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Autore: L S Blackrose    27/08/2014    14 recensioni
Eric è uno dei leader degli Intrepidi. Freddo, calcolatore, spietato e crudele.
Ma non è sempre stato così. Cosa lo ha portato ad odiare a tal punto i Divergenti?
In questo prequel di Divergent, il suo destino si intreccerà a quello di Zelda, una ragazza tenace e potente come una freccia infuocata.
Può un cuore di ghiaccio ardere come fuoco?
Un cuore di pietra può spezzarsi?
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dal capitolo 4 (Eric)
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Sto per aprire bocca, per invitare le reclute a dare inizio al loro cammino negli Intrepidi, quando un movimento al limite estremo del mio campo visivo mi obbliga a voltare il capo.
Ormai davo per scontato che le disgrazie fossero finite, invece una figura esile si lancia dall’ultimo vagone del treno e fende l’aria come un proiettile.
A causa della luce del sole che mi arriva dritta in faccia, in un primo momento metto a fuoco soltanto una macchia indistinta, blu e nera.
Nella frazione di secondo che segue, sono costretto a spingere l’autocontrollo al massimo della potenza per non mostrare nessuna emozione, per mantenere la mia posa autorevole e l’espressione gelida.
Perché sono talmente esterrefatto da non riuscire a credere ai miei stessi occhi.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Eric, Four/Quattro (Tobias), Nuovo personaggio, Zeke
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Zeric - Flame of ice'
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Capitolo 32






And I just wanna be, wanna be loved

(To be loved, Papa Roach)



 

Zelda




Il tempo questa volta scorre più veloce.

Non so se sia perché sono immersa nei miei pensieri, o perché i miei compagni impiegano solo pochi minuti a terminare le loro simulazioni. Quando anche Xavier scompare oltre la porta, mi alzo in piedi e mi spazzolo i pantaloni per liberarli della polvere grigia delle rocce.

Mi sciolgo i capelli e li pettino un po’ con le dita, tanto per fare qualcosa.
Sono terribilmente agitata, non faccio che ripercorrere attimo per attimo la mia precedente simulazione. Quando Eric ha detto che erano trascorsi solo nove minuti dall’inizio della prova, credevo stesse scherzando: ero convinta di essere rimasta sepolta in quell’antro buio per ore.

E fra poco dovrò tornarci.

Reprimo un brivido e tiro indietro i miei ciuffi ribelli con un gesto secco, per legarli di nuovo.

- Perché tormenti i tuoi capelli in quel modo? -.

Sbarro gli occhi al suono di quella voce e mi volto di scatto verso l’altra estremità del corridoio.
Eric è appoggiato pigramente alla parete di roccia, a braccia conserte, e mi fissa con un ghigno ironico. Da quanto accidenti è lì?

Visto che continuo a guardarlo senza parlare, come una povera cretina, lui prende l’iniziativa e si avvicina.
Quando arriva a un palmo da me, mi rendo conto di essere rimasta pressoché immobile per tutto il tempo che lui ha impiegato ad annullare la distanza tra noi: ho ancora le braccia piegate verso l’alto, nell’atto di avvolgere l’elastico attorno alle ciocche scomposte.

Le abbasso di colpo. – Da quando ti interessano i miei capelli? – chiedo, aggrottando la fronte.

Eric, come suo solito, risponde alla mia domanda con un’altra domanda. - Se ti dicessi che ti trovo più carina con i capelli sciolti, mi daresti ascolto? -.

Resto di nuovo imbambolata a fissarlo.
Ho sentito bene? L’ha detto veramente, o sono entrata per sbaglio in una dimensione parallela?

Accidenti, sta davvero flirtando con me! Ho la bocca improvvisamente secca. – E questo cos’era, un complimento? –, è tutto quello che riesco a dire.

Il lato arguto del mio cervello sembra aver chiuso i battenti - forse per vendicarsi dei miei pensieri troppo sdolcinati da adolescente innamorata - trincerandosi dietro un cartello con su scritto ‘momentaneamente in sciopero’.

Il ghigno di Eric si fa più pronunciato. Invece di degnarmi di una risposta, allunga la mano e ruba l’elastico che stavo rigirando tra le dita.
Lo tiene tra pollice e indice come se mi sfidasse a prenderlo.

Altro che flirt: ora la scena sta diventando comica.
Scuoto la testa, non sapendo bene come interpretare quel suo sguardo a metà tra l’ironico e il provocatorio. – Se ti piace così tanto, puoi tenerlo – dichiaro, con lo stesso tono condiscendente che userei con un bambino dispettoso. – Poi non dire che non ti regalo mai nulla -.

Eric inarca un sopracciglio, forse non si aspettava una resa così immediata.
Allarga l’elastico con le dita, lo fa scivolare attorno alla mano fino a farlo arrivare al polso, infine osserva la propria opera con aria critica.

Di fronte al suo sguardo compiaciuto, scoppio a ridere di cuore. Lui mi lancia un’occhiata sconcertata.
La sua espressione si fa spaesata, come se stesse assistendo ad uno spettacolo raro ed estremamente affascinante e volesse imprimerlo nella memoria istante dopo istante.

La mia risata si interrompe solo quando la porta in fondo al corridoio si apre con un cigolio.
Eric torna ad assumere la sua aria sprezzante – impiega solo una frazione di secondo, non so come ci riesca - e avanza di qualche passo per mettersi accanto a Quattro, che rimane sulla soglia e si limita a rivolgermi un cenno del capo.
I due confabulano sottovoce per circa un minuto, poi Eric con un dito mi fa segno di raggiungerlo.

Mi ravvio i capelli ed entro nella stanza dopo di lui, sotto gli occhi vigili dell’altro Intrepido.
Devo ricordarmi di chiedere spiegazioni ad uno dei due. Certo, sono più che contenta che sia Eric ad avviare la mia simulazione, ma sono anche curiosa di sapere per quale motivo ha insistito tanto per prendere il posto del mio istruttore, il quale non pare troppo entusiasta dell’idea.

Sotto lo sguardo implacabile del Capofazione, Quattro scuote il capo e chiude la porta senza proferire parola.

Eric prende posto davanti al monitor, facendo finta di nulla.
Decido di imitarlo: mi siedo sulla poltrona e reclino il capo sul poggiatesta, mentre cerco di rilassare i muscoli.

La tensione, che era svanita dopo la spiazzante entrata in scena di Mr-spalle-larghe – come l’ha definito Mel -, è tornata a farsi sentire.
Osservo il profilo del ragazzo con sospetto: possibile che la buffa scenetta che ha messo in piedi avesse come unico scopo quello di distogliere la mia attenzione dall’allucinazione che mi aspetta?

Riesco addirittura a sorridere. Se le sue intenzioni erano quelle, è stato veramente un gesto tenero da parte sua.

Eric schiaccia qualche pulsante, poi si alza e viene verso di me con quell’orrenda siringa.
L’ago sembra lungo quanto il mio indice, prego che sia solo una mia impressione.

Strizzo le palpebre quando preme lo stantuffo, più per riflesso che per vero dolore.
Quando mi volta le spalle per appoggiare quell’arma impropria sul tavolo, noto con sorpresa che indossa ancora il mio elastico.

- La simulazione sarà uguale all’altra? – chiedo, cercando di mantenere un tono distaccato.

Eric di sicuro non ci casca, perché, quando si gira a fissarmi, i suoi lineamenti si ammorbidiscono. La mia paura deve essere alquanto evidente. – Non necessariamente -.

- Fantastico – mormoro, rassegnata, preparandomi al peggio. Gli lancio un’occhiata supplichevole. – Se cominci a vedere scene imbarazzanti, potresti gentilmente distogliere l’attenzione dallo schermo? -.

Lui fa una breve risata. – E perdermi tutto il divertimento? -.
Scuote la testa e si piazza davanti al computer, spaparanzandosi sulla sedia girevole. - Scordatelo, trasfazione -.

Chiudo gli occhi con un sospiro.
Mi piace chiacchierare con lui in questo modo amichevole, punzecchiarlo e rispondergli a tono.
Specialmente sentirlo ridere: ogni volta che lo fa, sul suo viso compare un’espressione stupita, come se faticasse a credere di esserne capace.

Riapro le palpebre per chiedergli come mai ha ancora il mio elastico allacciato al polso, ma la mia voce si spegne non appena metto a fuoco l’ambiente che mi circonda.

Muri intonacati, di un bianco abbagliante.
Mobili di lucido e solido mogano addossati alle pareti e ricoperti di cornici dorate allineate con precisione quasi maniacale.
Sotto ai miei piedi, un tappeto soffice, color sabbia, si abbina perfettamente alla sfumatura ocra delle tende e dei cuscini ricamati dell’unico divano presente nella stanza.

Deglutisco rumorosamente. La simulazione è cominciata.











 
* * *






 
 

Eric





Le palpebre di Zelda hanno un guizzo, poi si chiudono definitivamente, vinte dal torpore artificiale sprigionato dal siero.
Dal monitor proviene un leggero ronzio, segno che la simulazione si sta avviando correttamente.

Comincio ad agitarmi, il mio respiro accelera di conseguenza.
Devo ripetermi mentalmente per almeno tre volte che è lei quella sotto esame, non io, ma l’inquietudine non accenna a diminuire.
Rimane salda al suo posto, comprimendomi il petto come se … come se … ecco, come se avessi una tonnellata di lastre d’acciaio sopra la gabbia toracica.

Esattamente la stessa sensazione che provavo quando dovevo affrontare lo scenario della paura durante l’iniziazione, l’unica prova che riusciva davvero a terrorizzarmi.
Contrastare una paura alla volta non era così tremendo - i tempi delle mie simulazioni erano eccellenti -, ma quando mi trovavo faccia a faccia con tutti i miei peggiori incubi, che sembravano volermi circondare come un branco di lupi affamati in attesa di banchettare con la mia carne, il panico non mi lasciava scampo.

Chiudo gli occhi per un attimo, per scacciare con violenza i fantasmi del passato, poi faccio schizzare la sedia girevole verso la poltrona dove Zelda è distesa.  

Le sposto una ciocca di capelli dal volto e osservo concentrato i suoi lineamenti, che si stanno facendo sempre più tirati: ha la mascella rigida e le labbra serrate in una linea sottile. Il mio respiro sembra essere coordinato al ritmo del suo, che si fa sempre più veloce, come se fosse spaventata.
Le afferro delicatamente il polso e sento il pulsare sordo del suo cuore sul mio pollice.

Non posso crederci. Da quando sono diventato così sensibile? Che questa ragazza mi abbia legato a sé con un incantesimo?
Com’è possibile che io, da sempre indifferente verso le emozioni di chi mi circonda, provi questa improvvisa empatia nei confronti della trasfazione priva di conoscenza a una spanna da me?

Emetto un esasperato sbuffo dal naso e le accarezzo la fronte con due dita, arrotolando alcune ciocche corvine tra i polpastrelli.

Ho la mente satura di dubbi. Mi chiedo se tutte le torture fisiche e psicologiche, che l’iniziazione degli Intrepidi comporta, non siano un prezzo troppo alto da pagare per divenire membri effettivi della fazione.

Se Zelda avesse saputo a cosa andava incontro, avrebbe scelto comunque di abbandonare gli Eruditi? Gli incubi del passato sarebbero stati più tollerabili da sopportare, rispetto a quelli che sta sperimentando ora e con cui dovrà convivere in futuro?

Se avesse preso una decisione diversa, le nostre strade non si sarebbero mai incrociate.
Non avrei mai più sentito il timbro della sua voce melodiosa, non avrei mai collegato quella voce ad un volto. Non mi sarei mai smarrito in quelle iridi infuocate, né avrei provato quella scossa di elettricità al lieve tocco delle sue dita sulla mia pelle. E di sicuro le mie labbra non si sarebbero mai aperte in un sorriso sincero come accade ogni volta che sono assieme a lei. Sarei morto senza conoscere il suono della mia stessa risata …

Eric! Piantala immediatamente!

Il ruggito furioso del mio inconscio mi riporta finalmente alla realtà, facendomi capire quanto quei pensieri stiano effettivamente rasentando il ridicolo.

Zelda è a un centimetro da te, brutto idiota!
Ecco, toccala e vedi di smettila con tutte queste fesserie da primadonna prima di farti venire il diabete.


La mia coscienza ha ragione, basta rimuginare. Chi se ne importa di cosa sarebbe potuto succedere se lei non mi avesse raggiunto.
Ormai è qui, no? Ed io ho intenzione di tenerla stretta.
Non lascerò che il mio stupido orgoglio si metta in mezzo di nuovo: il destino mi ha donato una seconda possibilità e non ho intenzione di sprecarla.

Un bip prolungato mi distoglie dalla contemplazione del volto di Zelda.
Lascio ricadere la mano che stava giocando con i suoi capelli e mi volto seccato verso il monitor, alla ricerca della fonte del rumore.

Mi ero del tutto scordato della simulazione: ora sullo schermo del computer è chiaramente visibile una stanza, al centro della quale si erge l’esile figura della trasfazione. Ritorno alla mia postazione originaria e mi sporgo in avanti per osservare meglio la scena che si sta materializzando davanti ai miei occhi come un film di pessimo gusto.









 
* * *






 

Zelda





Respira, Zelda. Respira.

Non funziona: sento già il primo accenno di un attacco di panico serrarmi la trachea.
Le mie mani sono fredde e sudaticce, le sfrego sulla stoffa dei pantaloni per asciugarle e cercare di riattivare la circolazione.

Chiudo gli occhi per un attimo, facendo un respiro profondo. Quando espiro, riapro le palpebre e focalizzo l’attenzione sulle pareti della stanza in cui mi trovo.

È grande e luminosa, praticamente identica al salotto della casa di mio padre.
Mi concentro sulla parete che mi sta di fronte, aguzzando le orecchie, in attesa di avvertire la voce o la presenza di uno dei membri della mia famiglia.

Nel frattempo rifletto. Qual è lo scopo della simulazione? Mettermi al cospetto di uno dei miei incubi personali, Alfred magari? E perché finora non è successo niente?

Come se avesse avvertito la mia domanda silenziosa, la stanza diventa sempre più buia e una scossa mi fa traballare.
Allargo le gambe per mantenere l’equilibrio, ma il pavimento ha un nuovo scossone, molto più prolungato del precedente.

Sbarro gli occhi quando vedo le pareti muoversi: cominciano a restringersi e a scivolare gradualmente verso di me.
I vetri delle finestre tintinnano pericolosamente. Una crepa sottile si allarga in diagonale, emettendo un agghiacciante scricchiolio che mi fa accapponare la pelle delle braccia.

Il terremoto si fa più accentuato: mi sbilancio in avanti con le braccia per non cadere a terra.
I muri continuano ad avanzare inesorabili verso di me, ma non sono disposta ad attendere di finire schiacciata.

Mentre formulo questo pensiero, le ombre della stanza abbandonano gli oggetti a cui sono legate e, come se avessero vita propria, sfrecciano sul pavimento e sulle pareti. Quelle scie oscure, che inavvertitamente ho evocato, strisciano fino alla parete completamente bianca che si trova davanti ai miei occhi e si uniscono le une alle altre, fino a formare il profilo di una porta.

L'immagine diventa ad ogni secondo più nitida: non appena noto il luccichio di una maniglia capisco che è la mia sola speranza di fuga.
Allungo la mano e afferro il pomello con dita tremanti. Sono pienamente consapevole che la situazione dall’altra parte non sarà delle più rosee, d’altronde è la simulazione stessa che mi sta imponendo di attraversare quella soglia. E, che io lo voglia o meno, sono obbligata a farlo.

Scatto in avanti, incespicando sul tappeto a causa di una nuova scossa, e mi fiondo dall’altra parte.
Quando chiudo la porta alle mie spalle, il tremolio cessa di colpo e mi ritrovo in mezzo ad una fitta oscurità. Non distinguo nemmeno le punte dei miei piedi.

Muovo un passo in avanti, alla cieca e vengo ricompensata da un leggero sfrigolio sopra la mia testa.
Una lampada al neon si accende gradualmente, subito imitata dalle sue gemelle, che mi permettono di mettere a fuoco il nuovo ambiente.

Si tratta di un lungo corridoio, all’apparenza interminabile, ai lati del quale si stagliano altrettanti infiniti scaffali di legno pieni di libri.
Rimango un attimo spiazzata dal forte odore di carta stampata, un aroma assurdamente familiare, che mi ha accompagnata nei miei primi sedici anni di vita.

Volto la testa e mi accorgo che la porta fatta di tenebre è sparita: al suo posto si staglia un altro lungo corridoio, affiancato da centinaia e centinaia di scaffali e libri.

Il mio cuore comincia a galoppare nel petto, mentre il cervello elabora i fatti in modo frenetico, cercando di reagire alla morsa del panico.
Lo scenario di quest’allucinazione è troppo simile ad un incubo frequente della mia infanzia per trattarsi di una semplice coincidenza.

Mi mordo un labbro, indecisa se proseguire o rimanere ferma al centro di una delle mattonelle a specchio del corridoio.
La voce nella mia mente mi sta urlando di restare immobile, ma io decido ugualmente di rischiare il tutto per tutto.
Alzo una gamba e appoggio la pianta del piede con cautela sulla lastra di marmo successiva.

Capisco subito di aver commesso un errore.

In seguito al mio movimento, uno dei volumi, un grosso tomo dalla copertina consunta e bucherellata, scivola dalla libreria e cade pesantemente a terra, spalancandosi esattamente a metà. Il rumore improvviso mi fa sobbalzare, ma divento rigida un secondo dopo, non appena noto il fumo.

Un sottile sbuffo grigio si alza dalle pagine ingiallite del libro in questione e solo un secondo dopo l’odore di bruciato mi pizzica le narici.

Mi impongo di rimanere assolutamente immobile, ma sto ormai perdendo il mio leggendario autocontrollo. Mi afferro i gomiti per impedire ai miei muscoli di tremare e quell’unico spostamento d’aria dà inizio all’inferno.

Uno dopo l’altro, i libri schizzano fuori dagli scaffali e finiscono ovunque, invadendo il corridoio per tutta la sua imprecisata lunghezza.
Il fuoco si sprigiona da ogni singolo volume, le fiamme divampano come se avessi coperto le pagine con una generose dose di benzina.

L’ondata di calore mi colpisce come uno schiaffo in pieno viso, facendomi boccheggiare. Indietreggio istintivamente, ma mi accorgo di essere circondata: i roghi avanzano da uno scaffale all’altro, avvicinandosi sempre di più a me. L’ansia mi comprime il torace, ho la gola irritata dal fumo e non riesco più a ragionare lucidamente.
Sto quasi per lasciarmi andare all’isteria, quando mi tornano in mente le parole di Eric.

Cerca di calmare il respiro.

Sì, certo, facile a dirsi … come diavolo faccio a rimanere impassibile nel bel mezzo di un incendio?!
Comincio a tossire e mi premo velocemente una mano su naso e bocca.

E’ solo una simulazione, non è reale.
 
La sua voce è nitida, come se mi stesse sussurrando la frase nell’orecchio per incitarmi a non mollare.
Mi sembra quasi di vedere l’espressione dura e inflessibile del Capofazione, la fronte corrugata e gli occhi ridotti a fessura.

Quel ricordo mi infonde coraggio e ritrovo un briciolo di orgoglio che mi consente di ricominciare a lottare.

Non posso cedere.

Mi accuccio a terra, appoggiando gli avambracci sul pavimento e avvicinando i gomiti alle ginocchia. Nascondo la testa in mezzo alle braccia, ignorando il calore che sta diventando opprimente: ho il viso imperlato di sudore, i capelli appiccicati alla fronte, la mia pelle sta letteralmente andando a fuoco.

Smetto di prestare attenzione al mio corpo e metto in pratica uno dei metodi che usavo da piccola per addormentarmi.

Devo seguire il mio cuore, non importa quanto lontano mi condurrà.
Non mi guarderò indietro, non ci penserò due volte.


Muovo appena le labbra mentre recito i versi della canzone che mia madre mi cantava ogni sera per darmi la buonanotte.
Dopo la sua morte ho preso l’abitudine di ripeterla nella mente più volte prima di infilarmi sotto le coperte: era l’unico modo per affrontare il sonno con un pizzico di coraggio in più.

Prendi il passato, brucialo e lascialo andare.

Interrompo i miei sussurri febbrili e mi lascio scappare un ghigno. L’ironia di quelle parole non mi sfugge, specialmente visto che ho un libro in fiamme a poca distanza dalla mia coscia destra.

Andrò avanti, sono più forte di quanto tu potrai mai sapere.

Ormai sono talmente concentrata sulle parole da pronunciare che quasi non mi accorgo che il fumo non mi sta più invadendo i polmoni e che ho cominciato a respirare in modo più regolare.

Non mi arrenderò mai, non potrò mai rinunciare. E voglio solo essere, voglio solo essere … amata.

Nel scandire le ultime sillabe della parola apro gli occhi.
Batto le ciglia un paio di volte, tanto per assicurarmi che quelle iridi grigie che mi ritrovo davanti non siano l’ennesima finzione indotta dalla simulazione.

Sento qualcosa stringermi leggermente la spalla e ci metto più del dovuto a capire che si tratta della mano di Eric.
Quella consapevolezza annienta i pochi dubbi che mi annebbiavano il cervello. Chiudo gli occhi e sospiro.

Il Capofazione mi lancia un’occhiata circospetta. – Tutto a posto? – chiede, e per un momento mi pare realmente in ansia.

Nonostante avverta ancora un fastidio all’altezza del petto e voglia solo gridare e prendere a pugni ogni cosa su cui poso gli occhi, riesco perfino a rivolgergli un breve sorriso. Questo dimostra la reale portata della mia cotta. – Domanda di riserva? –, ironizzo.
Sono talmente confusa che non capisco nemmeno io come mi senta.

Eric rimane interdetto per un attimo, poi annuisce e scosta lentamente la mano dal mio braccio.
Si gira di spalle per spegnere il computer, dandomi così il tempo di riprendermi e mettermi seduta. Faccio dondolare le gambe oltre il bordo della poltrona e tiro indietro le ciocche di capelli che mi erano ricadute sulla fronte.

- Quanto? – mi lascio sfuggire, tenendo lo sguardo basso. La mia voce suona vuota e incolore alle mie stesse orecchie, fatico a riconoscerla.

Il Capofazione termina di staccare i fili e torna a voltarsi verso di me. Non alzo gli occhi, ma so che mi sta scrutando attentamente.
Il silenzio si protrae per tutto il tempo che Eric impiega a raggiungermi: si ferma a poca distanza dalle mie gambe e il suo braccio tatuato entra nel mio campo visivo.

Impiego tre lunghi secondi a registrare che mi sta porgendo un bicchiere pieno d’acqua fino all’orlo.
Mi accorgo solo in quel momento di avere la gola completamente secca. Mormoro un ringraziamento e tracanno il liquido in un solo sorso, ad occhi chiusi.

Esiste qualcosa di più delizioso?

Passo la lingua sulle labbra, raccogliendo le ultime gocce d’acqua che mi erano sfuggite.
Quando riapro le palpebre, la prima cosa che noto è lo sguardo di Eric, fortemente concentrato sulla mia bocca: le sue iridi hanno lo stesso colore dell’argento fuso e seguono come ipnotizzate il percorso della mia lingua.

Mi schiarisco la voce e ripeto la domanda per togliermi dall’imbarazzo. – Quanto … quanto tempo ho impiegato? –.

Quando Eric riporta i suoi occhi nei miei le mie dita stringono con forza il bordo della poltrona. Piega appena le labbra verso l’alto prima di rispondermi. – Cinque minuti. Congratulazioni -.

Il suo tono e la sua espressione mi lasciano perplessa. Sembra allo stesso tempo orgoglioso e sollevato. Come se, con il mio eccellente risultato, gli avessi fatto vincere un’importante scommessa, rivelandomi così all’altezza delle sue aspettative.

Accetto la sua approvazione con un’alzata di spalle. Io non mi sento per nulla contenta né soddisfatta: questa simulazione è stata molto peggio della precedente, mi ha letteralmente messa al tappeto. Sono senza forze, con i nervi ancora scossi.

Eric mi scruta dall’alto con il suo sguardo d’acciaio per qualche attimo, poi mi rivolge un sorrisetto malizioso che mi fa battere più forte il cuore. – Pare che sia giunto il mio turno – afferma, in tono sicuro e stranamente trionfante.

Di che diamine sta parlando?

Il mio intelletto non accenna a collaborare, quindi mi limito a scrollare la testa e sospirare di  frustrazione. - Il tuo turno per cosa? – chiedo, con un tono al limite dell’esasperazione.

Eric sogghigna di nuovo e fa un passo avanti. Ora le sue gambe sfiorano le mie e i nostri volti sono a pochi centimetri di distanza.
Continuo a mantenere il contatto visivo, anche se ho il cervello annebbiato e la salivazione praticamente assente.

Lui solleva entrambe le mani e le posa delicatamente sulle mie, che stanno ancora artigliando l’imbottitura della poltrona.
Le sue dita calde e forti indugiano sulla mia pelle, disegnando spirali immaginarie e scatenando ancora una volta la scintilla di elettricità tra i nostri corpi.

Prima che io possa anche solo elaborare il suo gesto inaspettato, Eric si china in avanti per mettere i suoi occhi all’altezza dei miei.
Ora non sorride più. – Per distrarti – sussurra al mio orecchio, facendomi avvampare.

Credo che l’aggettivo più adatto a me in questo preciso istante sia ‘inerme’.
Mi sento totalmente indifesa davanti a lui, in balia del suo tocco che ha il potere di infiammare ogni mia terminazione nervosa.

Chi sei tu e cosa hai fatto del vero Eric?

Vorrei ribattere con una battuta pungente, ma non ne ho facoltà.
La mia arguzia si arrende alle attenzioni estremamente gradevoli che il Capofazione mi sta riservando, gli dà carta bianca.

Eric non smette di fissarmi con quello sguardo attento e intenso che mi porta a un passo dall’iperventilazione.
Fa scorrere i suoi pollici sui miei polsi, poi le sue dita cominciano a salire lungo le mie braccia, lasciando sul loro cammino una calda scia di brividi.

Ringrazio mentalmente Melanie per aver insistito a farmi indossare quella maglietta a maniche corte invece della solita felpa con cappuccio.

Il Capofazione indugia con i polpastrelli sui miei tatuaggi, seguendone i contorni lentamente, causandomi una vampata di rossore sulle guance.
Visto che non accenno a spostarmi o a fermarlo, la sua espressione si fa più rilassata.

Credeva forse che l’avrei respinto? Povero illuso, è già tanto se mi trattengo dal circondargli i fianchi con le gambe.
Una cosa è certa: se continua con questa sua carezza a fior di pelle non rispondo più di me.

Come se avesse udito i miei pensieri fuori controllo, Eric torna a rivolgermi il suo solito ghigno sarcastico. Però, a differenza delle altre volte, mi pare sinceramente divertito dalla situazione.

Posa la sua mano destra sulla mia spalla, mentre l’altra continua a salire, sfiorandomi la clavicola.
Affonda le dita tra i miei capelli, posando i polpastrelli sulla nuca e lasciando il pollice libero di scorrere su e giù lungo il mio collo.

Avvicina il suo volto al mio, fino a che non ci ritroviamo a respirare la stessa aria. – Non mi piace essere in debito – soffia sulle mie labbra.
Il mio cuore manca un battito, ma poi inizia a pulsare a doppia velocità.

Avverto la leggera pressione dei piercing di Eric sulla bocca e chiudo gli occhi istintivamente, abbandonandomi tra le sue braccia.
Non ho mai baciato veramente qualcuno, se si esclude l’episodio dell’altra sera in camera del Capofazione.

Nessun ragazzo mi ha mai fatto provare emozioni così profonde, per cui non ho neanche mai sentito la necessità di avvicinarmi in questo modo a qualcuno.
La mia mancanza di esperienza di certo non mi impedisce di alzare un braccio e avvolgerlo attorno alle sue spalle, per annullare quei pochi millimetri che ancora ci separavano.

Eric sfiora prima il mio labbro superiore, poi passa con dolcezza a quello inferiore.
Lo lascio fare, godendomi la piacevole sensazione di torpore che il suo semplice tocco infonde alle mie membra.

Tutta la mia attenzione è focalizzata sui movimenti della sua bocca sulla mia, per cui impiego parecchio a capire che il rumore martellante che il mio udito percepisce non è il battito del mio cuore, ma qualcosa di totalmente estraneo al mio corpo.

Anche Eric sembra percepirlo. Con un debole lamento si stacca da me, anche se le sue mani rimangono saldamente ancorate alla mia pelle.
Una scintilla argentata illumina i suoi occhi, simile al riflesso della luce sulla lama di un coltello.

Il bussare alla porta si fa più accentuato ed Eric emette uno sbuffo di fastidio.
Ecco risolto il mistero del rumore molesto che ho avvertito in precedenza. – Che c'è? – ringhia, senza smettere di guardarmi.

Io cerco di tornare a respirare in modo normale, anche se si rivela un’impresa quasi impossibile visto che lui continua ad accarezzarmi la nuca con i polpastrelli.

- Max mi ha mandato a chiamarti – esclama una voce al di là della porta. – Raggiungici nel suo studio appena possibile -.
Realizzo che si tratta di James e alzo automaticamente gli occhi al cielo. È sempre in mezzo ai piedi, una vera e propria persecuzione.

Eric accenna un sorriso, pare divertito dalla mia reazione.
Gira appena la testa in direzione della porta per sbottare un: – Arrivo subito –, sempre in tono scocciato.

Non appena i passi di James si allontanano nel corridoio, il Capofazione riporta i suoi occhi su di me.
Toglie le mani dalle mie spalle per portarle sui miei fianchi e mi alza dalla poltrona con facilità. Mi trattiene per qualche istante contro di sé, per poi posarmi a terra con delicatezza.

Si scosta da me quasi di malavoglia. Pare indeciso, come se si stesse scervellando per trovare qualcosa di sensato da dire.

Lo anticipo, rivolgendogli un ampio sorriso. – Ottima mossa, Capofazione – commento, tamburellando con un dito sul suo petto. – Nascondi un talento insospettabile nell’arte di distrarre le persone -.

Eric si esibisce nel suo tipico ghigno sarcastico. – Ho imparato dalla migliore –. Si china in avanti per sfiorarmi il mento con le labbra socchiuse. – Vieni alla festa, stasera? -.

Una domanda del genere suona così strana detta da lui.
Annuisco, ma non posso trattenermi dal lanciargli un’occhiata ironica. – Dimmi che avrò l’onore di vederti ballare scatenato -.

- Ovviamente no – ribatte lui, schifato, come se gli avessi appena chiesto di travestirsi da donna per fare colpo su Quattro. – Lascio quell’onore a James: scommetto che troverai spassosa la sua naturale propensione a mettersi in ridicolo -.

Mi lascio scappare una risata davanti alla sua smorfia estremamente disgustata.

Eric mi sposta un ciuffo ribelle dietro l’orecchio – da quando è diventato così tenero? – prima di dirigersi verso la porta. – Ci vediamo dopo, Zelda – aggiunge, un attimo prima di uscire in corridoio.

Oh, ci puoi scommettere.

Mi lecco le labbra e le atteggio in un ghigno degno del mio Capofazione preferito. Mi avvio verso il dormitorio con un solo obiettivo in testa: riportare alla luce quel vestitino nero che tanto mi ero affannata a nascondere.

Vedremo se il tuo cuore è veramente di ghiaccio come ti piace far credere.

 








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Ciao a tutti!! Chiedo scusa cento volte per il ritardo, ma ho avuto un periodo un po’ pieno … spero di essermi fatta perdonare con questo lungo capitolo ;) aspetto i vostri commenti, non deludetemi!

Dedico il capitolo ad un ragazzo incontrato ieri per caso, incredibilmente identico a Jai Courtney: ho rischiato l’infarto, ma è stato utile per trovare ispirazione per la storia xD

Io direi che Eric merita un applauso: finalmente ha preso l'iniziativa. Meglio tardi che mai ahahaha

Grazie a tutti voi, che leggete il frutto dei miei film mentali: dire che vi adoro è poco!!!

Alla prossima,

Lizz

p.s. la canzone che Zelda canta nella simulazione è To be loved dei Papa Roach ;)
   
 
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