. Ma la sposa... non era Ran. Era un’altra ragazza, che il detective ricordava di aver visto nello studio del dottore due o tre volte quand’erano andati a trovarlo. La stessa ragazza che combinava spesso guai in casa del giovane medico, già dai tempi che il padre era ancora vivo.
«Sono una bella coppia, vero?»
Shinichi ebbe un altro sussulto. Si voltò, e stavolta era davvero lei. Ma non era vestita da sposa, soltanto da semplice invitata. Era avvolta in un bellissimo tubino nero che le fasciava tutta la coscia, per poi fermarsi al ginocchio. I capelli, raccolti all’indietro, le stavano una favola.
«Ran... ma cosa? Ma non dovevi...?»
«Penso che quando le persone ci si mettano d’impegno a scombinare le cose, arrivi il destino a sistemare tutto come dovrebbe andare. Sai, l’ultima volta che ci siamo visti tornai a casa distrutta, dove trovai Tomoaki-san ad aspettarmi. Non avevo voglia di vederlo, ma lui non mi fece nemmeno parlare. Disse che voleva dirmi la verità, che non era più riuscito a trattenerla: lui amava un’altra, e solo dopo essersi conto che per me fosse altrettanto aveva avuto la forza di dirmelo e di sperarci davvero. Mi ha detto che non ha avuto il coraggio di parlarmene perché in famiglia non approvavano l’unione tra loro due, ed ha provato a dimenticarla con me. Io ho fatto la stessa cosa con lui. Non mi sono mai sentita così leggera in vita mia.»
Shinichi era scioccato. «Perché... non me l’hai detto?»
«Mi hai detto che non dovevo cercarti, e per una volta ti ho lasciato andare. Se mi amavi, saresti tornato indietro. Perché l’amore è anche egoismo» disse, riuscendo anche a sorridere. «Eppure, avrei scommesso che saresti tornato per vedermi in sposa. Il tuo masochismo è notevole.»
Il detective non ebbe modo di rispondere, soprattutto perché la folla d’invitati si stava spostando verso l’esterno della chiesa per accogliere i due sposi con quintali di riso per buon’augurio. Uscirono anche loro, scostandosi però dall’entrata e sedendosi su una panchina che percorreva tutto il perimetro della parrocchia.
«Li hai arrestati?» chiese Ran, spezzando un silenzio fin troppo imbarazzante. «Quelli che ti vogliono morto.»
Lui alzò lo sguardo di qualche centimetro. «No, non tutti. Non è ancora finita.»
«Io ci sarò quando sarà finita.»
Ran fece scivolare le dita nelle sue, e Shinichi le strinse forte la mano, osservandola.
«Potrebbe essere tra un anno» disse, sporgendosi verso di lei ed ispirando il suo profumo. Lei lo lasciò fare, inarcando il capo verso di lui. «O magari tra cinque, tra dieci.»
«Anche tra cento. Ti aspetterò, Shinichi. Sempre lì, in quell’angolo della nostra libreria. A spolverare i tuoi libri affinché niente lì dentro possa ammuffire, neanche i nostri ricordi. Non voglio vivere una finta vita perché non posso viverne una con te.»
Lui sorrise, prendendo possesso delle sue labbra. «Il tuo masochismo è notevole.»
Le campane suonarono mezzogiorno, mentre il rumore del riso e degli schiamazzi coprì quello dei loro baci e dei loro sussurri.
Si goderono quel piccolo spazio di infinito, dove il tempo non passava, e dove il futuro non faceva poi così paura.

 
 
 
 

Della serie: chi non muore si rivede! 
Aaaaah ♥ Mio adorato EFP, non sai quanto mi sei mancato! E quanto mi sono mancate le vostre recensioni, i vostri commenti, le vostre visite, i vostri consigli... semplicemente il vostro affetto! Non ho smesso un attimo di pensare che avrei voluto tornare a scrivere qualcosa, ma per via di alcuni problemucci non ho più avuto né voglia né tempo né ispirazione per rimettermi su una bella  e bianchissima pagina di Word per cavarne fuori qualcosa. E grazie ad Anna che ha indetto il contest della maratona di ballo, al gruppo di facebook e comunque a qualcuno che c'è sempre stato per me, ho potuto riprovare questa meravigliosa sensazione che... ammetto, mi era mancata un sacco. Cavolo, avevo dimenticato quanto fosse bello farlo.
Comunque ** detto tutto ciò, e sperando che il popolo di EFP sia contento di rivedermi, possiamo passare alla fic che, per chi non l'avesse capito, partecipa al contest dello Shinichi & Ran Official Fan Club di Facebook [gli ShinRan comandano!] :D
Il tema era il ballo ed io ho ampliato leggermente un po' la faccenda, scrivendoci una vera e propria one shot sopra, sperando di non esser risultata né banale né ripetitiva. Ho scelto Araide come promesso sposo perché non avevo voglia di inventarmi un altro povero corn... un altro povero disgraziato che dovesse soccombere agli ormoni impazziti di Ran e alla sua incapacità di stare lontana da Shinichi Kudo. Ho comunque voluto dare al ballo un aspetto importante: una sorta di liberazione per entrambi, dove a parlare fossero i loro corpi e non più le parole. Ho cercato di tenerli entrambi IC e, sì, di trollarvi leggermente all'inizio per indurvi a credere che la nostra karateka avesse davvero detto "sì" a qualcun altro. :3
Ebbene, lascio a voi i giudizi e spero e sospetto che comunque ci rivedremo ben presto, sempre qui, sempre noi!
Un bacione e... alla prossima!


Roxi

 
 
 
 
 
 
 
   
 
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