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Autore: simply_me    20/09/2008    1 recensioni
Detestava quei momenti. Quelli in cui il suo corpo era costretto a fermarsi, in cui tutte le luci si spegnevano, in cui i rumori tacevano. Li detestava, li detestava veramente. Perché la mente, al contrario delle membra, non si fermava...Si metteva a sedere al centro del proprio letto rannicchiando le gambe e si concentrava sul suo respiro pensando: “Coraggio! Forza! Respira. Respira lentamente, respira profondamente...
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Respira

Detestava quei momenti.
Quelli in cui il suo corpo era costretto a fermarsi, in cui tutte le luci si spegnevano, in cui i rumori tacevano.
Li detestava, li detestava veramente.

Perché la mente, al contrario delle membra, non si fermava. Perché il respiro procedeva lento, inesorabile, perché il cuore, sui cui battiti si era sempre concentrata per prendere sonno, batteva.
Batteva.
Batteva a un ritmo diverso, un ritmo che non era il suo,un ritmo che non sarebbe dovuto essere, che non era... quello giusto.

E allora si concentrava.
Si metteva a sedere al centro del proprio letto rannicchiando le gambe e si concentrava sul suo respiro pensando: “Coraggio! Forza! Respira. Respira lentamente, respira profondamente...

Dio! Se solo ci fosse riuscita!

Ma il risultato era sempre lo stesso, sempre.
Un costante, ineluttabile fallimento.

Non essere capace di respirare a fondo?
Non lo augurava a nessuno... neppure a chi era stato capace di causarle un tale... dolore, un tale vuoto.

Si concentrava sui battiti del proprio cuore riscoprendoli ogni volta sempre più deboli, più soffocati.
Come se una morsa racchiudesse quell'organo e lo comprimesse in uno spazio che non era il suo. In attesa di cosa?
Che si stancasse, forse, che smettesse di lottare, che smettesse di... battere.

Tutto questo non era logico, tutto questo non aveva senso, tutto questo... non era giusto.

Ma la vita era ingiusta. Lo sapeva, lo aveva sperimentato sulla propria pelle già in passato.
Il mondo era insensato, illogico, crudele.
Perché era crudele che il dolore potesse gioire e vivere indisturbato, facendosi beffe delle proprie vittime, almeno apparentemente, e che queste ultime non potessero fare altro che pregare, pregare che il tempo passasse in fretta.

Perché era così che funzionava, no?
Perché voleva crederci anche lei, perché voleva credere con tutta se stessa che avevano ragione quando le dicevano che il tempo guariva ogni ferita.

Eppure... sapeva che non era così.
Non per lei, lei così costante.

Aveva addosso ferite che si portava dentro da un tempo passato, ferite nascoste da cicatrici solo apparenti, che bastava sfiorarle perché riprendessero a sanguinare.
E c'erano le cicatrici...
Quelle che facevano male, che sentiva tirare e pulsare sotto la superficie, nonostante fossero passati anni, nonostante che i colpi che le avevano inferte fossero stati meno forti di quest'ultimo, meno... crudeli. Così sentiva.
Cicatrici apparenti di ferite che era stata in grado di sopportare tutto questo tempo solo perché aveva avuto ancora la possibilità di respirare a fondo, di sorridere di quel sorriso che avrebbe dovuto accendere i suoi occhi anche allora.
Un sorriso giusto, un sorriso... reale, sincero; non un sorriso tirato, artificioso, come quello che sfoggiava adesso: un sorriso che non le illuminava gli occhi.

Le ferite erano ancora lì, a pulsare sotto la pelle, a tirare, a fare male.

E adesso... non aveva più motivo di resistere al dolore, non ne aveva più la forza.
Perché ciò che la faceva resistere le era stato strappato via, senza che lei potesse farci nulla, nonostante avesse lottato con tutta se stessa, con la sua mente, il suo spirito, con ogni battito del suo cuore, con tutto il fiato che aveva in corpo.

Un guscio vuoto... un “appartamento sfitto” e “inabitabile”.

E il dolore era diventato più forte, adesso, più esteso.
Alle vecchie ferite se ne erano aggiunte altre, molto più profonde, molto più gravi.

Ferite alle quali si illudeva di essere in grado di non pensare.
Ferite al cui dolore fingeva di essere immune, ammazzandosi di lavoro, di fatica, impegnandosi in tutto ciò che sperava potesse aiutarla a non pensare, a non sentire: lavoro, studio, sport, alcol, vecchie amicizie accantonate, gente nuova, nuovi ambienti. Ferite che durante il giorno cercava di ignorare disperatamente, mentre si guardava allo specchio ripetendosi: “Va tutto bene. Passerà... deve passare. Respira... respira.

Un'ipnosi che raramente funzionava a dovere, che riusciva a far valere solo durante il giorno, finché si forzava ad agire, a non pensare, a non sentire.
Un'ipnosi che doveva rinnovare ogni ora in cui stava a casa.

Respira... respira.

Un'ipnosi che non valeva nulla in quei momenti.

In quei momenti c'era soltanto lei.
Lei e quella sensazione.
Quel vuoto doloroso e... opprimente.

Quasi le avessero strappato via dal corpo cuore e polmoni e l'avessero lasciata lì a ricucirsi il petto incuranti delle ferite che avevano causato.

Ed era proprio questo il punto: lei era sola.

Non poteva certo negare di essere circondata da amici, conoscenti, persone che le volevano bene, che si preoccupavano per lei e provavano ad aiutarla... ma non era lo stesso.
Non lo sarebbe mai stato.

Perché lo sapeva bene lei: era già un miracolo che capitasse una volta nella vita di incontrare una persona capace di leggerle dentro, di farla sentire completa.
E lei... l'aveva trovata in lui.
Una persona con la quale non le sarebbe mai servito mentire, capace cogliere ogni sua idea, ogni sua sensazione, prima ancora che lei gliene desse voce, Una persona che colorava la sua vita ogni singolo istante semplicemente con un sospiro, semplicemente pensandola o prendendola scherzosamente in giro.
Una persona per la quale probabilmente lei non era mai stata abbastanza.
E forse lei lo aveva sempre saputo, per questo aveva scelto allora: avrebbe dato tutta se stessa, anche la sua vita, senza battere ciglio, se fosse stato necessario, senza alcuna esitazione. Lo aveva deciso allora e ne era sempre stata convinta.

Se lo era chiesto ogni mattina durante tutto quel tempo: poteva essere più fortunata?
No, e dargli tutta se stessa e oltre le era sempre parso un equo scambio... sempre.

In un mondo in cui gli ingranaggi avessero funzionato alla perfezione ci sarebbe stato un solo epilogo a tutto questo.
In un mondo in cui gli sforzi, la perseveranza, l'amore sincero e totale viene premiato lei... non avrebbe subito un tale trattamento, specie da quelle persone, che amava, rispettava a fondo.

Ma lei non viveva in un mondo perfetto, non vi aveva mai vissuto. E per quanto avesse sperato di poter resistere alla crudeltà, di poter tenere lontano l'egoismo altrui, di poter essere felice, alla fine il risultato era stato diverso. L'egoismo le aveva sbranato il cuore ignorando i suoi sforzi, i suoi sentimenti e alla fine il dolore le aveva annientato l'anima.

Era vuota, priva di anima.
Come un robot sorrideva, meccanicamente.

E così provava a sopravvivere.
O forse era solo il suo inconscio, quell'istinto animale di sopravvivenza che ognuno ha questo mondo ha sin dalla creazione e che adesso cercava di cancellare il dolore, di coprirlo dietro qualcos'altro.
Ma era un istinto e come tale si basava sui sensi.
Per questo motivo lo nascondeva dietro un altro dolore, un dolore fisico, percettibile, capace di poterla... riempire.

Si, si era riempita di questo... o così il suo inconscio le faceva credere di poter fare.

Il bruciore acido dei succhi gastrici che le corrodevano lentamente lo stomaco, l'esofago, la gola, ogni volta che rimetteva, quei piccoli segni sul braccio provocati dalle unghia che le scavano la pelle facendogliela tirare, così leggeri che solo lui li avrebbe potuti distinguere, riconoscere, se il suo sguardo si fosse posato su di essi, se non fosse stato indirizzato altrove; quell'incessante martellare alla testa dovuto alla mancanza di riposo.

Ma come avrebbe potuto dormire? Come poteva farlo?
Era meglio non dormire affatto fino a che non era troppo stanca anche per sognare, piuttosto che svegliarsi improvvisamente ogni notte senza fiato e doverselo ripetere:

Respira... respira.

Inutile menzogna.
Si conosceva più di quanto dava a credere: per lei non sarebbe mai passato.
L'unica cosa in cui sperava era che un giorno, mai troppo vicino, potesse farci l'abitudine... lei, incapace per natura di abituarsi a tutto.

Quello che aveva sempre considerato un pregio, si era rivelato come il peggiore dei difetti: la costanza.
Quando era certa di un sentimento, come in quel caso, non le veniva mai meno, non cambiava mai per lei, riusciva a solo a crescere.
Solamente quando provava senza certezza finiva col trascinare le cose e questo atteggiamento non le era mai stato facile e aveva sempre finito con lo stancarla.

Eppure, con quella razionalità folle che aveva al momento, sapeva di doversi abituare. Era l'unica cosa che poteva imporsi, doveva farlo.

Perché?
Paradossalmente conosceva anche la vera risposta a quella domanda.

Mentiva dicendosi allo specchio che era per se stessa, mentiva dicendosi che era per non vedere soffrire i suoi parenti, preoccupati, mentiva dicendo che era per gli amici. Tutto questo contava un'infinitesima parte soltanto. La vera risposta era che non voleva farne a lui una colpa e di riflesso, non voleva neppure a lei. Anche se faceva male, costantemente.

Le andava bene: era un atto dettatole dal cuore, l'ultimo... l'unico che poteva ancora permettersi, l'unico che la facesse ancora sentire se stessa.

E, logicamente, sapeva che questa era la risposta più sbagliata di tutte.

Ma lei e la logica avevano ben poco a che vedere...

Se ne era resa conto di recente, una di quelle notti, rannicchiata sul letto mentre si ripeteva la solita bugia: “Respira... respira.

Quella notte, prima di stendersi aveva letto quel racconto, per provare a distrarsi.
Ci era riuscita, si, ma non come avrebbe mai pensato.

Non era stata la speranza della lettera finale, non erano state le accuse sui carnefici della protagonista del racconto, ferita perché buona, a attirare la sua attenzione.
Era stato il pensiero di quel gesto, quell'unico gesto.

Aveva analizzato accuratamente per più di un'ora e mezza ogni possibile scenario nel quale quel gesto, su cui la protagonista aveva sanamente esitato, si sarebbe potuto svolgere.
Ne aveva analizzato ogni modalità, dalla più rapida e indolore, alla più lenta e dolorosa.
Le aveva ipotizzate, rappresentandole nella mente, con una lucidità tale da lasciare chiunque sconcertato, perfino lei.

Uno sconcerto legato al fatto che era proprio quello ad averla colpita di tutto il racconto, che mai un pensiero del genere l'aveva sfiorata se non per scherzo, uno sconcerto legato al fatto che neppure gli aspetti negativi di quell'idea fossero stati tali da indurla a non pensarci, non senza un pizzico di sollievo.

Non che lo avrebbe fatto, almeno così credeva...
Non avrebbe mai potuto fare soffrire i suoi genitori a quel modo, i suoi amici. Voleva loro troppo bene per causargli anche il minimo dolore.

Si chiedeva se avesse potuto ferire lui... lo dubitava purtroppo... men che meno lei.
In fondo l'avevano già uccisa quella sera, dopo averla torturata con le menzogne per tutto quel tempo.
E sul suo corpo ancora caldo avevano banchettato indifferenti... felici.

Per quanto cercasse di augurarglielo, per il bene che a lui voleva, non poteva fare a meno di chiederselo: una felicità costruita sul dolore di persone alle quali si voleva bene, sulle menzogne prolungate, sull'inganno, sulla manipolazione, studiando a tavolino ogni cosa da dire, anche le riserve, per convincere l'altro a scegliere sé, quanto aveva di non calcolato? Quanto poteva essere sincera, autentica, spontanea?

Per quanto provasse a darsi risposta, una risposta che neppure loro sarebbero mai stati in grado di dimostrare stando assieme come facevano, non riusciva a trovare nessun esempio, nessuno.

Paradossalmente le veniva in mente il MacBeth, per quanto con sfumature differenti... e ricordava bene la fine che Lord e Lady MacBeth avevano fatto appropriandosi per desiderio di un posto che non era giusto fosse il loro.

Ma quella era una storia e neppure in questa toccava a lei giudicare.
I suoi parametri erano troppo differenti dai loro.

Non sapeva se fossero o meno quelli giusti.
Certo era che per lei, per quanto per loro si augurasse diversamente, non avrebbe mai potuto funzionare davvero: una storia nata così sarebbe solo stato un inganno per se stessa. Per lei non avrebbe mai potuto funzionare.
L'autentica felicità non si poteva costruire su fondamenta di menzogne.
Non per lei, mai.

Neppure in passato lo aveva fatto: non aveva mentito neppure in passato, quando avrebbe potuto, quando aveva trascinato una storia già conclusasi da tempo.
E neppure se le menzogne fossero state tirate fuori a quel modo, lei avrebbe avuto il coraggio di guardarsi allo specchio indifferente continuando come avevano fatto.

Lei non lo avrebbe sopportato mai, non era nella sua natura.

Era forse migliore?
No. Semplicemente era buona... fiduciosa nel buon cuore delle persone... anche troppo, al punto da essere stupida... e di questo si erano serviti.

Ma questo per gli altri non aveva più importanza e non avrebbe dovuto averne neppure per lei, se solo non fosse stata quella che era...

Poteva fare solo una cosa: sperare disperatamente di potersi abituare in fretta.

Era tutto quello che poteva fare, doveva fare... che poteva chiedersi.
Perché quell'unica cosa che avrebbe voluto avere, che desiderava con tutta se stessa potesse ritornare, non l'avrebbe mai più avuta... le era stata strappata via, se ne era andata senza voltarsi.

Poteva solo forzarsi ad abituarsi adesso, rannicchiandosi sul letto e ripetendoselo tra le lacrime:

Respira... respira.

  
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