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Autore: DK in a Madow    26/08/2014    7 recensioni
Semplicemente a Jimmy, alla sua chitarra, alla Musica.
Genere: Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jimmy Page, John Bonham, Robert Plant
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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And she plays along while I sing all my blues.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A Irene,

anche se magari “nu je piace stoggenere”,

ma ne abbiamo parlato così tante volte

che ora ho scritto

e la dedico

a te

e alla memoria di un ascolto in macchina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Plumpton Place, Plumpton, East Sussex, primavera del 1972

 

 

 

Per prima cosa, Harrison era uno stronzo!

Non nel vero senso del termine, sapeva che era una brava persona e, in un certo senso, un esempio da seguire, ma quella battuta gli aveva fatto venire un crampo allo stomaco di quelli che ti tengono sveglio per qualche notte. In poche parole, lo stava facendo ribollire di rabbia. Il che era tutto un programma. A vederlo seduto sul suo dondolo, circondato da pizzi e merletti e l’espressione concentrata, sembrava solo un placidissimo dandy che si gode il panorama pomeridiano. Eppure, a guardarlo bene, quell’incarnato pallido lo rendeva, per assurdo, cupo come una pantera che punta la preda, la bocca simile a una linea, così serrata da sembrare solo disegnata.

Si abbandonò a un sospiro pesante, che gli allargò il petto smilzo in maniera buffa.

Hey, John, mi chiedevo. Non che non ne siate capaci, per carità, ma una ballata riuscirete mai a farla?

- E tu, oltre a farla piangere, sai far fare qualcosa di più eccitante alla tua chitarra, George caro? – sussurrò a denti stretti, per poi chiudere la mano attorno alla pietra che teneva sul palmo, scagliandola violentemente sulla superficie dell’acqua, facendola rimbalzare per qualche metro, il tutto senza smuovere una ruga, senza sollevare un ciglio, l’espressione fredda e pungente come se non si fosse mosso.

Jimmy Page non odiava Harrison, tutt’altro, ma c’era qualcosa che amava profondamente: il suo orgoglio. E chiunque provasse anche minimamente a sfiorarlo, lo mandava in bestia come niente al mondo. Non che l’obiettivo di Harrison fosse quello, per carità, ma aveva messo le mani avanti su una cosa che pensava di sicuro; che non fossero capaci di fare altro oltre alle “stesse canzoni”. Un riff graffiante, un blues sensuale, un assolo che strappasse il cuore e lo stomaco a chi lo ascoltava, riducendoli a brandelli.

Jimmy, però, sapeva.

Sapeva che con le sue dita avrebbe potuto accarezzare l’anima di una persona attraverso la sua chitarra; sapeva che quelle corde poteva sfiorarle come se fossero state di seta per comporre qualcosa di delicato; Jimmy sapeva, era certo, che avrebbe potuto comporre qualcosa che avrebbe fatto cascare la bocca di Harrison fin sotto le ginocchia.

Sospirò, tornando con la schiena contro lo schienale del dondolo e accavallando le gambe.

Il mondo, attorno a lui, sembrava il naturale adattamento al suo umore. Il prato e il fiume erano illuminati dal sole pomeridiano, in una tavolozza composta dalle più svariate razze floreali, le foglie di un verde così brillante da sembrare quasi gialle. I raggi di luce filtravano tra i petali rendendoli sfumati, accentuandone i colori, gli alberi erano immobili e niente, in quel quadro impressionista che sembrava uscito dalle mani consumate di Monet, faceva pensare all’arrivo di qualcosa che potesse destabilizzare quella quiete. La realtà, invece, confermò l’ipotesi che si potesse trattare di una calma apparente. Proprio di fronte al punto in cui il sole sarebbe tramontato, una coltre di pesanti nuvole grigie viaggiava lenta nel cielo, in direzione della grande stella quasi si stessero preparando ad inghiottirla, gettando sulla meravigliosa tenuta di Plumpton Place un’inquietante ombra.

Jimmy annusò l’aria. Non si prese nemmeno la briga di voltarsi. Nonostante lui continuasse a vedere il “lato luminoso” del suo giardino, il profumo lieve della pioggia che avanzava nell’aria gli bastò per capire che alle sue spalle il cielo si preparava a cascare giù.

- Rientriamo. – si disse, quasi non fosse da solo.

Raccolse pigramente la giacca di lana dal sedile, si coprì le spalle esili, caricò la chitarra acustica che giaceva a terra sul grembo e la portò in casa con cura e attenzione.

Appena la porta fu chiusa con uno scricchiolio e un tonfo leggeri, un tuono lontano e cupo annullò il silenzio.

 

 

*

 

 

Le nuvole avevano ormai coperto il cielo, mentre piccole gocce di pioggia iniziavano a saltellare sui vetri delle finestre come cavallette. Ne lasciò una aperta, lasciando che l’odore dell’acqua e della terra bagnata entrasse in casa, inebriandola di quel profumo che amava così tanto. Si lasciò andare sulla poltrona vicino al camino acceso, il salotto illuminato dalla sola luce del fuoco che andava ad aggiungersi a quella fredda e opaca del tramonto coperto dal temporale, rannicchiandosi fino ad avere le ginocchia attaccate al petto, crogiolandosi nel profumo del suo accappatoio, della pioggia e del dopobarba.

Amava la pioggia, il rumore lo rendeva tranquillo, il profumo lo faceva sentire al sicuro. Adorava seguire gli strani disegni che le gocce formavano sui vetri e gli anelli perfetti che si perdevano sulla superficie del lago. E poi, Plumpton Place. L’acqua, battendo su quelle pareti, risuonava dolcemente per tutta la casa e il suono era così perfettamente amplificato che Jimmy lo sentì rimbombare al centro del petto. Se non fosse stato così debole di costituzione e affezionato alle comodità, sarebbe anche uscito lì fuori, godendosi la sensazione della pioggia che gli appiccica addosso i vestiti e gli accarezza il volto.

L’unica cosa che avvertì, invece, fu il trillo del telefono. Lo sentì giusto in tempo, accorgendosi che la pioggia lo aveva rilassato così tanto da essere sul punto di addormentarsi. Così, si trascinò pigramente fino alla scrivania presente nel salotto, afferrò la cornetta e rispose con un mezzo sbadiglio.

- Oddio, avessi saputo che dormi alle sei del pomeriggio sarei venuto a svegliarti, Bella Addormentata. – scherzò una voce roca dall’altra parte del telefono.

- Che umorismo da quattro soldi, Plant. – disse Page con aria di sufficienza – Ma che hai fatto alla voce?

- Nulla. – rispose seccato – Sono solo raffreddato, tutto qui.

- Wow, il Dio Dorato con l’influenza! Credevo fossi immortale, Percy! – rise piano, passandosi una mano tra i capelli ancora lievemente umidi.

- Poi sono io a fare umorismo da quattro soldi. – rispose l’altro con voce seccata.

- Chi se ne frega. – disse Jimmy continuando a ridere – Comunque, seriamente, per evitare certi inconvenienti dovresti perdere l’abitudine di dormire col culo per aria.

- Ancora? – chiese Robert seccato, mentre Jimmy continuava a ridere.

- Ok, la smetto! – esclamò Jimmy tirando forte col naso.

- Meno male! – esclamò Robert – Anche se mi fa piacere sentirti di buon umore. – aggiunse con tenerezza.

- Giusto in tempo. – sussurrò piano Jimmy, mentre una morsa nervosa iniziava a farsi risentire nello stomaco.

- Che vuoi dire? – chiese Robert incuriosito.

- Nulla. – tagliò corto Jimmy, scuotendo la testa, in quel gesto inconscio che svelava la sua preoccupazione, ma a Robert non gli servì vederla per poterla avvertire.

- Non dirmi che è ancora per Harrison! – disse sconvolto.

Jimmy sospirò. Robert ormai lo conosceva così bene che a volte lo temeva. Adorava i propri segreti e preferiva rigirarsi nella mente le proprie preoccupazioni, ma con Robert era diverso. Il biondo ormai aveva imparato a intuire i suoi pensieri anche stando in silenzio.

- Ti prego, Jim. Come se non fossero già abbastanza quelle rogne dei giornalisti, ora passi anche il tempo a pensare a quello che dice Harrison? – disse prima che Jimmy avvertisse una voce in sottofondo che diceva “Mandalo a fanculo, Pagey!”.

- E tu avresti potuto farti i cazzi tuoi, Bonz! – lo rimproverò Robert al telefono e a Jimmy sembrò quasi di vedere la testa del cantante scattare indietro per sbraitare contro il loro batterista – Sei il solito pettegolo!

- Suvvia, Robert, lascia perdere. Sai che passo il tempo a farmi seghe mentali. – disse Jimmy come se si stesse arrendendo. La verità era che non si sarebbe mai preso la colpa di una critica che sapeva di non meritare.

- Anche se ogni tanto ti farebbe bene una vera, Jim! – puntualizzò Robert, facendo sbuffare Jimmy.

- Ricominciamo con le battute tristi?

- Ok, sta volta hai ragione. – disse Robert – Ma che fai lì a Plumpton Place? Sai, Bonzo starà qui per qualche giorno e ci si diverte pure a vedere Pat e Maureen che litigano in cucina. – aggiunse ridendo, ma venendo bloccato da uno starnuto.

“Chiamate un’infermiera per Percy!” urlò John da qualche parte dal salotto di casa Plant.

- Non è una cattiva idea. – sussurrò Robert ridendo piano – Quindi?

- Tranquillo, Percy. – disse Jimmy sottovoce – In questi giorni sto componendo qualcosa e ho bisogno di concentrazione.

- Va bene, ho capito. – lo fermò Robert con l’aria di chi la sa lunga.

- Grazie della chiamata, Robert! – disse cordialmente – Divertitevi anche per me.

Si congedarono, Bonzo che dall’altra parte aveva urlato un ultimo “Non ci pensare, JimJam!”.

Fosse facile.

Si guardò intorno, mani sui fianchi. Le ombre di divani e cuscini sembravano invitanti abbastanza da poter prendere un libro, stendersi e ascoltare solo lo scoppiettio del fuoco e lo scorrere regolare della pioggia, ma il petto gli premeva troppo per starsene lì col naso ficcato nelle pagine ingiallite; così si precipitò sulle scale, raggiungendo il secondo piano, infilandosi in camera sua solo per mettersi un paio di pantaloni e abbandonare l’accappatoio ormai umido. Quando si assicurò di aver lasciato tutto in ordine, uscì nel corridoio, lo percorse fino alla fine e aprì l’ultima porta a destra; subito le narici gli si riempirono del profumo del legno e della moquette, godendosi quel ronzio rassicurante che partiva ogni volta accendesse la luce.

Il suo studio di registrazione sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro per l’infinita quantità di cavi, amplificatori, chitarre e, soprattutto, idee. Nonostante tentasse di mantenerlo in ordine, ogni volta che entrava lì dentro lasciava un caos inguardabile. Alla fine dei conti, per lui suonare era come fare l’amore e qualsiasi amante che si rispetti non può fare a meno di disfare le lenzuola.

Si chiuse la porta alle spalle, sentendosi già meglio, percorrendo con lo sguardo la strada liscia e lucida del dorso di ogni manico delle sue chitarre. Afferrò la sua fedele Gibson, sedendosi a terra e incrociando le gambe, portandola al grembo come stesse facendo accomodare una donna sulle sue cosce. Si piegò in avanti, baciando con religiosità il legno che componeva la cassa della chitarra, soffermandosi ad annusarne il profumo, quel miscuglio intenso tra vernice e legno. Quando sollevò la testa, guardò la finestra. Pioveva ancora.

Sorrise a bocca chiusa, prima di prendere a sfiorare lo strumento con premura. Era fredda, ma a Jimmy dava sempre una sensazione infinita di calore; quel legno sembrava avere ormai la consistenza della pelle sulla quale, a furia di accarezzarla o graffiarla, aveva lasciato il calco delle proprie dita. Non c’era donna che lo completasse al meglio come la sua Gibson, né una voce che, gemendo, lo facesse sentire orgoglioso, felicemente virile come il suono di quelle sei corde.

Iniziò a suonare, piano, quasi avesse paura di fare rumore, amplificatore spento. Lasciava viaggiare le mani a vuoto, chiedendo ispirazione.

So che tu puoi aiutarmi. Sei tu l’unica che sappia leggermi dentro, che sappia tradurmi in Musica. Guidami, amore mio, portami alla meta.

E la Gibson rispose, cristallina, armonizzando i pensieri di Jimmy.

Ed eccola lì, la sua preoccupazione, il suo problema.

Something.

Harrison, proprio lui. Quelle note così malinconiche, dolci, semplici. Accordi che, in quel momento, pizzicarono un punto tra il cuore e lo stomaco di Jimmy, facendogli chiudere gli occhi. Una canzone d’amore e nostalgia, quasi una dichiarazione d’arresa. Una ballata. Continuò a suonarla, sicuro che dentro ci avrebbe trovato qualcosa.

Le note iniziali, che piano salgono per poi posarsi lievi.

Le ripeté, all’infinito, fino a quando non si accorse che gli stava cambiando la velocità.

Era diventata lenta, abbandonando la malinconia per poter diventare evocativa, un ingresso, una carezza. Un invito. Si vide, per un attimo, a piedi nudi sotto la pioggia, il viso rivolto al cielo.

Sorrise ancora.

Cambiò un accordo, ebbe un brivido.

Eccola, la melodia, le note esatte. Un lieve crescendo, come l’inizio di un temporale, le gocce che, rade toccano terra, senza violenza. Jimmy chiuse gli occhi, per avere una visuale migliore sulle sue fantasie.

Devo vedere la Musica per poterla seguire.

Continuò a muovere le mani sulla sua chitarra, con tenerezza, come una donna amata. Immaginò di poterla prendere per mano, portarla sotto la pioggia e farla danzare con lui, i piedi nudi immersi nell’erba, sporchi di fango, annusando quel profumo che l’aria assume durante un temporale estivo. Suonava e vedeva, ad occhi chiusi, quel legno trasformarsi nella più calda delle pelli, morbida, giovane, ricca del tepore di quel sole nascosto dietro le nuvole grigie. La immaginò scura, in modo da poter vedere gli aloni delle gocce posarsi sulle braccia, sulle spalle nude. La melodia continuava nella sua testa e nelle orecchie come un lento dolce, ma passionale, di quelli che ti fa stringere le braccia l’uno attorno a l’altra, come a fingere di ripararsi dalla pioggia.

Sorrise, ad occhi chiusi.

Nemmeno si rese conto che stava dondolando avanti e indietro, trascinato, la Gibson che ad ogni movimento rifletteva la luce che entrava dalle finestre.

Un lento sotto la pioggia …

Nel frattempo, quelle corde, avevano “cambiato voce”. Non più il suono metallico dell’elettrica spenta, ma quello caldo emesso dagli amplificatori e quello romantico dei violini. Tutto nella sua testa, un’orchestra immaginaria ed invisibile che segue i passi dei danzatori. Niente regole. Nella sua mente, se era lui a ballare, aveva la facoltà di decidere cosa avrebbero suonato gli strumenti, che cosa avrebbe cantato la voce del vento tra la pioggia, che rumore avrebbe fatto ogni singola goccia che si infrange sul lago, come si sarebbero piegati i fiori ad ogni schizzo. Sentì le dita umide, gli sudavano le mani. O forse era la sua donna ormai umida di pioggia, che gli porgeva la mano. Una giravolta, una risata, capirsi e parlarsi solo con gli occhi. Riconoscersi ad ogni suono, fino alla fine dei tempi.

La sentiva, l’acqua. Quel rumore cristallino, come piccole bacchette che picchiettano piatti di bronzo.

La melodia che cresce.

La pioggia che diventa incalzante.

Il vento che sale un’ultima volta e poi tace.

Il tuono.

Un colpo di grancassa che gli fece aprire gli occhi, la stanza illuminata per un istante da un fulmine.

Jimmy sorrise, gli occhi che saettavano da una parte all’altra osservando la pioggia scrosciare giù con violenza, le sue mani che come impazzite ne enfatizzavano la caduta come se fosse stato un trionfo.

La melodia era cresciuta con un tale impeto che sentì il cuore rimbalzargli nella gola e chiuse gli occhi un’altra volta. L’immagine di lui sotto il temporale era ancora lì, in compagnia della sua chitarra divenuta la più amata delle donne. Più bassa di lui, se ne accorse solo quando la trascinò a sé, baciandola con trasporto e a labbra serrate, sovrastandola e facendole piegare la testa all’indietro. Un bacio da cinema, pensò.

Drizzò le orecchie, si accorse che i tuoni si allontanavano, il suono che arrivava ovattato come un addio urlato da un treno in corsa.

Il temporale stava per finire.

Decise di seguirlo.

Riaprì gli occhi.

Tornò a guardare la sua Gibson, nelle sue forme naturali. Accarezzò dolcemente quelle corde, improvvisando un assolo delicato, sottile, come le ultime gocce di pioggia che ormai scivolavano sui vetri, quasi silenziose. La mano destra pizzicò quelle corde di ferro come se fossero state fili di ragnatela, come se ad un tocco più forte si fossero spezzate.

La quiete che torna dopo la tempesta.

La mano sinistra scivolò sul manico.

Gli tornò in mente Harrison.

Una nota amara nell’assolo, un breve istante di inquietudine che volle trasformare in un arpeggio.

Ogni cosa doveva essere Musica in quel momento.

Poi si accorse di cosa aveva composto.

Sorrise per l’ennesima volta.

Trasformò l’arpeggio, facendolo diventare romantico, pieno della felicità che gli sbocciava nel petto.

Poggiò le labbra sul legno caldo della sua Gibson.

Un’ultima nota.

Fuori il cielo si aprì. Un arcobaleno sottile e sbiadito, ma luminoso.

Poi, il silenzio.

 

Si lasciò andare a terra, portando il manico al petto, la cassa tra le gambe. Le strinse intorno al legno, quasi lo strumento potesse ribellarsi e sfuggirgli. Se Dazed and Confused era stato il suo modo di esprimere la sua feroce passionalità e il suo lato oscuro, ciò che aveva suonato in quel momento era il lato più tenero, dolce e nascosto della sua anima.

Era felice, la melodia che aveva composto era perfettamente impressa nella mente.

 

Vaffanculo, Harrison!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Angolo della pazza:

Salve! ^^

C’è poco da fare, The Rain Song è una delle mie preferite (seconda solo a Since I’ve Been Loving You e non uccidetemi se metto Stairway To Heaven solo terza, succede) e non potevo non scriverci qualcosa di specifico.

Prima d’ora, avevo scritto qualcosa del genere solo su Echoes dei Pink Floyd (altra meraviglia! *^*) ed ora mi sentivo in dovere di dedicare qualcosa a questa perla dei Led.

Non so voi, ma per me, per capire Jimmy, bisogna ascoltare Dazed and Confused e The Rain Song. La prima rappresenta la sua parte sadica, quella rude e arrabbiata, quell’archetto scagliato sulle corde come una specie di frustino. Poi, la delicatezza della seconda, quelle carezze e quell’abbandono che diventa palpabile nelle ultime note.

Nessuna antipatia per George, of course. La verità e che andò a dire veramente a Bonzo perché non facessero ballate e quella pettegola baffuta lo spiattellò agli altri. Ergo, come poteva reagire quel paranoico/segaiolo mentale di Jimmy? Questa è la mia risposta!

Bene, detto ciò, nessuno scopo di lucro per:

- Cherry, Amy Winehouse.

Ascoltatela, leggetene il testo e ditemi se Jimmy non sarebbe d’accordo! :3

Un ringraziamento a Ire e Cla.

Siete le mie fedelissime, come posso dimenticarmi di voi?

Un abbraccio,

Franny.

   
 
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