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Autore: Tomoko_chan    26/08/2014    4 recensioni
“Avete la più pallida idea di che cosa significhi avere un macigno talmente tanto grande sul cuore da non permettervi neanche più di vivere? Avete mai provato a capire come ci senta a decidere di gettare la spugna, di arrendersi, di mollare tutto e prendere quella che da tutti viene definita la “via più facile”, ovvero morire?” Solo la lettera di un suicida può rivelare tutta la sofferenza di quest’ultimo. Ma, a volte, non è solo il suicida a soffrire per quella morte. La storia di una scelta difficile e di una Hinata e un Naruto in chiave decisamente diversa. Scritto in un momento decisamente no.
[NaruHina][Angst][Tematiche delicate][Blow]
Partecipante al contest "Cosa vi assegnerà la sorte?" indetto da Mokochan sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki | Coppie: Hinata/Naruto
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
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La   suicida    ~    Non è l'unica a soffrire.

 
 
Avete la più pallida idea di che cosa significhi avere un macigno talmente tanto grande sul cuore da non permettervi neanche più di vivere? Avete mai provato a capire come ci senta a decidere di gettare la spugna, di arrendersi, di mollare tutto e prendere quella che da tutti viene definita la “via più facile”, ovvero morire? E non fate i buonisti, no, non permettetevi, perché cavolo, non avete idea di come ci si senta, non provate neanche a calarvi nei panni delle altre persone, non ve ne fotte niente. E sapete cosa? Neanche a me, ormai. Per tutta la vita mi sono sbattuta a destra e a sinistra, non ho mai pensato a me, ho dato il mille per cento delle mie possibilità per far stare bene gli altri, per aiutare, per essere utile, per un sorriso. Cos’ho ricevuto? Merda. Perché sì, perché mi sono accorta troppo tardi che quello che ho intorno è solo infima spazzatura incapace di migliorare o di darmi qualcosa di più, perché la mia è una specie rara in via di estinzione: sono pochi quelli come me, capaci di mettere sempre al primo posto gli altri, senza stancarsi mai. Sono poche le persone buone, sincere e gentili: non esistono neanche, forse sono solo una mia fantasia, creata per illudermi di non essere davvero sola al mondo, io che mi sono sempre sentita un pesce fuor d’acqua. Troppo matura per la mia età, intrappolata in un corpo che non mi rispecchia, fra gente che non mi capisce, in un paesino del cavolo senza sbocchi dove tutta le persone sono corrotte dalla cattiveria e dalla stronzaggine. Uno, ne avevo trovato, che si salvasse; per amor suo ho perdonato tutte le sue cazzate, ho aspettato, ne ho fatte anche io, ma sono sempre stato un tantino più in alto, in quanto a maturità; mi sono aggrappata a lui con tutte le mie forze, siamo cresciuti insieme, e proprio quando sembrava che fossimo arrivati allo stesso livello, ecco che puntualmente tutto peggiora: forse è finito l’amore, l’ho pensato spesso, forse non mi sopporta più, perché davvero si innervosiva troppo, per nulla, era diventato impossibile parlargli, proprio con lui che era l’unico con cui potevo avere un discorso chiaro e aperto, proprio con lui che era l’unico a comprendermi. Nemmeno la mia “famiglia” mi ha mai compreso, non si sono mai accorti del mio valore, nonostante tutti i miei sforzi per cercare di migliorare, per farmi notare da loro, non hanno capito quanto fossi diversa da tutti, e nello stesso tempo più intelligente e più stupida di tutti loro messi insieme – stupida, sì, perché sono stata incapace di vedere la loro perfidia e ho continuato a lasciar andare i miei sentimenti per inerzia, i quali mi hanno portato solo al male più puro. Non si sono accorti di quanto fossi matura, già cresciuta, non hanno pensato che con tutto quello che avevo affrontato mi avrebbe cambiata, in qualche modo, in ogni maniera mi hanno tappato le ali e rinchiuso in una fortezza che non è neanche fatta d’oro, ma di buia e oscura pietra. Ed io per anni mi sono dibattuta nella mia cella sempre più piccola per il mio Io in crescita, non ho mai smesso di lottare, mi sono sempre rialzata dopo tutte le batoste subite, ma certa gente non ha neanche voglia di capire e così hanno buttato via la chiave della mia libertà. Non sono mai stata libera, io, che dentro avevo il cielo e l’oceano ed in mezzo un cuore a far da orizzonte; io che ho desiderato il vento fra i capelli e la terra sotto i piedi fin da piccola. Ho ignorato le violenze ripetute per mantenere unità la mia famiglia, ho ignorato il dolore, la sofferenza, i confronti ripetuti con la Morte in faccia; e nonostante tutto questo non si sono accorti della differenza fra me e i miei coetanei, fra me e il mio stesso sangue, fra me e il mondo; non ho mai avuto valore per loro, neanche due spicci; raramente mi sono sentita amata e ancor meno compresa; sono sempre stata invisibile, magicamente materia fisica solo quando c’era da incolpare qualcuno o da fare qualcos’altro. Non è stata una bella vita, la mia, solo una continua maratona – una corsa, sì, anche se apparentemente sto sempre stesa sul letto con la testa in un libro, nonostante questo, ho sempre corso alla ricerca di qualcosa di migliore, di qualcuno in grado di capirmi, di amarmi e apprezzarmi. E l’avevo trovato, sì, o almeno credevo, ma non ho avuto il tempo di capire, né per sistemare le cose, neanche per vivere. Quindi me ne vado, sì, per sempre. E non andate a raccontare alla gente che è stato un’incidente, perché non è così. Non dite che avevo tanti amici, una famiglia che mi amava, una vita felice, perché questa non è mai stata la mia realtà – non siate ipocriti e dite la verità. Dite di me che ero una persona buona, caparbia, forse debole, ma sempre disponibile. Forse lui dirà che ero dolce, divertente, amorevole, ma solo lui è stato il testimone di questa mia parte interiore, solo lui poteva capirla e trattarla con i guanti. Ho già nostalgia di quei momenti in cui riuscivo a farlo sentire il Re del mondo grazie alla mia dolcezza – lui me lo diceva, sì, non smetteva di dirmi che era la cosa che amava più di me. Dite che a me non bastava andare una sera al cinema per sentirmi libera, che per me questa parola non significava essere portata a fare compere, truccarmi, parlare con i ragazzi, bere un superalcolico. Dite che per me libertà non era un paio di scarpe nuove, fumare, sesso col primo che capita. Dite che io volevo essere libera di fare le mie scelte, le mie esperienze, i miei sorrisi, le mie corse, il mio affanno, l’amicizia, l’amore. Dite che io nella mia vita ho sempre desiderato cose semplici come la libertà che nessuno si è degnato di darmi e che io da sola non ho trovato. Che poi, cose così enormi, grandi, rare e importanti le definiamo semplici, quasi con banalità; la chiamiamo “aria”, la diamo per scontata, non ci facciamo caso, eppure senza non potremmo vivere – quanto può essere stupido un uomo? Per me, essere libera, significava poter credere in un sogno e realizzarlo, inseguirlo finché non riuscivo ad acciuffarlo, finché non mi sentivo realizzata. Essere libera, significava correre e cadere, ma ricominciare a correre il prima possibile. Essere libera significava poter fare le proprie scelte, dalla più piccola alla più grande, magari anche sbagliare, ma scegliere, DA SOLI.
Volevo solo essere libera, qui non lo sono mai stata, perciò…. Addio.
 
Ti ho amato, davvero.
Perdonami… spero che sarai più fortunato di me e
troverai presto qualcuno capace di capirti.
Sempre tua,
Hinata.
 
 
Naruto sollevò lo sguardo dal foglio spiegazzato e lacrime calde gli sfiorarono le guance.
Non riusciva a capire, Naruto, quella realtà macabra e incomprensibile non riusciva proprio a entrargli nella mente. Sapeva solo che, quella mattina all’alba, due poliziotti e il commissario in persona si erano presentati davanti alla sua porta con occhi bui e freddi. Il commissario lo aveva riaccompagnato dentro casa, lo aveva fatto sedere e, senza giri di parole, gli aveva comunicato che la sua fidanzata si era tolta la vita durante la notte. Infine, gli aveva messo in mano quel foglio. Non riusciva a capire, Naruto, anzi, sapeva benissimo cosa era accaduto, lui sapeva, ma non riusciva a crederci. Hinata, la futura ereditiera della ricca famiglia Hyuuga, si era tolta la vita perché stanca di quella bella prigione d’oro.
 
≪ Ti invidio, sai, Naruto? la sua voce riecheggiò nella sua mente provocandogli più e più fitte ≪ Tu puoi fare quello che vuoi, tu sei libero.
Lui rideva e le diceva che col tempo sarebbe riuscita anche lei a essere libera, ma non aveva capito quanto Hinata fosse succube della sua famiglia, delle incombenze, dei giudizi, della vita che aveva deciso per lei suo padre. Anche stare insieme era stato difficile – dovevano nascondersi, continuamente, tenere il segreto – contribuendo quindi al suo senso di impotenza. Era stato insopportabile per lui e frustrante per lei, eppure erano rimasti insieme, continuando ad andare avanti. Lei gli aveva insegnato molto – tutto – e non poteva negare il suo essere sempre un gradino più in alto, anzi, molto di più, perché Hinata, nella sua umiltà, non ammetteva quanto fosse anni luce più avanti di lui. Lei era diventata il suo punto di riferimento, il rifugio  cui tornare, serenità concreta; quando la guardava, ogni suo dubbio o problema si dissipava all’istante e ritrovava se stesso, specchiandosi in quei occhi lunari, innaturali.
Un moto di rabbia lo invase, perché lei lo aveva abbandonato, aveva rinunciato a lottare, si era arresa e lo aveva lasciato solo a se stesso. Come poteva anche solo aver creduto che sarebbe stato capace di vivere senza di lei? Come aveva potuto quel pensiero sfiorargli la mente? 
 
≪ Signor Uzumaki? ≫ la voce del commissario lo risvegliò ≪ Siamo arrivati. E’ pronto? ≫
Non si era neanche accorto di essere entrato in quella sala buia e gelida, totalmente assorto dai propri pensieri. Aveva chiesto lui di vederla e, nonostante le prime rimostranze, aveva ottenuto il permesso per raggiungerla in obitorio. Obitorio. Un brivido lo investì. Hinata non poteva essere in un obitorio. Hinata poteva stare soltanto fra le sue braccia, o in un campo di girasoli, non lontano dal suo sguardo. Invece adesso era lì, e si sentì in colpa per questo. Se solo lui l’avesse presa sul serio, se avesse colto prima la sua insofferenza, se avesse tentato di aiutarla… ma lui era sempre stato cieco a tutto questo, non aveva mai avuto la maturità per cogliere tutto ciò, era sempre stato un idiota, un bigotto, un menefreghista…
≪ Non colpevolizzarti, Naruto-kun. ≫ ancora una volta quella voce nella sua mente gli serrò il fiato e sentì l’ombra di una carezza sul volto ≪ Tu sei la persona migliore che io conosca!
Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ancora una volta, ed era solo il primo giorno senza di lei: come avrebbe fatto a vivere negli anni a venire?
Annuì leggermente, notando lo sguardo colmo d’apprensione dell’uomo armato. Non era pronto, non lo sarebbe mai stato, ma desiderava vederla, ad ogni costo. Osservò quindi il tavolo laminato, il corpo rigido dalle forme piene su di esso, il lenzuolo bianco a coprirlo, e infine l’uomo con lunghi capelli neri e lo sguardo affilato che lo osservava dall’altro lato del tavolo.
 
≪ Proceda, Dottor Orochimaru. ≫ affermò l’uomo con lui.
Il medico legale afferrò un lembo del lenzuolo e lo sollevò, portandolo sopra al petto della giovane.
Una donna di ventidue anni, dai lunghi capelli color notte, il viso pallido e delicato, labbra piene e lunghe ciglia a delineare mezzelune riposava sotto al telo. Riposava. Non poteva essere morta.
Ancora una volta, Naruto non riuscì a credere alla realtà che gli si presentava davanti agli occhi. Un nuovo moto di rabbia verso di sé e verso di lei lo invase, portandolo a stringere i pugni in modo automatico. Come poteva averlo lasciato solo in quel mondo che non li aveva mai capiti? Come poteva Hinata aver sporcato di sangue e morte quel “noi” infinito? Si sentì sconfitto e solo, perché quelle risposte non gliele avrebbe mai date nessuno. Le gambe gli cedettero e si ritrovò in ginocchio al suo capezzale, il volto vicino a quello esanime della sua amata. Le lacrime gli irroravano il viso e gli appannavano la vista, incontrollabili. Allungò una mano e le accarezzò la fronte, rabbrividendo per il contatto con quella pelle gelida, per poi accarezzarle dolcemente i capelli.
Osservò il profilo perfetto, il naso all’insù, le labbra piene ormai violacee, gli occhi chiusi.
Occhi chiusi. Chiusi. Realizzò tutto in quel secondo.
Non avrebbe più potuto ritrovare se stesso in quegli occhi. Erano chiusi, contro le ingiustizie del mondo, per sempre.
Si sentì perso.





 


Angolo dell'Autrice~
Nulla, è angst, proprio non riesco a non scrivere altro, ultimamente. Sempre che ci riesca, a scrivere.
La mia tristezza raggiunge limiti sconfinati sotto questo punto di vista ! Un blocco dello scrittore 
davvero insormontabile. Per questo sarà difficile vedermi, qui, prossimamente. Sono in combutta
con il mio pc che non ha neanche voglia di funzionare e con la mia caparbia insicurezza.
Beh, questa storia non era per il contest, era solo uno sfogo che poi, più o meno, sono riuscita a
integrare. Spero non risulti OOC ma solo profondamente AU e What If, in  universo parallelo dove
Hinata è stanca della propria fortezza d'oro e decide di suicidarsi - una scelta tutt'altro che semplice.
E il nostro Naruto... Eh. I prompt erano cinema e incidente, mentre la citazione d'ispirazione era
"Mi ritrovavo guardandola negli occhi, mi smarrivo quando perdevo il suo sguardo.”, da Blow, uno
dei miei film preferiti ( si era capito?). Spero che la storia vi sia piaciuta.
Vi invito inoltre a seguirmi nella mia nuova pagina facebook. 
https://www.facebook.com/tomoko.efp.autrice
   
 
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