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Autore: alicecascato    26/08/2014    0 recensioni
Dal primo capitolo:“-Non finirà mai.”
“Chi te lo dice?” Ashton calciò un sasso ed esso finì dentro al lago,ed era proprio così la vita,tanto fragile da essere affogata con una sola spinta.
“Va sempre avanti,non si ferma mai.” guardai dritta davanti a me.
Sentii i suoi occhi puntati addosso come volessero trapassarmi.
“In realtà,tu potresti fermarlo.”
“Tu ne sei capace?” lo guardai con l'intenzione di entrargli dentro.
“No.” camminò più veloce e io rimasi ferma.
“E allora facciamolo insieme.” alzai la voce e lui si fermò voltandosi.
“Aspetta,che cosa? Io-”
“Salviamoci.”
Aveva il mondo negli occhi e tutto stava cadendo,cercai di afferrarlo al volo.
“Credi sia possibile?”
“Hai detto che io potrei farcela,farò in modo che anche tu ci riesca.”
Mi sorrise in modo elegante e composto,come cercasse di proteggere quell'equilibrio sterile,come se mi importasse.
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=8satmt7xMgs
Genere: Drammatico, Horror, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Continuai a camminare, mi accorsi di aver smesso di cercare Luke, troppo concentrata su me stessa, come sempre poi, mi dissi che era una cosa egoista, che io ero egoista e che dovevo smetterla.

Quando lo trovai era seduto vicino a Ella, ma lei sembrava nemmeno essersi accorta della sua presenza.

“Luke, puoi venire un secondo?”

Lui alzò lo sguardo, gli occhi così chiari da sembrare trasparenti incontrarono i miei e subito dopo tornarono a puntare il prato.

Annuì leggermente e si alzò, avevo dimenticato quanto fosse alto, gli arrivavo circa alla spalla ed era abbastanza imbarazzante.

Camminammo in silenzio fin che non ci allontanammo da tutti gli altri quanto necessario.

Mi sedetti per terra e in quel momento sentii il fianco bruciarmi, Luke fece lo stesso.

“Stai bene?” chiesi quando mi resi conto di non sapere cosa dirgli.

“Sì certo.”

“Luke…”

“Davvero, sto bene, non devi preoccuparti per me. Ora scusa ma mi sa che devo andare – inarcai le sopracciglia – no ,in realtà no. È solo che io, io non credo che sia giusto.” Farfugliò.

“Che cosa?” chiesi senza capire.

“Tu dovresti stare con Ashton, no? Sei fortunata ad averlo, non che lui non sia fortunato ad avere te, solo che ora dovreste stare insieme e tu non dovresti essere qui, con me intendo. È tutto così sbagliato, io…”

Mi guardò e nei suoi occhi vidi tutta la paura e il dolore che soffocava.

“Okay, Luke Hemmings, apri bene quelle orecchie da folletto, io devo stare esattamente dove sono, sì con te, e sai perché? Perché siamo amici e adesso non mi importa né di Ashton né di nessun altro.”

“Non ho bisogno di aiuto, davvero va da lui.”

“Lascia che qualcuno ti stia vicino Luke.”

“Non ce la faccio! Io non ce la faccio, è sempre stato così, c’è qualcosa di sbagliato in me.”

“Non c’è niente, niente di sbagliato in te.”

“Sono innamorato del mio migliore amico, per non parlare di tutto quello che faccio a me stesso, sono un disastro, ma va bene così, davvero, ci sono persone destinate ad essere felici e persone che semplicemente non lo sono, suppongo che sia un modo per tenere pari i conti.”

Terminò di parlare con un sorriso così sforzato che temetti potesse strappargli gli angoli della bocca. Avrei voluto chiedergli di smettere di sorridere in quel modo, che mi stava facendo male ma non ero sicura che avrebbe capito.

“Affanculo il destino, abbiamo diciassette anni, dimostriamogli che valiamo di più!”

Lui sorrise di nuovo.

Sentii dei passi e senza nemmeno accorgermene mi voltai di scatto.

Era Marianne, i capelli ricci legati in una coda alta, una mano ad altezza sopracciglia per proteggersi dal sole, i pantaloncini un po’ strappati e sporchi di fango.

“Olimpia ha detto di andare a prepararci, torniamo a casa.” Terminò la frase con un sorriso smagliante, sapevo che era felice perché lo ero anche io, sebbene il mio risentimento nei confronti del mondo, o almeno, verso tutti quelli che mi circondavano, mi convinsi che tornare a casa era comunque un bene.

“Ciao anche a te Marianne, sì grazie sto davvero bene, anche io sono felice di vederti.”

“Pensavo fossimo andate oltre la fase delle frasi di cortesia, sono davvero un insulto al libero pensiero.”

“Chi l’avrebbe mai detto che salutare sarebbe passato di moda!?”

“Alzati sfaticata.”

Mi tese una mano, che io l’ afferrai. Mi resi conto che alzarsi era stato meno difficile di quanto avevo pensato.

“Ciao Luke.” Aveva cambiato tono, nelle sue parole c’erano tutta la dolcezza di una sorella.

Non credo che Luke avesse bisogno di questo.

Arrivammo all’accampamento, presi l’unica borsa che avevo e me la fissai sulla spalla buona.

Raggiunsi Ashton che stava salutando Olimpia.

“Ciao zia, ci vediamo a casa.” Parlai con disinteresse.

Lei mi salutò con serietà.

“Prenditi cura di te stessa.” Disse a denti stretti senza tradire nessuna emozione.

Apprezzai il suo tentativo e apprezzai me stessa per esser riuscita a farle capire il concetto prima.

Ashton le sorrise in modo cordiale.

“Avete discusso?” mi chiese, quando ci allontanammo abbastanza da non farci sentire.

“Le ho solo illustrato il mio modo di vedere certi suoi comportamenti.”

“Fa del suo meglio.”

Mi si contorse lo stomaco.

“Lo so, facciamo tutti del nostro meglio, ma a volte non è abbastanza.”

“A volte bisognerebbe essere grati di quello che si ha, sei fortunata ad avere lei, ad avere tutto quello che hai.”

“Non ho bisogno che tu mi faccia sentire in colpa, Ashton.”

“Ma adoro farlo.” Rispose soffocando un sorriso.

“Per fortuna che ci sei tu a peggiorarmi le giornate.”

“Quanto sei esagerata!”

Gli diedi una pacca sulla spalla destra e scoppiai a ridere, lui mi fece eco. La sua risata ero così bella.

 

 

Fortunatamente la stazione di Whitefish era poco distante dall’accampamento.

Arrivammo in stazione e solo in quel momento realizzai quanto doveva sembrare assurdo vederci, probabilmente sembravamo il reparto di pediatria di un ospedale in gita.

Il nostro treno era puntuale e anche noi lo eravamo, questa volta eravamo riusciti a prendere i biglietti per lo scompartimento intero, eravamo io, Ashton, Michael, Marianne e Luke, non ho idea di dove si trovasse Ella, ma il suo posto era vuoto, anche se quel posto era e sarebbe sempre stato per Calum, proprio accanto a Luke.

Mi persi fuori dal finestrino, mi odiai per non essere felice quanto avrei dovuto, non c’era veramente niente per cui essere triste, eppure sentivo sul petto qualcosa contorcersi, senza darsi pace.

Sì, Ivy e tantissimi altri erano morti ingiustamente, e sapevo  che era davvero un’ottima giustificazione, ma dentro di me ero sicura che non era questo il problema, non esisteva, io ero il problema, la mia insoddisfazione lo era, non ero spaventata di deludere tutti gli altri, perché io per prima sapevo che non mi importava, ma deludere me stessa era la cosa peggiore che potessi fare.

Chiusi gli occhi e cercai di scappare dal silenzio in cui ci eravamo chiusi.

 

La stazione di New Orleans era affollata e caotica come al solito.

Molti genitori erano venuti a prendere i figli, talmente felici da aver le lacrime a gli occhi (quelli come noi non piangono mai, soprattutto gli adulti).

Evitai di cercare tra la folla, semplicemente passai a rassegna decine e decine di volti, la mamma di Ashton, i capelli biondi e legati in una coda, teneva per mano i suoi due fratelli che non sembravano in grado di stare fermi.

Il papà di Michael che parlava con la mamma di qualcun altro.

La mamma di Luke con un sorriso larghissimo e gli occhi lucidi.

Una donna dai capelli rossi intrecciati spalancò le braccia e una ragazzina che era con noi si aggrappò a lei.

 

Il cuore mi sprofondò nel petto quando lo vidi, le spalle larghe, la barba incolta come al solito, i capelli un po’ più bianchi dell’ultima volta che l’avevo visto, la sua solita t-shirt grigia che indossava quando non era a lavoro, i jeans stretti, troppo, un sorriso largo e un po’ scombinato.

Avrei voluto corrergli incontro ma la testa mi faceva troppo male.

“Heather!” Annunciò con la voce rotta dall’emozione.

“Papà!” Farfugliai infilandomi fra le sue braccia.

Lui mi strinse forte, mi morsi la lingua per impedirmi di gemere mentre premeva sulle mie ferite.

Quando ci staccammo, mi fece cenno di seguirlo, mi guardai un po’ intorno: Ashton stava abbracciando sua sorella, quando vide che lo stavo guardando mi sorrise e io ricambiai, poi lo salutai con la mano, lui sorrise di nuovo.

 

Mi ritrovai davanti ad un cheeseburger e un bicchierone enorme di aranciata.

Non posso nascondere che il mio stomaco non desiderava altro considerato che non mangiavo da più di ventiquattro ore, uno svantaggio di essere una strega è che la fame non è concepita, nutrirsi è esclusivamente un bisogno per sopravvivere, ma se bisogna combattere nessuno pensa al cibo.

Papà stava addentando il suo panino al pollo, mentre io guardavo distrattamente un reality che non avevo mai visto che stavano trasmettendo alla tv appesa sulla parete del ristorante della stazione.

“Ti va di venire a casa con me per un po’?”

Il boccone mi andò quasi di traverso.

“Che cosa? Poi non ho niente con me, e le lezioni-”

“Lo so, lo so, si tratta di pochi giorni, credo tu abbia bisogno di una pausa da tutto questo.”

Una parte di me lo desiderava da morire, mamma e papà si erano separati quando avevo dieci anni, mi padre aveva sempre voluto altro per se stesso e un giorno aveva lasciato la congrega e mia madre, ma non me, non era mai scomparso dalla mia vita, lo vedevo spesso quanto il suo importantissimo lavoro permettesse, in realtà lo vedevo più di quanto vedessi mia madre.

“-Non fraintendermi Heather, non voglio sottrarti dal tuo dovere, so quanto è importante per te. È un weekend, il tempo di riposarti un po’, potremmo andare alla biblioteca pubblica e prendere qualche libro che non troveresti tra gli scaffali dell’Istituto, mangiare la pizza e i waffle e poi andare al cinema o a teatro a vedere un musical, domenica magari andiamo dalla nonna e dopo facciamo un giro al parco o stiamo sul divano a guardarci le vecchie puntate di Glee o Grey’s Anatomy.”

“Andata. Ma sappi che non saprò mai scegliere tra Glee e Grey’s Anatomy.”

“Beh ci toccherà guardarli entrambi.”

Gli sorrisi e lui strizzò l’occhio destro.

Mi resi conti che era tutto quello che volevo, una pausa da ogni cosa, per quanto poco che fosse, mi avrebbe fatto bene.

“Sono contenta che tu sia viva.”

“E io sono contenta che tu sia venuto a prendermi.”

Lui scrollò le spalle.

“Lo so che sei abbastanza grande e hai letto libri a sufficienza per capire che tua madre sta sbagliando tutto con te, e so che sei arrabbiata e che dici che non ti importa, ma cerca di perdonarla, non tutti sono come te, Heather.”
Adoravo che mi chiamasse con il mio nome completo, senza storpiarlo o usando appellativi affettivi ridicoli, lui mi vedeva come un’adulta e mi trattava come tale, ma sicuramente non era riuscito a vedere quanto io  e mia madre ci assomigliassimo per quanto riguardasse l’egoismo, ma scelsi di non ribattere.

“Lo so, e ci sto provando, credimi.”
“Lo so che ci stai provando e per questo ti apprezzo così tanto.”

 

Arrivammo nella sua casa nel centro della città, le luci erano accese e la televisione della cucina era sintonizzata su un canale di musica.

Feci qualche passo avanti, dalla cucina uscì frettolosamente, aveva le mani un po’ sporche di farina, i capelli rossi legati in modo scomposto, mi sorrise in modo goffo.

“Bentornata tesoro!” strillò e aprì le braccia, io senza volere indugiai qualche secondo, poi le strinsi  la vita. Tutti quegli abbracci mi facevano solo male.

Si chiamava Angelina, mio padre e lei stavano insieme da cinque anni, lei non era una strega, faceva l’insegnante di matematica alle elementari.

“Stai bene?”  Mi chiese tornando in cucina, stava preparando una torta, ne ero sicura.

“Sì, sto bene, non preoccuparti. Tu come stai?” Chiesi senza essere davvero interessata.

“Bene dai, si va avanti.”

Credo che ognuno di noi, salvo alcune rare eccezioni, superata una certa età smetta di rispondere “Bene” quando gli viene chiesto come si sentano, non ho idea della ragione, non credo che gli adulti soffrano davvero più degli adolescenti, ho sempre pensato che lo facessero perché, si sa, il loro passatempo preferito è compatirsi, ma con gli anni ho notato che lo fanno anche con i ragazzi, forse solo per infastidirli.

Senza darle troppa importanza mi sedetti sul divano del salotto, l’unica cosa di cui avevo bisogno era dormire, non mi importava nemmeno che ore fossero.

Mio padre si sedette con me mentre Angelina infornava una torta piena di lamponi.

Sapevo che le domande su quello che era successo sarebbero arrivate a momenti.

Il pensiero di Calum ancora a Withefish mi fece venir voglia di vomitare.

Notai di non star respirando regolarmente e probabilmente anche mio padre lo fece.

“È tutto okay?” Chiuse guardandomi con sguardo ansioso.

“Io… Sì, stavo solo…”

“Che cosa?”

“Stavo pensando a Calum, non è giusto che stia da solo.”

“Oh, Heather, lui non è da solo, ci sono tanti altri ragazzi.”
“Ma non ci siamo noi, papà siamo i suoi migliori amici e ce ne siamo andati a casa.”

Più parlavo e più avevo voglia di piangere.

“Non avete avuto scelta.”

“Forse non abbiamo combattuto abbastanza, si trattava di pochi giorni.”

“Rimpiangere non servirà a niente.”
A diciassette anni gli adolescenti vanno a feste a casa di sconosciuti, si ubriacano, scrivono il loro diario e si sentono le persone che soffrono più al mondo; ma quando vivi la mia vita, quella di quelli come me, e hai rischiato di morire abbastanza volte da smettere di avere paura, è tutto diverso, come lo è avere diciassette anni, perché a diciassette anni sei effettivamente quasi adulto e nel mio mondo, ci sono responsabilità a cui non si può sfuggire.

“Se sei stanca puoi andare in camera tua.”

Mi sentii incredibilmente sollevata.

“Dici sul serio?”

“Certo, abbiamo tutto il tempo del mondo per parlare.”
“Grazie.”

Mi baciò la fronte.

“Buonanotte!” Dissi ad alta voce per farmi sentire anche da Angelina.

“Buonanotte tesoro!” Gridò lei di rimando.

Salii le scale velocemente, e mi infilai nella mia camera, che oggettivamente era uno studio in cui quando venivo mettevano un letto pieghevole estremamente scomodo, ma andava bene così.

Frugai nei cassetti per trovare qualcosa di simile ad un pigiama, alla fine optai per una maglia che doveva essere appartenuta a mio padre, sporca di vernice.

Lavai i denti e mi infilai sotto le coperte, era la sensazione migliore del mondo.

Sebbene avessi dormito quasi tutto il tempo in treno, mi sentivo incredibilmente stanca.

Chiusi gli occhi e in davvero poco tempo mi addormentai.

 

La luce entrò diretta e violenta in camera dato che mi ero dimenticata di chiudere le tende.

Provai a riaddormentarmi ma i miei tentativi mi risultarono inutili.

Guardai l’orologio appeso alla parate con gli occhi appena socchiusi per via del sole.

Erano le sei e mezza, decisi di alzarmi comunque.

La porta della camera da letto di papà e Angelina era ancora chiusa.

Scesi le scale in punta di piedi.

Avevo davvero fame ma conoscendo mio padre, se la sarebbe sicuramente presa se avessi fatto colazione senza di loro.

Accesi la televisione tenendo il volume sul tre per paura di svegliarli.

Girai vari canali, televendite, cartoni animati, soap opera, mi fermai su delle repliche della prima stagione di Grey’s Antomy.

Mi sdraiai sul divano e aspettai che qualcuno si svegliasse, nel frattempo mandai un messaggio ad Ashton.

Io: Buongiorno! Sto da mio padre per il fine settimana, tu dove sei?

Dopo qualche minuto mi si illuminò lo schermo.

Ashton: Buongiorno, sono a casa. Come stai?

Io: Inspiegabilmente bene, e tu?

Ashton: Mia madre oggi non sta bene, devo tenere i bambini, spero solo non sia come l’altra volta. Per il resto, è tutto okay.

Io: Oh Ash… Credi che possa stare male di nuovo? Se hai bisogno puoi chiamarmi, lo sai.

Ashton: Non lo so, spero sia solo una brutta giornata, grazie Heath, divertiti e non pensare a me.

Non posso non pensare a te, Ashton.

Io: Va bene, ti voglio bene.

Ashton: Anche io ti voglio bene.

Il punto è che io ti amo.

Lasciai cadere il cellulare sul tappeto.

Sentii dei passi dalla scale, ripensandoci, sarebbe stato mio dovere di brava figlia preparare la colazione ai miei “genitori”.

Perciò mi alzai in fretta e corsi in cucina.

Tirai fuori le tovagliette da colazione, e appena mi sporsi per prendere le tazze dallo scaffale qualcuno entrò in cucina.

“Buongiorno tesoro!”

Angelina.

“Buongiorno, stavo giusto preparando la colazione ma-”

“-Grey’s Anatomy! Fai pure, non preoccuparti, quando hai finito dimmelo che vado a svegliare tua padre.”

Cercai di non sembrare troppo sconvolta dalla sua affermazione, le sorrisi e lei lasciò la stanza.

Avevo così voglia di waffle, ma non avevano la piastra per prepararli perciò mi dovetti accontentare di alcune crepes ai frutti di bosco.

Andai a comunicare ad Angelina di aver finito e lei mi implorò di andare io a chiamare mio padre.

Fui costretta a salire le scale un’altra volta.

Bussai alla porta socchiusa.

“Papà! Un chilo di crepes fumanti ti aspettano in cucina, preferisci se le mangi tutte il cane?”

“Non abbiamo un cane!” farfugliò con voce impastata.

“Allora quello dei vicini.” Continuai sempre fuori dalla porta.

“No! Lui è uno stronzo!”

“Allora esci dal letto.”
Non mi rispose, sentii però il rumore dei suoi piedi contro il pavimento.

Uscì con gli occhi socchiusi mentre sbadigliava.

Io scesi dalla scale e lui mi seguì.

 

 

Verso le due, quando stavamo andando alla biblioteca comunale mi suonò il telefono e il cuore mi salì in gola, era Michael.

“Ehi!” Tentai con voce irrimediabilmente preoccupata.

“Ciao Heath! Come stai?”

“Micheal!” Non riuscii a trattenermi.

“HeathANSIA che c’è?”

“Che è successo?”

“ È tornato Calum.”

“Oddio dici sul serio?! Come sta? Tu sei all’Istituto?”

“Sta meglio, l’hanno rimesso a posto come si deve,  comunque no, sono a casa da mio padre, anche Calum è con i suoi genitori.”

“Oh, okay, e perché diavolo mi hai chiamato allora?”

“Per spaventarti ovviamente. No non è vero, solo, lunedì ci saranno i funerali.”

“Oh, okay, grazie per avermelo detto.”

“Non c’è di che, ci vediamo lunedì.”

“Ciao.”

Infilai il telefono in tasca.

“Papà, lunedì ci saranno i funerali, non posso rimanere qui.”

“Tranquilla lunedì ti riporterò lì.” Sembrò essere già informato.

“Voglio aiutarli a organizzarlo, è davvero importante per me.”

“Quindi vuoi che ti porti là ora?”

“No, ma domani devo essere là, posso andare da sola se non ti va di passare per l’Istituto.”
“Non preoccuparti ci andremo.”

Non fui totalmente sicura che avesse accettato, ma decisi di non insistere.
 


Spazio Autrice:
Salveeee!
Premetto di averci messo così a lungo solo ed esclusivamente per la mia estrema pigrizia, dato che ho già scritto i due capitoli successivi.
Spero che questo capitolo riscuota un po' più di successo dell'ultimo, btw, mi farebbe davvero piacere se lasciaste una recensione, vi amo, un bacio.
Ali.-
  
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