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Autore: Soe Mame    27/08/2014    2 recensioni
Sì, ci sarebbe riuscito.
Avrebbe svolto il suo ruolo in modo impeccabile, avrebbe onorato la parola data da Gakupo ai signori e non avrebbe mai più fatto alcun pensiero sulla signorina Len.
Sì, ci sarebbe riuscito, per tutti e sei i mesi.
Era spacciato.
Genere: Angst, Demenziale, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gakupo Kamui, Kaito Shion, Len Kagamine
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Non indossava quasi mai gli occhiali.
Len si appuntò mentalmente quel particolare: aveva visto il signor Kyte portarli solo durante le lezioni; li metteva non appena prendeva posto davanti alla lavagna e li toglieva quando finiva il tempo previsto per lo studio.
Senza occhiali, il volto del signor Kyte perdeva almeno un anno, nonché una grossa fetta di autorità: eppure, per quanto una cosa simile non fosse proprio positivissima, per un insegnante, in quei momenti Len sentiva quella bizzarra sensazione di "fuori posto" attenuarsi fino a quasi scomparire.
Era come se Kyte Sheeawn fosse completamente estraneo agli occhiali.
Quando parlava con lui, gli sembrava quasi scegliesse con cura le parole con cui rispondergli - e l'idea che pensasse di doverlo accontentare in tutto e per tutto gli sembrava ogni istante meno credibile.
I suoi occhi azzurri erano perennemente freddi, a volte fissi.
E la mattina gli era capitato di vederlo strofinarseli, di passarsi le mani tra i capelli spettinatisi durante la notte, oppure di non riuscire a trattenere uno sbadiglio, di camminare con la schiena un po' incurvata fino ad arrivare alla sala della colazione.
In quei momenti, tutto sembrava esattamente come sarebbe dovuto essere.
"... si sta sforzando di fare la persona seria?"
Tutto parve illuminarsi di colpo, come aprire all'improvviso le tende di una stanza buia a mezzogiorno.
Kyte Sheeawn non era completamente estraneo agli occhiali, era completamente estraneo alla quasi totalità di ciò che faceva: non era un insegnante, non sapeva come ci si rapportasse ad un'allieva, non aveva idea di che comportamento assumere con lui e, sopra ogni cosa, stava cercando di mostrarsi un serio ed intransigente damerino impettito agli occhi dell'intera popolazione della casa.
Len ebbe la Suprema Intuizione ben due mattine dopo averlo incontrato.
E la sua curiosità nei confronti del signor Kyte aumentò a dismisura.
"Una persona così estranea alla rigidità è tanto amica di Gakupo...?"
Era ormai palese che Kyte Sheeawn non fosse tanto devoto all'etichetta più rigida e Len aveva il vago sospetto che fosse incapace di essere davvero severo: il signor Kyte stava disperatamente cercando di imitare Gakupo; al tempo stesso, stava disperatamente cercando di imitare quello che sembrava essere un suo stretto conoscente.
E, a giudicare dai risultati, lui e tal stretto conoscente dovevano avere in comune solo l'appartenenza al genere maschile.
Il signor Kyte si stava dimostrando una persona potenzialmente molto divertente.
"La vostra è solo una fragile e trasparente maschera di vetro, signor Kyte..." sorrise: "... prima o poi, finirà con il cadere dal vostro viso e spezzarsi in tanti piccoli frammenti".
Si bloccò: "... questa frase era molto ad effetto." socchiuse gli occhi: "E' originalissima. Sicuramente non l'avrà mai usata nessuno!" li riaprì, giunse le mani: "... sono diventata una poetessa!".
I libri che leggeva davano ogni giorno di più i loro frutti.

Non che Kyte Sheeawn fosse un volgare popolano.
Non era estraneo a tutto ciò che faceva: non dava la minima impressione di essere un contadino ignorante portato di peso dalla fattoria ad una magione ducale.
Durante le lezioni, aveva potuto vedere le sue dita più da vicino: non erano le dita bianche e affusolate di un nobile, aveva visto i calli di chi ha fatto, in un passato chissà quanto lontano, dei lavori manuali.
Non aveva affatto un linguaggio basso e volgare, parlava come un nobile o un alto borghese.
Doveva essere un membro dell'alta borghesia: veniva unanimamente chiamato "Signor Sheeawn". Nessun titolo nobiliare, né di cortesia.
"Lo chiamano sempre così..." Len alzò appena lo sguardo dal foglio pieno di kanji semplici, lanciando una rapida occhiata all'uomo di fronte a lui: "Non ho mai sentito nessuno chiamarlo Sir Kyte. Non è neppure un cavaliere.".
La possibilità rimasta era che fosse un collega di Gakupo.
A Len capitò di guardare il signor Kyte mentre quest'ultimo, evidentemente, pensava di non essere visto: senza occhiali, con un'espressione a metà tra il rassegnato e il panico totale, la faccia di Kyte Sheeawn era, al tempo stesso, il ritratto della creatura indifesa e il ritratto della creatura poco intelligente.
Len scartò l'ipotesi del collega.
"Cos'è il signor Kyte? Come accidenti fanno lui e Gakupo a conoscersi e ad essere amici?"
Domande che si ripeteva spesso, ogni volta più incuriosite - soprattutto dopo aver capito che Kyte Sheeawn era un grandissimo bugiardo inconsapevole di avere la scritta "Sto mentendo" stampata in maiuscolo, grassetto e corsivo sull'intera superficie del viso.

C'era un ultimo particolare. Quello che, in realtà, era il primo particolare che aveva notato.
"E' uno di quegli uomini che può permettersi di indossare una divisa simile."
Durante le lezioni osservava le mani.
Quando gli parlava o l'altro credeva di essere da solo, gli guardava il viso.
Il resto del tempo era riservato al resto.
"Volete davvero imitare Gakupo in tutto e per tutto, signor Kyte?" sventolò piano il ventaglio, il the ormai finito.
Lo guardò negli occhi, davanti a lui, dall'altra parte del tavolino.
Lo sguardo del signor Kyte corse alle tazzine vuote: - Gradite altro? -
Len scosse la testa. Fermò il ventaglio, vi nascose dietro le labbra: "Volete davvero imitare Gakupo in tutto e per tutto, signor Kyte.".

Aveva perso il conto di quanti sguardi avessero percorso i suoi capelli, la sua pelle e i suoi vestiti.
Alcuni erano sguardi ammirati, felici di guardarlo; altri erano sguardi di chi avrebbe voluto avere ciò che lui aveva; altri ancora erano sguardi di curiosità, che si scontravano con degli sguardi infastiditi o di disprezzo; c'erano anche sguardi che, in verità, si soffermavano su di lui per pochi istanti, solo per notare la sua presenza nell'ambiente, ma non davvero interessati.
E poi c'erano gli sguardi che vedevano i suoi vestiti come un accessorio di troppo.
A volte erano come sfioramenti leggeri, quando c'era la consapevolezza di non avere alcuna possibilità, di poter solo lasciare andare la fantasia; altre volte Len poteva quasi sentire delle strette e dei morsi.
Era conscio del fatto che certe cose potessero degenerare. Quando sentiva troppo, era solito rifugiarsi nelle vicinanze di suo padre, del padrone di casa o Gakupo.
Gakupo soprattutto sembrava un ottimo deterrente.
Lo divertiva il fatto che lo stesso Gakupo l'avesse quasi guardato allo stesso modo.
Non era lo stesso identico medesimo uguale tipo di sguardo, ovviamente; che l'altro l'avesse più volte guardato come lui avrebbe potuto guardare una torta di banane dopo un mese di digiuno, però, non era un qualcosa di negabile.
Soltanto che gli sguardi di Gakupo erano discreti.
Quelli del signor Kyte no.
In un primo momento, Len non aveva capito che a guardarlo come una pila di biscotti con la gonna in pizzo fosse Kyte Sheeawn.
Poi, cercando di scoprire la provenienza di quegli sguardi, si era chiesto: "Chi mai potrà essere a lanciarmi questi sguardi poco equivocabili che sento da un numero di giorni che casualmente quasi corrisponde a quello dei giorni in cui il signor Kyte è presente in questa casa?"
In realtà, Len l'aveva capito benissimo. Soltanto, non riusciva ad accettarlo.
Non riusciva ad accettare l'idea che fosse tutto così assurdamente facile.
Si stava davvero stancando di stare nel letto da solo. Non dopo aver passato così tanti mesi in compagnia, ogni notte.
Non doveva essere un bisogno, il suo.
Ma era innegabile che lo fosse.
Tuttavia, se anche non lo fosse stato, la cosa non gli sarebbe affatto importata.
A prescindere dal suo sesso, non aveva alcuna intenzione di dividere il letto con se stesso per sei mesi.
Le occhiate che sentiva sulla pelle da parte di quegli occhi azzurri gli dicevano che neppure il signor Kyte avesse intenzione di starsene da solo.
"Mi avete lasciato un perfetto sostituto, Gakupo.".
Doveva solo far sì che il suo ospite si sentisse più a suo agio.

Il signor Kyte era più alto di lui. Di una spanna abbondante.
Quindi lui, per poterlo guardare, doveva abbassare lo sguardo.
Soltanto che il signor Kyte non aveva un gran senso dello spazio e finiva sempre per fermare lo sguardo più sotto di quanto fosse necessario - all'incirca all'altezza della scollatura del suo vestito.
Len lo capiva benissimo: anche a lui capitava di avere problemi di spazio, quando doveva parlare con una donna più alta di lui - dato che a volte erano troppo alte, il suo sguardo faceva una pausa ben prima degli occhi, curiosamente, anche nel suo caso, all'altezza della scollatura.
Non che si vedesse mai nulla di troppo affascinante, al di fuori delle sale da ballo. Però capitava che s'intravesse una piccola ombra al centro o, se si guardava dall'alto, un'ombra un po' più profonda.
Quelli erano i momenti in cui Len desiderava che le imbottiture del suo corsetto fossero naturali. Avrebbe potuto abbassarsi un po' il vestito con la scusa del caldo di quei giorni, o fare movimenti irreali e del tutto senza senso per mettersi in mostra il più possibile con l'ingenuità e il candore tipico di una rispettabile fanciulla non maritata.
E invece no.
"Spero che queste cose rendano l'idea..." Len sospirò, gettando un'occhiata alle coppe del corsetto.
La situazione era più difficile del previsto: il signor Kyte era palesemente d'accordo con la sua idea, il problema stava nel comunicargli suddetta sua idea.
"Forse potrei fare come ho fatto con Gakupo..."
- Ho chiuso a chiave la porta della vostra camera, siamo solo io e voi, è notte e i servitori sono troppo lontani, se anche urlerete nessuno potrà sentirvi! Muahahahah! -
"Uhm, no."
Aveva come la vaga impressione che il signor Kyte non avrebbe affatto reagito bene, se si fosse ritrovato in quella situazione.
Aveva anche pensato qualcosa di estremo come presentarglisi in camicia da notte; tuttavia, se le sue impressioni erano giuste, il signor Kyte avrebbe potuto gettargli addosso la propria giacca ma anche un tavolo, quindi era meglio non rischiare.
L'unica possibilità rimasta era fargli capire che aveva capito e capire se aveva capito che lui aveva capito ed era pienamente d'accordo.
O qualcosa del genere.
Così, aveva riportato alla mente ciò che aveva visto fare alle sue coetanee più smaliziate e ciò che aveva appreso dall'approfondita ricerca svolta in biblioteca ed era giunto alla conclusione che un po' d'acqua avrebbe fatto al caso suo: con la scusa del caldo, bastava gettarsi un po' d'acqua sul collo e, per magia, da lì sarebbero scese, piano piano, delle gocce estremamente sensuali che sarebbero scivolate con grazia lungo la pelle, fin dentro la scollatura, catturando lo sguardo della persona interessata e facendogli fare i pensieri più impuri di questo e dell'altro mondo.
Len ci aveva provato.
E si era ritrovato una striscia d'acqua collo-corsetto perfettamente dritta e uniforme, ottenendo un'imbottitura bagnata ad inzuppargli la parte superiore della sottoveste e essere costretto ad una dignitosa ritirata in camera sua per cambiarsi - se non altro, aveva delle imbottiture di riserva. Sarebbe stato problematico, altrimenti.
- Non so cosa fare... - strinse il pupazzo, affondando il viso tra le orecchie di stoffa: - E' talmente facile da essere impossibile! -
Non sapeva se quella frase avesse senso, ma era il riassunto di ciò che sembrava quella situazione: era ovvio che il signor Kyte sarebbe stato ben felice di prendere il posto di Gakupo, ma qualcuno o qualcosa doveva sbloccare quella situazione di stallo.
La cosa peggiore, per assurdo, era che il signor Kyte non desse l'idea di qualcuno capace di mantenere la lucidità in una situazione d'emergenza (?) del genere, né che fosse una persona capace di approfittarsi di una dolce fanciulla indifesa - lo dimostrava il fatto che, pur mangiandolo con gli occhi fino a fare indigestione, non avesse mai allungato mezzo dito, neanche quando erano completamente soli.
Quindi, sì, l'ipotesi del tavolo era la più probabile.
- Signor Kyte...? - Len aggrottò la fronte: - ... forse c'è qualcosa che posso fare senza fargli avere reazioni inconsulte... -.

Non era raro che lui e il signor Kyte facessero una passeggiata per i prati, soprattutto nello spazio di tempo tra la fine delle lezioni e l'ora di pranzo.
Era in quei momenti che lo sguardo dell'altro si faceva più glaciale e le risposte più monosillabiche.
Quella mattina faceva caldo. Terribilmente caldo. Spaventosamente caldo.
- Oggi fa veramente caldo, non trovate? - quasi slogò il polso con il ventaglio, concentrando metà delle sue energie nel mettere l'ombrellino esattamente sulla traiettoria di ogni singolo raggio di sole rovente.
"Forse non è stata un'idea così geniale... Forse faremmo meglio a rientrare..."
- Capita, in estate. -
"Capita?"
- Ma oggi più del solito. Il sole è davvero forte! - come faceva a non rendersene conto?: - Pensate che, una volta, per un caldo del genere, mia cugina Miki è addirittura svenuta! - svenire per il caldo sarebbe senz'altro stata una scena molto scenografica e carica di pathos, ma non ci teneva ad esserne protagonista: - Anche se mia cugina Lola dice che è perché aveva stretto il corsetto più del dovuto. - ricordò, di colpo: - Ah, conoscendo mia cugina Miki, è probabile! Corsetto troppo stretto, un caldo simile... era logico che sarebbe svenuta! E' così esile, forse dovrebbe mangiare di più, come dice mia cugina Lola. -
Lui non aveva il corsetto troppo stretto. E non aveva problemi nel mangiare. Però aveva caldo. Terribilmente caldo. Spaventosamente caldo.
Il signor Kyte non rispose.
Len gli rivolse un'occhiata: "Come fa a non avere caldo?"
- Voi siete mai svenuto per il caldo, signor Kyte? -
- No, signorina. -
"..."
Si fermò.
Il signor Kyte fece altrettanto. Len nascose un sorriso dietro il ventaglio, quando vide un guizzo di timore - il timore di chi viene platealmente scoperto - in quegli occhi azzurri.
"Sì, il signor Kyte è decisamente una persona interessante."
- Voi... - abbassò il ventaglio, scoprendo del tutto il viso: - ... siete sempre così composto, signor Kyte! - usò il tono più tenero e innocente del suo repertorio.
L'ombra di quel timore attraversò di nuovo lo sguardo dell'altro.
- Voi dite? -
Alle sue orecchie, quella domanda giunse come: - Davvero sono riuscito a farvi credere questa colossale panzana? -.
Il suo sorriso si accentuò appena, annuì: - Guardandovi, non mi sembrate molto una persona seria e composta, sapete? -
Stoccata.
- Perché dite questo? -
Il signor Kyte stava vacillando in maniera sempre più palese. Era da riconoscere, però, la sua capacità di continuare a fingersi una statua.
Era decisamente vero che gli occhi dicevano sempre la verità. Mai guardare altrove, quando si parla con qualcuno. Per "altrove" erano comprese anche le scollature.
"Forse..." - Ho visto le vostre mani. - "Questa è l'occasione giusta.": - Sono callose. Sembrano ruvide. E voi avete detto di non essere mai stato un soldato. - sempre più vacillante: - Non credo voi siate un contadino o una persona di basso ceto. Non ne avete l'aria, né il vostro linguaggio e modi possono passare per quelli di un popolano. - quel timore si era esteso a tutto il viso: - Dunque mi viene da pensare che voi siate... - Len riaprì il ventaglio, osservando quel volto impallidito da sopra le stecche aperte: - ... una persona a cui non piacciono molto le formalità. -.
Il sorriso più tirato che gli avesse mai visto.
Finalmente aveva capito che continuare a fingersi seri e pomposi era del tutto inutile.
Len decise di tacere sul fatto di averlo smascherato in una manciata di ore.
- Siete una brava osservatrice, signorina. -
Dietro il ventaglio, sorrise. Quel tono era rigido, ma era infinitamente più naturale di quello con cui era solito rispondergli. Gli si addiceva molto di più.
- Affatto. - rispose, pacato: - Semplicemente, riconosco le persone come me. -
No, certe formalità, a volte, non piacevano granché neppure a lui.
Soprattutto in quei casi.
Chiuse il ventaglio: - Quindi, se me lo permettete, vorrei chiamarvi soltanto Kyte. Voi potete chiamarmi solo Len. - lo vide trasalire: - Finché non c'è nessun altro in giro, ovviamente. - si affrettò ad aggiungere.
Certe cose andavano fatte con calma. Piano piano.
L'altro non rispose. Si limitava a fissarlo, l'espressione composta si era distrutta e aveva lasciato il posto ad uno sguardo confuso ed esitante.
Molto più umano della finta statua. Per un istante, si sentì come se stare con quel signor Kyte fosse molto meglio che stare con il signor Kyte serio precettore.
Fu una sensazione rapida, quasi non se ne rese conto. Rimase perplesso.
- Mi concedete di farlo? -
La voce dell'altro lo riportò alla realtà. Non che si aspettasse una risposta diversa.
Kyte non era Gakupo.
Sorrise di nuovo, annuì: - Ci si sente meglio ad essere diretti, vero, Kyte? -
Era piacevole, in effetti.
- Credo di sì... Len. -
Sì, era piacevole.
"Ormai dovrebbe aver capito..."
Un raggio di sole lo colpì ad un occhio. Con uno scatto irritato, provò a coprirlo con l'ombrellino; quando lo spostò, altri raggi apparvero da non si sa dove appositamente per torturarlo.
"Mi serve un ombrello più grande."
- Fa veramente troppo caldo. - sospirò, esasperato da quella cottura a fuoco vivo: - Andiamo a cercare un posto all'ombra? Magari fresco. Che ne dite? -
Stavolta, era sicurissimo che lo sguardo che rivolse al sig- a Kyte fosse di pura preghiera.
Che fingesse di stare morendo di caldo, almeno.
Che lo facesse per lui.
- D'accordo, sign- Len. -
"Siete una brava persona, Kyte."
- Ah! Potremmo andare al laghetto! - di colpo, si ricordò dell'esistenza di un laghetto nelle vicinanze. Forse erano stati quegli occhi azzurri e quei riflessi bluastri nei capelli neri a farglielo tornare in mente.
Però Kyte non gli dava l'idea di acqua fresca. Affatto.

- Non c'è nessuno... - Len si guardò intorno: il laghetto era deserto.
"Dove sono andati tutti? Non saranno mica...?"
- Ma ora la casa sarà un forno! - sbuffò, per poi chiudere l'ombrello e appoggiarlo al primo tronco disponibile: - A meno che non siano fuggiti tutti in massa nei sotterranei. - posò il ventaglio chiuso accanto all'ombrello: "Ah... sotterranei... fresco...".
- La prossima volta potremmo farlo anche noi! Che ne dite? - chiese, senza voltarsi: davanti a lui c'era il laghetto. Fresco. Tanto fresco.
- Fuggire nei sotterranei, dite? -
- Sì! -
- E cosa c'è di interessante, nei sotterranei? -
- Il fresco. - "Come quello che ho qui davanti."
- Potrebbe rivelarsi un'ottima idea. -
"Caldo. Lago. Acqua. Fresco. Voglio. Mio.".
Percorse tutta la passerella di legno, provando una punta di disappunto quando lasciò l'ombra degli alberi per tornare al sole: "Servirebbe una passerella più corta...".
Finalmente aveva raggiunto la sua meta.
Gli sarebbe piaciuto spogliarsi e lasciarsi galleggiare, ma c'erano due problemi: il primo era sotto gli alberi, il secondo era che liberarsi di tutti quei vestiti, da solo, implicava tanto impegno e volontà che, al momento, non aveva.
Poteva quindi giungere ad un compresso e, per correttezza, andava chiesto al primo problema.
Che avrebbe sempre potuto dirgli di no.
Ma confidava nel suo essere una brava persona.
Si voltò verso di lui: - Vi dispiace se mi prendo un po' di libertà? - chiese, il tono esitante.
- No, fate pure. -
"Siete davvero una brava persona.".
Se proprio non poteva togliersi tutto, poteva disfarsi almeno delle cose raggiungibili; si tolse le scarpe, slacciò le giarrettiere e si sfilò le calze, tirò la gonna fin sopra le ginocchia e mise le gambe in acqua.
Si lasciò andare ad un sospiro soddisfatto: aveva sempre più voglia di gettarsi, ma almeno il fresco dell'acqua riusciva ad irradiarsi in tutto il corpo partendo dalle gambe - come le piante con le radici?
Non aveva più così caldo.
Poteva persino permettersi di pensare a qualcosa di più articolato.
"Forse..." come se fino a quel momento fosse stato soffocato dal caldo, quel pensiero apparve nella sua mente, limpido (e fresco?) come l'acqua: "... i miei genitori hanno fatto ricerche sul sig- su Kyte...?".
Era assurdo pensare che si fidassero della sola parola di Gakupo, qualsiasi cosa lui avesse detto loro.
"Se io avessi dei documenti riservati, dove li terrei...?" ci pensò un istante: "... forse sono nello studio di mio padre...?" stanza in cui, teoricamente, nessuno poteva entrare, nessuno doveva entrare e di cui lui conosceva ogni singolo cassetto a doppio fondo e armadietto segreto dietro le librerie.
"Andrò a controllare." voleva sapere cosa fosse Kyte. Era diventata una questione di principio.
"Ah, in effetti, cosa sta facendo?" si voltò a guardarlo, verso la barriera di alberi: lo stava fissando con uno sguardo di profonda sofferenza e sembrava stesse cercando di pugnalarsi la mano con una corteccia.
"...?" sbattè le palpebre: "... forse anche lui sta soffrendo per il caldo, vorrebbe un po' di fresco ma non osa chiederlo...?"
- Venite? -
Vide il suo sguardo farsi più strano. Qualsiasi cosa fosse, doveva fargli davvero male.
- No. Grazie. Rimango qui. -
Sbattè di nuovo le palpebre: credeva avesse smesso con quei monosillabi così-
"Ah.".
Mosse le gambe in acqua.
Gli sfuggì una risata, corse a coprirsi la bocca con una mano: - Sapete, Kyte? -
- Cosa? -
- Siete divertente! -
La sofferenza di quello sguardo fu sostituita da una palese confusione.
- Dico davvero! - sorrise, per poi tornare a guardare davanti a sé.
Il sole stava cominciando a cuocergli la testa. Meglio bagnarla.
E, sì, anche Kyte desiderava tanto fresco, in quel momento.
"Oltre che interessante siete anche divertente. Molto.".

Suo padre non era in casa - come al solito. Quindi Len potè andare nel suo studio, tranquillo e con totale noncuranza, come se stesse entrando nella propria camera.
Si richiuse la porta alle spalle e aprì una tenda - e starnutì, perché quella era probabilmente la seconda stanza più impolverata dell'intera magione dopo lo stanzino delle scope.
Come se non bastasse, la sensazione della polvere sulle dita umide di sudore era un pelino disgustosa. Ma aveva una missione da compiere - e si era scordato il fazzoletto chissà dove, quindi non aveva alternative.
"Devono essere documenti fatti di recente..." lo sguardo andò dove sapeva esserci un armadietto segreto: "... quindi ancora non dovrebbero essere stati messi via..." portò l'attenzione sulla scrivania: "Primo cassetto troppo ovvio. Secondo altrettanto. Il quarto anche." s'inginocchiò e aprì il terzo cassetto, trovandovi un pesante libro di cose inutili - erano senz'altro cose inutili, già il fatto che il solo guardarlo gli aveva suscitato un moto di noia ne era la prova. Lo tirò fuori e lo mise a terra. Ora veniva la parte difficile.
Aprì il cassetto del tutto e infilò un braccio all'interno; quando sentì le dita raggiungere l'estremità opposta, fece pressione verso il basso.
Strinse i denti. Come previsto, quella porzione di cassetto si era aperta, scattando verso l'alto e colpendogli in pieno l'avambraccio.
Teoricamente, quella pseudotrappola per topi a sorpresa avrebbe dovuto far urlare il malcapitato e mobilitare la servitù verso lo studio. Teoricamente.
"C'è senz'altro un modo per prendere le cose qui sotto senza staccarsi un braccio, ma..." non aveva idea di quale fosse.
Ritirato il braccio e appurato che ci fosse ancora, mise la mano nel quadrato di legno aperto, per poi riuscirne con quattro fogli.
"... padre, siete troppo prevedibile.".
Si sedette sul tappeto, la schiena contro la sedia della scrivania, e lesse i risultati delle ricerche svolte su Kyte Sheeawn.
"... prima di essere assunto qui, non aveva alcun lavoro?" sbattè le palpebre, perplesso. Proseguì: "... lavori di breve durata... calzolaio?" aggrottò la fronte, sentì le labbra schiudersi: "Ma che...? Il proprietario di una locanda afferma di avergli dato una stanza e del cibo in cambio della pulizia dopo la chiusura del locale?" la bocca era diventata un cerchio perfetto.
Abbassò il foglio.
"... mi state prendendo in giro."
Prese un altro foglio, lesse fin troppo velocemente, dovette rileggere una riga: "Abita a... ma la casa non gli appartiene, il proprietario della casa è-" sgranò gli occhi: "Gakupo Kamui?".
Abbassò anche il secondo foglio.
Non aveva senso.
Dovevano essere documenti falsi, magari fatti per distogliere l'attenzione da quelli veri.
"... però non descriverebbero mai Kyte Sheeawn come..." deglutì: "... come..." trasse un profondo respiro: "... un povero mendicante." rabbrividì.
Scosse la testa: "No, non è possibile." afferrò gli altri due fogli: "Kyte non è un uomo di strada. E Gakupo, per quanto possa essere bravo a fare le cose, non può averlo trasformato in un alto borghese nel giro di una settimana. E Kyte non sa mentire. Se fosse un popolano che si finge un altolocato, sarebbe facilissimo scoprirlo." percorse con lo sguardo ogni parola di quei fogli: "E' una cosa radicata. E naturale. Lui è alto borghese. Non ha nulla a che vedere con i poveracci. Lui-"
Si bloccò.
Aveva trovato la risposta.
Chiuse gli occhi, per un istante.
Quando li riaprì, tornò a guardare quelle righe: "Genitori ancora in vita e in salute. Minore di cinque figli, terzo figlio maschio. Padre finito in prigione per debiti di gioco. Uno dei fratelli coinvolto in un brutto caso al confine con la Scozia, dove la famiglia risiedeva fino a qualche anno fa. Perdita del titolo. Famiglia disonorata."
Non aveva idea del perché sentisse quella fitta al petto. Né perché il suo cuore sembrasse stargli per rompere le ossa del torace. Né perché sentisse improvvisamente freddo.
"Sheeawn..." finì di leggere, quel nome che aveva iniziato a rimbombargli nella mente: "Non esagerare con i vizi, o finirai come i baroni Shane!" abbassò i fogli: "... i baroni Shane. I baroni Sheeawn.".
Esistevano i nobili decaduti. Lo sapeva chiunque. Ne conosceva, anche.
"Perdere il titolo così, macchiare l'onore della famiglia in modo così umiliante, fino a diventare un simbolo negativo..."
In passato, gli era capitato di ridere sui fantomatici "baroni Shane", immaginandoli come i protagonisti di comiche disavventure.
Ora non aveva più molta voglia di ridere.
Rilesse quei fogli. Li rilesse un'altra volta, uno per uno, riga per riga, parola per parola.
Kyte Sheeawn era un barone che aveva perso il suo titolo e portava un nome disonorato. Non aveva niente. Non si trattava di non avere altre proprietà oltre la propria casa, o di non avere troppi beni, o di avere cose di poco conto.
Kyte Sheeawn non aveva niente.
La divisa bianca gli apparve davanti agli occhi. La divisa bianca identica a quella di Gakupo. Talmente identica da poter essere un suo ricambio ristretto.
Len rabbrividì, nel rendersene conto. Non c'era nessun termine di paragone. Era così.
Posò i fogli sul tappeto, portò le ginocchia al petto.
Fissò le proprie scarpette bianche che spuntavano da sotto il merletto nero della gonna.
Sentiva di doversi indignare. Di dover portare quei fogli a sua madre, chiederle perché lei e suo padre avessero permesso ad una persona simile non solo di fargli da precettore ma anche di mettere piede nella loro casa.
Rabbrividì a quel pensiero.
Aveva freddo. Il che era decisamente ridicolo, visto il caldo asfissiante oltre quella finestra e la pelle ancora sudata.
Doveva indignarsi. O far finta di nulla. Avrebbe potuto far finta di nulla, come se non sapesse niente.
In fondo, era solo un precettore sostituto. Se ne sarebbe andato di lì a qualche mese. Il suo vero precettore era una persona rispettabile.
Inspirò, si passò le mani sulle guance troppo sudate, soprattutto sotto gli occhi.
"Siete una brava persona, Kyte." recuperò i fogli: "Anche se dietro di voi c'è tutto questo, qui siete il mio precettore sostituto." li rimise dove li aveva trovati: "Continuerò a comportarmi come mi sono sempre comportata con voi. Non cambierà nulla." risistemò la pseudotrappola: "Mi piace stare con voi, nonostante tutto. Siete divertente." richiuse il cassetto.
Si rialzò, uscì dalla stanza e si diresse in camera sua - necessitava di liberarsi di quella polvere appiccicosa. Era un bisogno fisico.
Sentiva la mente del tutto vuota. E quel freddo si ostinava a farlo rabbrividire. La cosa peggiore era che non sembrava un freddo proveniente dall'esterno. E non capiva perché la pelle delle guance stesse sudando così tanto.
Prima ancora di lavarsi per bene le mani, si schiaffò l'acqua del catino nella sua camera sul viso. Si passò le dita sulle palpebre chiuse. Quando le riaprì, il suo sguardo incontrò il pupazzo nero sul suo letto.
Quello che era tra le cianfrusaglie destinate ad essere buttate.
Piano, la faccia e le mani ancora bagnate, lo raggiunse e lo prese in braccio: - ... anche tu, un tempo, eri un bel pupazzo, vero? Quando sei stato creato, eri senz'altro bellissimo. Per questo la mia antenata ti ha preso con sé. - guardò le cuciture che gli aveva fatto: - Però... poi non hai avuto più nessuno che si prendesse cura di te. E ti volevano buttare via. Però... - lo accarezzò tra le orecchie, lungo la faccia rotonda: - ... però ora sei con me. E sei tornato bellissimo. E nessuno ti butterà via. Perché ci sono io, con te. - lo strinse al petto.
E capì.
- ... anche Kyte è come te, vero? - lo scostò, tornò a guardarlo nell'occhio visibile: - Non importa com'eri e perché volevano buttarti via. Ora sei qui. Ora sei con me. E andrà tutto bene. - sorrise.
Quel pupazzo se l'era preso da solo. Gakupo e Kyte gli erano stati dati dai suoi genitori. Come tutte le altre bambole quando era piccolo.
Erano per lui. E solo per lui. Non erano qualcosa che potevano usare anche gli altri, erano qualcosa che apparteneva unicamente a lui.
Anche se Gakupo e Kyte non erano effettivamente bambole.
Non avevano la pelle di porcellana. Non erano donne in miniatura con abiti stupendi che poteva prendere in braccio.
Erano loro che potevano prendere in braccio lui. Non erano donne. E non erano in miniatura.
E respiravano. Parlavano. Rispondevano. A volte lo contraddicevano pure.
Gakupo per primo. E poi Kyte, per non fargli sentire la mancanza di Gakupo.
Sorrise, strinse di nuovo il pupazzo: - Loro non sono come le altre mie bambole. Loro sono le mie bambole più belle. -.

- Ma, se è così, allora non dovrebbe essere fragile? - l'espressione di Kyte era visibilmente confusa - e visibilmente naturale: - Vi vedo spesso in giro con quel giocattolo, non rischiate che si rompa? -
Len accennò ad incurvare le labbra: - Non è più fragile di nessun altro dei miei giocattoli. - sorrise: - E poi, non c'è nulla di male a giocare anche alla mia età, no? -
- No... - il ritratto della convinzione: - ... direi di no. -
- C'è anche un altro motivo. - strinse a sé il pupazzo: - Mi irriterebbe mostrare le mie bambole più belle. -
Sapeva che, letteralmente, era impossibile. Tutti li vedevano.
Ma mostrarli agli altri come suoi lo irritava.
Sì, non si era mai fatto il benché minimo problema a mostrarsi civettuolo in presenza di Gakupo, o prendergli il braccio in ostaggio, o appiccicarsi a lui, o a distruggere visivamente tutti i giovani esemplari di sesso femminile che gli si avvicinavano; allo stesso modo, non si sarebbe fatto alcun problema a fare altrettanto con Kyte. Tuttavia, l'idea che qualcuno potesse vederli insieme lo irritava. Non per pudicizia. L'avrebbe irritato anche essere visto in momenti innocenti.
Allo stesso tempo, quasi desiderava che qualcuno lo vedesse. Anche nei momenti non innocenti. Solo per sbattere in faccia la verità a quel qualcuno.
Forse ciò che lo frenava era la possibilità che li allontanassero da lui, definitivamente. Quello l'avrebbe irritato molto. Odiava quando gli sequestravano le cose.
Voleva che le persone che guardavano troppo Gakupo e Kyte capissero di non avere la benché minima speranza; al tempo stesso, lo irritava l'idea che una di quelle persone potesse decidere di toglierglieli per vendetta.
Un bussare.
Len guardò la porta: sua madre.
Con una-
- Len, è arrivata una lettera. -
"Appunto."
- Il solito? -
- Direi di sì. -
"Che noia." - Chi? -
- Avanna. -
"Uh? Quella promessa all'irlandese?" - Avrò impegni. -
- Come sospettavo. -
- Domani le scriverò qualcosa. - "Forse."
- Basta che sia entro due mesi, Len. -
- Mi bastano due minuti. - "Così me la levo di torno."
Sua madre si congedò, silenziosa come era arrivata, con la sua noiosa, fastidiosa notizia.
"Avanna. Quella dell'irlandese." strinse i denti: "... una delle mie cugine più giovani.".
Avrebbe dovuto contare gli inviti di matrimonio che aveva ricevuto.
Il cuore sussultò. Sentì la gola secca.
A memoria, ne ricordava quasi trenta.
"... in quante siamo rimaste ancora nubili...?".
- Va tutto bene? -
"Eh?"
Si voltò: Kyte lo stava guardando, sul viso uno strano misto di preoccupazione ed esitazione. Erano espressioni che gli addicevano alla perfezione, ma perché...?
Piegò appena la testa, cercando di capire.
Quello sguardo scomparve da quegli occhi azzurri: - No, niente. - scosse la testa, un accenno di sorriso.
"... siete strano, Kyte.".

Rimise gli inviti al loro posto.
Quello di Avanna era il ventinovesimo.
Le giovani Dewsen ancora prive di marito erano solo quattro.
Due di quelle quattro erano più grandi di lui. Una era più piccola di lui.
Una aveva due anni più di lui. Un'altra aveva appena un anno in più. Anche Avanna aveva due anni più di lui. Presto, molto presto, avrebbe ricevuto un altro invito.
E sarebbero rimaste in tre.
Quanto tempo sarebbe trascorso prima che arrivasse un altro invito? Quando avrebbe visto quel pezzo di carta che gli diceva che la sua cugina quasi coetanea stava per sposarsi?
Poi tutti gli sguardi sarebbero stati su di lui.
E l'avrebbero scavalcato.
E la minore del casato Dewsen sarebbe convolata a giuste nozze.
- Purtroppo, quella che vi devo dare è una brutta notizia. - quasi gli sembrava di sentire la voce di suo padre, di vedere il suo sguardo addolorato: - La mia unica erede non può avere figli. - quasi gli sembrava di sentire un brusìo sconvolto, di sentire tutti gli occhi che lo trafiggevano, chi incredulo, chi compassionevole, chi accusatorio, come se fosse colpa sua: - E, di comune accordo, mia moglie ed io abbiamo deciso di non darla in sposa a nessuno. - gli sembrava di sentire il brusìo aumentare: - Troppi cacciatori di dote. Troppi divorzi pianificati. Nell'ultimo periodo, è quasi impossibile riuscire a contrattare buoni matrimoni. - gli sembrava di vedere suo padre sospirare, affranto: - La dote di mia figlia farebbe gola a troppe persone. Ed è ovvio che chiederebbero la sua mano solo per quella. -.
Sì.
Sarebbe andata così.
La scena sarebbe andata sicuramente così.
- Povera cara, è stata così sfortunata! -
- A quanto pare, non si può avere tutto. Bellezza, ricchezza... doveva esserci un risvolto negativo. -

Posò le mani sui tasti del pianoforte.
Sì.
Sarebbe andata così.
La scena sarebbe andata sicuramente così.
- Ma non farla sposare proprio a nessuno... -
- Lady Len, ora, oltre che l'aspetto, ha anche l'irraggiungibilità di un angelo. -

Sì-
No, forse quello era esagerato.
Gli sfuggì una risata, schiacciò le dita sui tasti a sinistra.
Si passò la mano tra i capelli, espirò, toccò un unico tasto a destra.
"Chissà cosa succederà quando, in teoria, toccherebbe a me." portò anche la mano destra a sinistra: "Chissà cosa succederà quando si sposerà la più piccola di noi..." sorrise: "Chissà cosa succederà quando si sposerà Oliver. Di certo, sarà un matrimonio splendido. Un surrogato di festa nazionale." il suo sorriso si accentuò: "Chissà cosa succederà quando saranno tutti sposati. Chissà cosa succederà quando anche l'ultima avrà avuto la sua primogenita." espirò di nuovo, sentì il sorriso sciogliersi, non sapeva neppure in cosa: "Chissà cosa succederà quando camminerò per strada e mi riconosceranno. Chissà cosa succederà quando andrò ai balli e verrò guardata con pietà. Chissà cosa succederà nei prossimi anni. Chissà se ci sarò nei prossimi anni.".
Premette le dita con più forza. Toccò di sfuggita un tasto a destra. Lo toccò di nuovo. Di nuovo. Di nuovo.
Gli ricordava un po' il rumore della pioggia contro il vetro della finestra.
In effetti, fuori sembrava stare piovendo. Parecchio.
Forse non era solo il pianoforte a ricordargli il rumore della pioggia.
Con la coda dell'occhio, notò la soglia illuminarsi.
Troppa luce perché fosse di una delle candeline discrete dei servitori del turno di notte.
Notò la luce farsi più vicina, fino ad illuminare almeno la metà dei tasti.
"Siete venuto da me?" riconobbe quella figura bianca senza neanche voltarsi: "Siete davvero una brava persona.".
Continuò a suonare. Kyte rimase immobile, silenzioso.
Premette le dita sulle ultime note. Non che stesse suonando qualcosa in particolare. Ma aveva deciso di concludere lì. Era curioso di vedere quella faccia.
Portò le mani in grembo e si voltò verso di lui, con un sorriso: le sopracciglia inarcate, le labbra appena schiuse, Kyte sembrava confuso, come se si fosse perso all'interno della magione e si fosse ritrovato di colpo davanti qualcosa che non aveva mai visto prima. Non sapeva se fosse colpa della luce della candela, ma gli sembrava fosse un po' pallido.
- Non riuscite a dormire? - la voce uscì più trillante del solito.
Kyte non rispose, l'espressione ancora disorientata - forse l'aveva stordito con quel tono?
Lo vide fare qualche passo verso di lui, riuscendo finalmente a parlare: - Temo di no. - la voce bassa, esitante.
Erano ad almeno due o tre passi di distanza; da lì, Len riuscì a vederlo bene: ammirevole come gli uomini in camicia da notte sembrassero sempre essere caduti dentro alla veste, a prescindere dalla loro stazza - almeno Gakupo aveva i capelli lunghi a smorzare l'effetto, Kyte no.
Allo stesso modo, Len riuscì a vedere bene anche la direzione del suo sguardo, decisamente non attirato dal viso. Forse si sarebbe dovuto preoccupare: persino Kyte avrebbe iniziato a porsi qualche domanda, nel vedere il suo petto piatto.
- Cosa state guardando? -
Lo vide trasalire. Soffocò una risata.
- N... non avete freddo? - anche Kyte sembrava aver soffocato qualcosa. Tipo se stesso.
Lo vide impallidire. Stavolta non poteva sbagliarsi: era bianco quanto la camicia.
Un attimo dopo, Kyte gli dava le spalle. E le nocche della mano che reggeva la candela erano sbiancate più del resto della pelle.
Lasciò andare la risata: "Siete... davvero divertente, sì.". Si girò sul sedile, dando le spalle al pianoforte, e accavallò le gambe, alzando la gonna fino a far sfiorare l'orlo e il ginocchio. Nel caso l'altro si fosse voltato.
- No, non ho freddo. - rispose, sforzando un tono pacato.
- Ma... così, senza nient- senza una vestaglia, un matinee, neppure delle scarpe... -
- I matinee s'indossano di mattina. - ridacchiò: "E poi, Kyte, almeno io indosso qualcos'altro, oltre la camicia..." era un pensiero carino. Soprattutto considerando le condizioni in cui l'altro doveva trovarsi.
- N-non vi si annodano i capelli, a lasciarli sciolti...? - sembrava quasi stesse cercando un qualsiasi pretesto per fuggire. Anzi, non "sembrava".
- Mai successo! - "Andiamo, non si sono mai annodati a Gakupo e si annodano a me?".
- E se qualche servitore vi vedesse? E' sconveniente! -
- Mi avete vista solo voi. - "E Gakupo. Ma non è necessario che voi lo sappiate.".
Era tentato dal toccargli la schiena, solo per vedere la sua reazione. Ammirevole, però, che stesse effettivamente cercando una scusa, blaterando di impresentabilità e impudicizia, e non fosse scappato all'istante senza dire niente.
Forse avrebbe potuto-
- Cosa penserà di voi il vostro futuro marito, se mai saprà che altri uomini vi hanno vista così? -
"..."
- Dovreste curare di più la vostra reputaz- -
- Io non mi sposerò. -.
Kyte tacque. Parlò solo dopo qualche secondo: - ... prego...? -
- Non mi sposerò. - semplice, diretto. La pura realtà dei fatti.
- Che state dicendo...? -
"..." - Che mai nessuno mi avrà in sposa. - si alzò, lasciando ricadere l'orlo della gonna a terra: - Che non porterò nessuna fede al dito. Che la mia dote non ha senso di esistere. Che ogni mio spasimante sarà rifiutato. - "Che ogni cosa rimarrà come è sempre stata."
Credeva che, dicendolo esplicitamente, avrebbe sentito tante pugnalate, una per ogni frase.
Ma non aveva sentito niente. Forse i pugnali non avevano trovato niente da pugnalare.
- Queste non sono cose su cui scherzare. - il tono di Kyte si era irrigidito: - Tanto meno in una situazione del genere. -
"... eh?" - Che situazione? -
- Perdonate la mia indiscrezione. - non c'era più alcuna traccia di esitazione, in quella voce. Erano strano sentirla così seria, così realmente seria: - Ma per quale motivo dite cose tanto ridicole? -
"Ridicole?" sbattè le palpebre. Poi capì: "Oh... giusto. Per lui, sono una fanciulla che i genitori non vogliono far sposare per capriccio.".
- Mi rifiuto di credere che i vostri genitori vogliano rinchiudervi in un convento! -
- Fate bene, perché non è affatto loro intenzione fare una cosa del genere. - O meglio, l'avevano proposto. Poi si erano ricordati che mettere un adolescente maschio sessualmente represso in un luogo isolato con la sola compagnia di un numero indefinito di adolescenti femmine altrettanto sessualmente represse forse non era un'idea geniale.
- E allora perché? - la voce si era alzata. No, a Kyte non piacevano affatto i toni formali: - Vi è stato detto che non potete avere figli, forse? Anche le donne che non possono averne si sposano! -
- Posso avere figli. Sì. - teoricamente, lui poteva averne: - Potrei averne. - era quello il problema: - E potrei sposarmi, sì. - se le cose fossero state diverse, avrebbe potuto prendere una qualche nobildonna in moglie e avere da lei tutti i figli che voleva: - Come ogni brava donna. - se le cose fossero state diverse, sarebbe potuta essere data in sposa a qualche nobiluomo e dargli tutti i figli che voleva: - Tuttavia, non posso. Sposarmi mi è precluso. -.
Quella. La realtà. La pura realtà dei fatti.
Poteva comprarsi intere catene di negozi ma non poteva avere un minuscolo cerchio giallo intorno al dito.
- Sapete... - mormorò: - ... la lettera di oggi era da parte di mia cugina Avanna. Si sposa. Ma ho deciso che sarei andata solo al matrimonio delle cugine con cui ho scambiato almeno qualche frase durante l'ultimo anno. -
Qualche anno prima era stato al matrimonio di una cugina di cui neanche ricordava l'esistenza. Pochi mesi dopo, sua cugina e il di lei marito erano stati ad un passo dal divorzio - salvato all'ultimo momento dalle forze congiunte di circa tre quarti dell'intera famiglia Dewsen.
A Len piaceva pensare di averle portato sfortuna. Non che lo facesse apposta. Gli capitava di maledire una sposa sconosciuta. E provava una strana soddisfazione nel vedere il suo matrimonio fallire. In realtà, quella era stata la prima - e unica - volta che era successo. E gli piaceva pensare di esserne stato la causa.
Così avrebbero imparato a costringerlo a farsi sbattere in faccia matrimoni di sconosciute.
- In questi anni si stanno sposando tutte. Sia qui che in Giappone, pare. -
Dubitava che le sue maledizioni fossero arrivate alla signorina - signora - Megumi. Sapeva che i giapponesi facevano cose strane con la magia e i talismani.
Sentì una leggera fitta allo stomaco, scacciò dalla mente il pensiero di Megumi Kamui.
- Perché? -
- Come? - la voce di Kyte lo distolse dai propri pensieri.
Era bassa, decisa: - Perché questa assurdità? Perché non potete sposarvi? Cos'altro vorrebbero che faceste, i vostri genitori? -.
Len non rispose.
"Siete una persona molto curiosa." sospirò: "Ma comprendo che, per voi, questo può sembrare assurdo. Anche se è ovvio che ci siano dei motivi, dietro." sorrise: "Anzi, più che curioso, siete un gran ficcanaso.".
- In realtà, non è che non potrei mai mai mai mai mai sposarmi! - ricordò, di colpo: - C'è il marito di mia cugina Lily. Se dovesse succederle qualcosa, allora lui mi prenderebbe in moglie. C'era scritto nel contratto di matrimonio e lui ha accettato. Quindi, direi che potrei sposarmi solo qualora succedesse qualcosa a mia cugina Lily. -
- Perché? -
"Ficcanaso ed insistente." - Ah... - ridacchiò: - E' una storia lunga! Rischierei di annoiarvi! -
- Non ho sonno e abbiamo tutto il tempo che vogliamo. -
Sospirò: "Ficcanaso, insistente e maleducato." iniziò a camminare in cerchio: - Siete davvero brutale, stanotte! - rise.
Non lo infastidiva tutta quell'attenzione. Kyte non era serio e composto. Non lo era affatto.
Per questo era interessante.
- Bene, partiamo dall'inizio, come ogni storia vuole! - gli raccontò ciò che i suoi genitori gli avevano raccontato anni prima, ciò che lui stesso aveva raccontato a Gakupo qualche mese prima. Di tanto in tanto, Kyte faceva dei commenti a voce più o meno bassa e, anche se non vedeva il suo viso, era sicuro che la sua espressione si fosse fatta sempre più perplessa man mano che il racconto proseguiva.
Perplessa e tesa.
Ma non poteva perdere l'occasione di giocare con lui mentre erano entrambi in camicia, di notte, da soli.
Gli toccò la schiena prima con un dito, poi con tutta la mano, sentendolo sempre più teso. Le mani divennero due, seguite dalle braccia. Davvero molto teso. Quasi una statua, anche se in altro senso.
- Le "riserve"... - lo sentì chiedere: - ... devono sposare i mariti delle cugine che dovrebbero sostituire? -
- Affatto. L'ho detto: con il proprio marito. Ognuna delle mie cugine andrà in moglie ad un uomo diverso. Loro possono sposarsi, io no. Io sarei soltanto una pezza per non perdere i contatti con il Giappone. -.
Gli massaggiò la schiena, piano. Ottenne solo di farlo irrigidire ancora di più. Chissà se lo stava ancora ascoltando - o se si stesse concentrando sulla sua voce per non pensare alle sue mani. Quella di Kyte, di voce, stava iniziando a tremare un po' e non per il racconto avvincente.
- Non mi avete risposto, però. -
"Come siete invadente.".
E piacevole. Era piacevole stargli così vicino, in quel modo. Avrebbe voluto che si voltasse. Avrebbe voluto che gli facesse dimenticare tutto ciò che aveva detto.
"Perché siete così ficcanaso, Kyte?" lasciò scivolare le braccia davanti al busto, stringendolo in un abbraccio, premendo la fronte contro la schiena: "Perché non capite quando non fate altro che fissare la risposta?".
- Dunque non vi siete accorto. -
- ... eh? -
"... mi chiedo cosa vediate." - ... devo essere davvero bella. -
L'angelica figlia dei duchi di Mirror, Lady Len Mirror, piccola, bionda, con la voce troppo alta e il seno troppo piccolo. Vedeva la stessa cosa che vedevano tutti. Era stupido pretendere che capisse subito - che Kyte capisse subito. Persino Gakupo era stato ingannato dall'imbottitura e dai suoi modi.
Dovette arrendersi al fatto che Kyte stesse facendo domande legittime.
Sentì un sospiro: - Sì. Lo siete. -.
Len sospirò a sua volta. Kyte non si sarebbe voltato. Né gli avrebbe detto altro.
Ma almeno una confessione era riuscito a strappargliela.
- Ho fame. - decise, di colpo: - Quindi andrò a prendermi delle banane. -
- A-aspettate! -
Si prospettava una nottata divertente.

Sì, quella notte aveva piovuto molto.
Anche quella mattina piovve molto. Ma veramente molto. Incredibilmente molto. Sentì di sfuggita che una delle cantine doveva essersi allagata. Sempre di sfuggita, sentì che una delle carrozze che i servitori avevano avuto la brillante idea di lasciare fuori era sprofondata in almeno venti centimetri di fango. E, di sfuggita, sentì che uno dei camini al terzo piano stava vomitando acqua.
Poi si era alzato e aveva chiuso la porta, perché si era stancato di sentirsi urlare nell'orecchio cose di sfuggita.
Mezz'ora dopo, Kyte dovette giungere alla conclusione che fare lezione a lume di candela - pur essendo le dieci del mattino, almeno secondo l'orologio - era inutile e controproducente.
- Per oggi, la lezione è sospesa. - Kyte sospirò: - Non si può studiare in un ambiente del genere. -
- Infatti... -
- Questo significa che avete la mattina libera. Impiegate il vostro tempo come meglio credete. -
- Hai! - spense la propria candela, prese una penna, la intinse nell'inchiostro, recuperò un libro dalla libreria e andò sul divano a sottolineare tutte le righe di testo.
Kyte sembrava essersi dato alla pulizia completa della lavagna. Con una certa attenzione. Con tutta l'attenzione.
"... oh." tornò a guardare il libro, il cuore fremette: "... vero.". Forse quella pioggia era stata provvidenziale.
Doveva solo aspettare. Era sicuro che Kyte sarebbe rimasto nella stanza. Non sapeva come potesse esserne così certo, ma era sicuro che non sarebbe andato da nessun'altra parte. E che, anzi, prima o poi gli si sarebbe avvicinato.
Evitò di sorridere quando vide le pagine rigate illuminarsi alla luce dell'altra candela.
- Sforzate la vostra vista, così. - la voce poco convinta.
"Decisamente, un'occasione perfetta." alzò la testa: - Sono abituata a fare le cose al buio. Se però volete farmi un po' di luce, non rifiuterò di certo! - con un sorriso, accennò con lo sguardo al posto al suo fianco, vuoto.
Come previsto, dopo un attimo di esitazione, Kyte sospirò - era teso, lo sentiva chiaramente - e si sedette accanto a lui, spostando la sua gonna blu. "Ah, porto anche il vestito che avevo quando l'ho incontrato..." notò: "... è decisamente un segno.".
- Non potete delegare al vostro precettore temporaneo il ruolo di candela. - disse Kyte, all'improvviso.
- Il mio precettore temporaneo potrebbe anche rifiutarsi. - lasciò che le ciocche più lunghe gli nascondessero il sorriso.
- Il vostro precettore temporaneo sarebbe molto maleducato, se facesse una cosa del genere. -
- Allora il mio precettore temporaneo non dovrebbe neppure dirmi che non posso relegarlo a candela! - gli scoccò un'occhiata, lo vide tentennare. Era come se fosse in bilico e bastasse un soffio leggero per farlo cadere.
Strinse la presa sul libro e sulla penna. Forse anche a lui sarebbe bastato un soffio leggero.
Gli scoccò un'altra occhiata: era agitato. E quella pantomima stava diventando ridicola.
- D'accordo, basta così. - chiuse il libro, con un sorriso. Poi si avvicinò alla candela in mano a Kyte e, con un soffio leggero, la spense, lasciando cadere la stanza nel buio.
Era il bello, il buio. Preferiva l'oscurità con la luce della luna, ma anche il buio andava bene. Gli ricordava cose belle.
- Ora siamo al buio completo. - il commento di Kyte era una testimonianza del suo essere tutto tranne che rilassato.
- Sì! - posò libro e penna a terra, per poi tornare su: - Non è d'atmosfera? C'è chi si gode il canto degli uccellini e chi i suoni di una tempesta! In fondo, siamo al riparo, che male c'è? -
Non erano male, i suoni di una tempesta. Il brutto tempo fuori sembrava raddoppiare la piacevolezza del calore della casa. O di qualsiasi altra cosa fosse la causa di quel calore piacevole.
- Confesso di non essermi mai soffermato ad ascoltare i suoni della... - la voce di Kyte si abbassò fino a scomparire.
Si voltò verso di lui: appena illuminato dalla debole luce filtrata dalle nuvole, la sua espressione era di puro terrore. Quando un lampo illuminò la stanza, lo vide sgranare gli occhi in modo quasi innaturale.
"... non è che...?"
Gli posò una mano sul petto, all'altezza del cuore: sembrava gli stesse martellando il palmo. Incontrò il suo sguardo atterrito: - Avete paura dei tuoni? -
Lo vide scuotere la testa quasi a scatti: - No. No, non ne ho paura. -
- Siete pallido. - sbiancato, per la precisione. In coordinato con la divisa. "... non avevo messo in conto che potesse avere paura dei tuoni.". Forse, almeno per quella mattina, aveva equivocato tutto: "... non è che è così agitato per il tempo...? Quindi anche stanotte...?". La cosa gli dava un po' di disappunto, in realtà. Anche se era innegabile che si fosse agitato ancora di più quando lo aveva abbracciato.
Gli accarezzò una guancia, iniziando a preoccuparsi davvero: - Sicuro di stare bene? - lui non era affatto sicuro che l'altro non sarebbe svenuto lì sul posto: - Non fingete di non temere i tuoni, se non è vero. -.
Qualcosa di caldo sulla mano. La mano di Kyte su quella che aveva posato sul viso.
Trasalì, sentì le guance più calde. "Cos-" assurdo che lui arrossisse. Per una cosa così semplice. Doveva essere più in astinenza di quanto credesse.
Poi Kyte si voltò appena, e baciò quella mano.
Stavolta fu il cuore a trasalire. Quello di Kyte era fuori controllo.
"... allora non c'entrano i tuoni, eh?" quella era una buona notizia.
Tutto quello era un'ottima notizia.
Quando Kyte si scostò, tornò a guardarlo negli occhi: - Dovremmo aprire la porta. - la voce roca.
- Perché? - piegò la testa. Erano solo parole a vuoto.
- Temo che... qualcuno potrebbe pensare male. - l'altro riuscì a finire la frase con grande forza di volontà. Era palese che non volesse più parlare.
Neanche Len aveva più voglia di parlare.
"Vi siete deciso a fare la prima mossa." abbassò le palpebre, sorrise.
Era come riemergere dopo una lunga apnea. Ma non si sentiva affatto rilassato. Tutt'altro.
Si alzò in ginocchio sul divano - qualsiasi cosa si trovasse sotto la gonna iniziava a non rispondere più - e si sedette sulle gambe dell'altro; salì con la mano dal cuore alla spalla e riuscì finalmente ad assaggiare quella bocca.
Come dopo una lunga apnea. Sì. E nessun rilassamento. No.
Sentì qualcosa tirargli appena i capelli e, un istante dopo, si accorse del suo nastro che scivolava a terra, le ciocche bionde che ricadevano sulle spalle.
Sentì le labbra schiudersi, una mano sulla nuca, tra i capelli, Kyte che lo tirava a sé, mozzandogli il respiro. Gli strinse la spalla, senza volerlo. Allentò la presa, gli sfuggì un sorriso: "Non avete perso tempo.".
Quindi non vedeva perché perderlo lui. Ricambiò quel bacio, mentre la mano dell'altro andava alla sua gamba, sotto la gonna, sotto il vestito, sul busto - da qualche parte, non gli importava, poteva andare ovunque volesse e poteva anche liberarlo della tournure, del corsetto e del vestito, poteva anche lasciargli tutto e fare quel che voleva lo stesso.
Forse era lui a stargli strappando le frange dalle spalle. Ma quei momenti in cui si scostavano per riprendere aria erano quasi dolorosi. Soprattutto da quando la mano era sces-
Serrò le dita sulle spalle dell'altro, non riuscì a trattenere un mugolio.
Kyte si scostò da lui. E il suo sguardo aveva qualcosa di strano. Era confuso, ma non era la sua solita confusione.
"Non potete confondervi in un altro moment-"
- Len... - era sbiancato. Di nuovo. E sembrava avesse appena ricevuto un pugno in pieno viso.
- ... voi... siete... - "...?" - ... una donna... vero...? -
"Ah. Vero." l'altro scelse proprio quel momento per toccarlo di nuovo. Non riuscì a soffocare un altro mugolio. Tuttavia, quasi si dispiacque quando Kyte tolse la mano.
Incontrò il suo sguardo: "Siete divertente, Kyte.".
Sorrise: - Voi che dite? -.
Sembrò di toccare un pezzo di pietra. E di guardare un pezzo di pietra.
Un pezzo di pietra bianco. Per i vestiti e per la pelle. Con occhi azzurri sgranati. In modo anche troppo innaturale.
Sentì qualcosa stringergli le braccia; un istante dopo, con un'esclamazione di sorpresa, si ritrovò sprofondato nel divano: - Perdonatemi Len mi sono appena ricordato di avere un impegno urgentissimo mi stupisce proprio che me ne sia dimenticato tanto è importante perdonate i miei metodi bruschi ma devo assolutamente essere presente tra meno di cinque secondi è un impegno molto importante! - una valanga di parole lo travolse, Kyte scattò in piedi, schizzò alla porta, si azzoppò nel tragitto e strillò un: - Impiegateilvostrotempocomecredete! - prima di svanire nel corridoio.
Silenzio.
Per quanto silenzio potesse concedere la tempesta lì fuori.
Len rimase immobile, così come era stato lanciato sul divano. Sbattè le palpebre. Le sbattè di nuovo.
E scoppiò a ridere, distendendosi lungo tutto il divanetto. Si coprì la faccia con le mani, sbattè i piedi su uno dei braccioli - e quasi rotolò giù.
- Kyte... - inspirò, espirò, cercò di riprendere fiato: - ... siete... scappato? - un'altra ondata di risate lo scosse, costringendolo a bloccare qualsiasi pensiero per almeno due minuti. Alla fine, si portò le mani al petto, cercando di riportare il respiro alla normalità, gli occhi bagnati: - Questo... questo era ben oltre le mie aspettative! Immaginavo che poteste fuggire ma... così... così... così... - non riuscì a trattenersi e rise di nuovo, anche se con meno forza - la pancia e le guance iniziavano a fare seriamente male.
Non aveva parole. Non ne aveva. Era solo qualcosa da incidere nella memoria dell'umanità. Era qualcosa che non necessitava di parole, diceva tutto da sola.
Len trasse un profondo respiro, calmandosi.
- Mi avete lasciata qui da sola! - scalciò in aria, gli orli della gonna e delle sottogonne ricaddero sulla vita: - Siete una persona davvero crudele! -.
Lasciò sprofondare la testa nel divano: - Per stamattina farò da sola. -.
Era sicuro che la mattina successiva non sarebbe stato affatto così.

Kyte non si mostrò per il pranzo. E neppure per il the. E neanche per la cena.
Stando alle parole del maggiordomo, il povero signor Kyte si era sentito improvvisamente male, tanto da non avere la forza di alzarsi dal letto o di mangiare: per questo era chiuso in camera da quella mattina. La governante confermava di averlo visto con "una pessima cera" - "veramente pessima", aveva poi aggiunto.
"Oh..." Len attraversò il corridoio al buio, con tutta la calma del mondo: "... chissà se domani mattina sarete abbastanza in forze da fare lezione." sospirò, plateale.
Si fermò davanti alla camera di Kyte. Era indeciso tra il bussare o l'aprire direttamente la porta. Scelse la prima opzione - non era sicuro che la seconda non avrebbe comportato un suo fuggire dalla finestra.
Nessuna risposta.
"Sta dormendo o-" una luce alla sua sinistra, sempre più vicina. Si voltò. Non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto, ma si affrettò a mostrare la più preoccupata delle sue espressioni.
- Kyte! -
- AH! -
Evidentemente, non si era accorto di lui. Gli era parso assorto, in effetti. Tuttavia, non si aspettava che avrebbe quasi fatto cadere la candela per lo spavento. Né uno strillo di quella portata.
Posò una mano sul viso: - Che urlo virile. - non potè astenersi dal farlo notare.
Kyte non ebbe ulteriori reazioni: era immobile, la candela stretta nel pugno, il volto di granito e gli occhi di chi aveva esagerato con le tazze di caffè.
Finalmente, dopo quella che parve un'eternità, parve recuperare l'uso della parola: - Cosa... - all'incirca: - ... cosa ci fate qui? - sforzava di tenere la voce ferma ma, leggero, si sentiva un tremolio.
Len piegò la testa di lato, riesibendo tutta la sua preoccupazione: - Ho sentito che siete stato poco bene. Mi dispiace molto. Spero che ora vi siate ripreso! - sorrise: - Vi vedo meglio! - "Vi vedo fuori dalla stanza.".
- Ah... sì. - l'immagine della convinzione: - Sì, sto... meglio. Diciamo di sì. -.
- Siete riuscito ad arrivare in tempo, alla fine? -
- Prego? -
Dovette nascondere il sorriso dietro una mano: - Il vostro impegno urgente. -
Kyte tentennò: - S-sì. Sono riuscito a fare tutto. Grazie per l'interessamento. -.
Calò il silenzio. Len attese. Non c'era motivo di sforzarsi di parlare: l'altro avrebbe fatto tutto da solo.
- P-perché siete qui ora? - balbettò infatti, un istante dopo, spezzando il silenzio: - Il sole è tramontato da molto, è sconveniente farvi trovare così davanti alla camera di un uomo... -
"Chissà se si rende conto di ciò che dice..." cominciava ad avere qualche dubbio. Ma era divertente proprio per questo.
- Anche mettere le mani sotto gonne e corsetti è sconveniente, non trovate? - dieci tazze di caffè in un unico sorso, a giudicare dall'espressione dell'altro: - In ogni caso... - riportò la mano lungo il fianco: - ... sono venuta qui per sapere come stavate. -
- Di not- -
- E perché credo che domani, se mai ci sarà lezione, subito dopo voi starete di nuovo improvvisamente male e sarete costretto a ritirarvi di nuovo nelle vostre stanze. - il suo sorriso si accentuò, la faccia di Kyte era impallidita: - Quindi direi che questo sia un buon momento per parlare. -.
Il viso dell'altro, alla luce della candela, assumeva una forma grottesca: sembrava quasi una maschera da teatro antico, tanto i tratti espressivi erano esagerati.
Len ridacchiò: "E' il caso di cambiare ambiente, ora."
- Vogliamo rimanere qui nel corridoio? -
- N-no. Entrate pure. -
Dopo un istante di esitazione, Kyte gli aprì la porta della camera, lasciandolo entrare per primo. Quando sentì la porta richiudersi alle proprie spalle - e appurato che l'altro non ne aveva approfittato per rinchiuderlo lì dentro e fuggire in America - capì che sarebbe uscito di lì solo la mattina dopo. E che, prima di farlo, avrebbe dovuto rivestirsi.
Andò alla finestra: non pioveva più, ma le nuvole erano rimaste e coprivano la luna. Era una notte decisamente buia.
- Perché fate credere di essere una donna? -
"... siete davvero diretto." sospirò: "Almeno mi evitate giri di parole." si voltò verso di lui: in piedi, a pochi passi di distanza, la candela posata sul comodino.
Lo sguardo di Kyte non era più del tutto scosso: c'era dell'altro, qualcosa che si avvicinava alla curiosità e qualcosa che non riuscì a riconoscere. Non capì neppure se fosse qualcosa di positivo o negativo.
- Ricordate cosa vi ho detto a proposito delle ambizioni di mio zio Al? -
Gli raccontò tutto. Senza cercare di abbellire le parole, senza cercare di nascondere qualcosa: la pura realtà dei fatti, così com'era.
Del resto, se Kyte era tanto diretto, non vedeva motivo per cui non esserlo anche lui.
- Ma perché? -
La curiosità andava affievolendosi, man mano che veniva soddisfatta; il terrore era scomparso quasi del tutto; quel qualcosa di indefinito sembrava star prendendo il loro posto.
Kyte ascoltava ogni suo parola, lo vedeva fare attenzione ad ogni sillaba. E lo vedeva aggrottare la fronte, schiudere le labbra, interromperlo con voce sempre più insistente: - Ma... allora non potrebbero semplicemente mandarvi in convento? - o: - Se è per questo, è strano anche che una giovane in età da marito non sia neppure stata promessa in sposa. -; vedeva il suo volto assumere una strana sfumatura, un pallore che non aveva a che fare con quello precedente; vedeva i suoi pugni serrarsi, le nocche sbiancare.
Len sorrideva - era la pura realtà, in fondo.
Kyte non sorrideva. Non aveva un'espressione seria e attenta.
- Ora capite perché non potrò mai sposarmi, Kyte? - sorrise, quella era la pura realtà.
- ... sì. - la voce era un sussurro.
Un dolore all'altezza del petto. Quegli occhi azzurri erano lucidi.
"Cosa...?" - Capite anche perché i miei genitori vogliono che io sia sempre accompagnata da un uomo, anche solo per andare a fare spese in città? -
Kyte aveva chiuso la bocca, disteso la fronte. Non distoglieva mai lo sguardo da lui.
Vide le sue spalle tremare per un istante.
Anche lui tremò. "Cosa...?".
Quello non era uno sguardo di pietà. Non aveva nulla a che fare con la pietà.
Si sentì tremare di nuovo: "Perché...?"
- ... ridicolo. -
Un sibilo.
Ma gli colpì le orecchie come un tuono.
"Cosa...?" forse Kyte neanche si era accorto di averlo detto: "... che sta...?" sentì il bisogno di sedersi. Sentiva di non avere più forza nelle gambe, di colpo.
"Ridicolo...?" ripetè, i brividi lungo le braccia: "Perché 'ridicolo'...? E' giusto che sia così. E' giusto, perché è la realtà. Non c'è altro modo." scosse appena la testa, per scacciare quel pensiero: "Kyte, Kyte... non mi stupisce siate in questo stato, se pensate cose così sciocche!"
- A parte questo brutto rovescio della medaglia... - perché la sua voce suonava così strana?: - ... è divertente! Pensate a tutti quegli uomini che mi proclamano eterno amore e che mi definiscono la donna più bella che abbiano mai visto! - rise.
Lasciò che quella risata gli svuotasse la mente.
Eppure, sentiva ancora il cuore tremare.
Guardò l'altro, l'espressione disorientata. Ora era molto più Kyte.
- Anche voi avete detto di trovarmi bella! -
- S-sì. - lo vide esitare. Un attimo, dopo, la voce era seria: - Len... -
- Sì? -
- ... perché non mi avete detto... la verità? -
"... eh?" sbattè le palpebre, perplesso: "... credete che ora vi abbia mentito...?".
Lo vide sospirare, come per controllarsi: - ... se voi... se le vostre intenzioni... insomma, avete capito, no? -
- No. -
- ... mi siete praticamente saltata addosso. - "Ah, quello." - Se le vostre intenzioni erano quelle, avreste dovuto dirmi la verità! -
-Perché? -
- ... eh? -
"Voi dite 'eh?'?" - Ho sentito il vostro sguardo, Kyte. - gli ricordò, notando quel pallore da smascherato tornargli sul viso: - Di tanto in tanto, mi sembrava di sentire sguardi alquanto sconvenienti... E poi... - si avvicinò: - ... non mi siete parso così dispiaciuto, stamattina. - lui indietreggiò: - Mi siete parso dispiaciuto solo quando la vostra mano si è fatta troppo audace. -
"Mi siete parso dispiaciuto solo quando avete scoperto che io sono un maschio dopo che mi avete divorato con gli occhi e con la mente quando mi credevate femmina.".
- Ditemi, Kyte... - portò le mani dietro la schiena: - ... mi avete desiderata? -
L'altro tacque. Rispose solo dopo qualche secondo, con un sospiro, come una liberazione: - ... sì. Non immaginate quanto. -
"Oh, lo immagino." - E, questa mattina, mi avreste fatta vostra? -
Un'altra esitazione. Un'altra risposta: - Sì. -
"Ma..."
- E dunque mi avete scacciata solo perché il mio corpo non è come vi sareste aspettato? -
Kyte trasalì. Sembrava terrorizzato, ma in modo diverso da prima: - N-no... -
- Quanta convinzione nella vostra voce... - "Del resto, se foste del tutto sincero, avreste proseguito lo stesso.": - Mi fa davvero piacere sapere di essere stata desiderata come una qualsiasi donna di strada! - quel particolare lo infastidiva. Lo infastidiva molto.
- N-non è così... -
- Non vi siete fermato di fronte al mio non avere seno, non vi siete fermato di fronte ai miei fianchi dritti, siete scappato come certe mie cugine quando vedono un topo non appena vi siete accorto che c'era un qualcosa di più! - ed era stata anche una scena alquanto comica. Non fosse che l'aveva lasciato in quello stato.
- T-temo sia un po' diverso a-avere a che fare con una donna senza forme e un... ehm... - Kyte era prossimo al perdere l'uso della parola.
- Capisco. Posso immaginare come mi abbiate desiderata. - sapeva che l'altro avrebbe ceduto comunque. Ma quel particolare lo stava davvero irritando: - Di certo i vostri sogni non erano popolati da petali di rosa e bolle di sapone. -
- A dire la verità, i petali di rosa e le bolle di sapone c'erano. -
"... ah?" indietreggiò, piano: - ... ah... davvero...? - forse non era il caso di approfondire. Avrebbe lasciato che quella confessione andasse per conto suo e avrebbe fatto finta di nulla.
- Cosa vi aspettavate? - l'altro sembrava aver ritrovato la voce: - Che proseguissi come se nulla fosse? - "Sì." - Era ovvio che sarei rimasto scosso! -
- Tanto da evitarmi per l'intera giornata? -
- Sì! -
Sgranò gli occhi: "... e lo ammettete con tutto questo candore...?"
- ... insomma... - il tono di Kyte si ammorbidì, il suo solito tono: - ... non è una cosa da poco. -
- Perché? - "Non ho quattordici braccia e settanta gambe, e neppure i fianchi spinati o le dita a lama. Dov'è il problema?".
Kyte incrociò indici e medi, a forbice, come se non avesse alcuna idea di ciò che stesse facendo: - ... credo sia un problema di incastro. -
Inarcò le sopracciglia. L'altro esitò.
- Usate un po' di fantasia! - con uno sbuffo, Len si portò le mani ai fianchi: - Come credete che facciano tutti gli altri? - "Non sapete neppure le cose più basilari, Kyte! Ma dove siete vissuto finora?"
- Gl-gli altri...? -
- Beh... - si lasciò cadere sul bordo del letto - era da prima che voleva farlo e non sapeva neppure lui perché avesse aspettato così tanto: - ... le spose sono fanciulle vergini, gli sposi non necessariamente. Credete davvero che tutti loro siano stati nei bordelli o con qualche cameriera? -
- Ah... -
Len abbassò appena le palpebre: "... davvero non lo sapevate?". Non che credesse che l'altro non fosse mai stato con qualcuno - anzi, qualcuna. Il bacio di quella mattina non era il bacio di una persona che sapeva solo che la bocca era tra il naso e il mento.
- Si sa come funziona, no? - alzò gli occhi al soffitto: - Finché rimane tra le mura di casa, si può fare qualsiasi cosa. Basta solo mostrarsi bravi e buoni in pubblico e andrà tutto bene. - sentì il cuore tremare di nuovo. Quel sibilo gli attraversò la mente di sfuggita. Lo scacciò.
- ... dunque... - esordì, piano: - ... mi avete desiderata così tanto che lo scoprire il mio corpo più simile al vostro che a quello di una qualsiasi altra fanciulla ha tramutato il vostro desiderio in disgusto? -
- Non è disgusto! -
Quasi cadde dal letto per lo spavento: Kyte aveva recuperato fin troppa voce.
- E' vero, sono scappato. - le guance si erano arrossate appena, ma il tono era deciso, gli occhi puntati nei suoi: - Non sapevo come affrontarvi e vi ho evitato per tutta la giornata. - "Ammirevole lo ammet-" - E, sì, forse l'avrei fatto anche domani, per quanto la mia idea fosse parlarvi. - "Siete davvero sinc-" - Avrete avuto i vostri motivi per nascondermelo fino all'ultimo momento, fosse anche solo per prendervi gioco di me! - "Eh?" - Però... - lo vide trarre un respiro più profondo: - ... mi dispiace averlo fatto. - "..." - Sarei dovuto essere più deciso e meno vigliacco. - "..." - O, almeno, avrei dovuto riprendermi più velocemente. - "Questo sì." - E non avrei dovuto trattarvi così. - "..." - Avrei potuto rifiutarvi. E avrei dovuto. Vi credevo una donna e, per quanto le vostre intenzioni fossero chiare, non avrei dovuto accondiscendere. Mi sono lasciato trascinare e ho sbagliato a prescindere dal vostro sesso. - "... si sta...?" - E, nonostante ciò, dopo ho anche avuto il coraggio di scacciarvi come se fosse stat-... - esitò: - ... stato voi a farmi il più grande dei torti. - "..." - Voi avevate il vostro motivo, ma io non- -
- Kyte. -
Quella fiumana di parole si fermò.
- Perché vi state scusando? - sorrise. Si sentì tremare di nuovo. Ma stavolta in modo piacevole.
Tese una mano verso di lui. Voleva accarezzargli il viso.
Kyte parve capire e si avvicinò, lasciando che la mano andasse sulla sua guancia.
- Va tutto bene. Vero? - non sapeva perché la voce fosse uscita così bassa. E neanche gli importava.
- Sì. -.

Sarebbe dovuto essere felice.
Sarebbe dovuto essere soddisfatto di quella notte, sarebbe dovuto tornare in camera sua, infilarsi nel suo letto e finire di dormire lì.
E lo era, lo fece.
Ma ad ogni passo, sempre più forte man mano che si avvicinava alla propria camera, quel sibilo gli martellava la testa, quello sguardo tornava davanti ai suoi occhi.
Ridicolo.
Chiuse la porta, si sedette sul proprio letto.
Non era pietà. Quegli occhi lucidi non erano gli occhi di chi guardava una persona con pietà, che pensava "Poverino, che sfortuna!".
Erano occhi che aveva visto troppe volte perché non sapesse riconoscerli. Non aveva voluto riconoscerli. Quegli occhi azzurri, più piccoli, più rotondi, li aveva visti per tanti anni nello specchio della sua camera.
Si era chiesto se Kyte non avesse ricordato qualcosa che, chissà quanto tempo prima, lo aveva fatto piangere.
Quella notte, però, aveva sentito la sua volontà di fargli dimenticare tutto. Non per una manciata di ore. Ogni gesto sembrava dirgli "Dimentica. Per sempre.".
Ma non era un dimenticare vuoto. Sembrava gli stesse chiedendo di dimenticare solo alcune cose. Quelle che l'avevano fatto piangere tante volte davanti allo specchio.
Quelle cose che aveva definito "ridicole", quasi fossero sbagliate.
Trasalì.
"... sbagliate...?"
La cosa ridicola era pensare che fossero sbagliate. Era giusto così.
In tutti quegli anni, tutte le - poche - persone venute a conoscenza di tutto quello erano state d'accordo, avevano approvato la scelta dei suoi genitori. Ed era anche la cosa più logica: non c'era altro modo per farlo vivere se non come una donna.
Era giusto così.
Quella era la realtà. La pura realtà.
Era circondato da persone che sapevano ciò che facevano, che vivevano tra intrighi politici di ogni genere, sapevano perfettamente come comportarsi, avevano fatto tutto quello solo per proteggerlo e per permettergli di vivere.
Era giusto così.
Era l'unico modo per salvare lui e l'intero casato, per proteggerlo dal disonore, per proteggere la sua stessa vita.
La cosa ridicola era davvero pensare che tutto ciò fosse sbagliato.
Ma Kyte non poteva capire. Non poteva sapere, non sapeva niente di come si vivesse a quei ranghi. Lui viveva in un mondo diverso.
- E' giusto così. - disse: - E' giusto così. -.
Di nuovo quegli occhi. E quelle parole.
- E' ridicolo... - abbassò lo sguardo a terra: - E' ridicolo pensare che possa essere ridicolo. Io sono felice così. Anche se non posso avere ciò che voglio.
Posso avere tutto, non posso essere triste per una cosa soltanto. - inspirò: - Va tutto bene. Va tutto bene. Siete voi che non capite. -
Perché dovrebbe essere ridicolo il fatto che fosse condannato alla solitudine e all'isolamento eterni?
Poteva vivere.
Da solo.
In un luogo isolato.
Eternamente immobile.
- Siete voi a sbagliare, Kyte. - rise: - Siete voi a sbagliare. -.
Kyte era una persona terribilmente stupida, che viveva in un mondo diverso.
Voleva tornare da lui.
Tornare da lui e chiedergli di dirgli ancora quelle cose senza senso.
Che le ripetesse, che le ripetesse così tante volte da renderle concrete, come erano concrete nel suo stupido mondo.
"Per favore, portate lì anche me.".

Quando rivide Kyte, il mattino successivo, il suo cuore esplose.
Si stupì - e tranquillizzò - quando notò l'assenza di sbuffi di fumo nel momento in cui aprì bocca per parlare.
Si era anche portato una ciocca di capelli dietro l'orecchio, giusto per assicurarsi che il fumo non stesse uscendo da lì.
La cosa più interessante stava nel fatto che, nonostante l'esplosione, il cuore fosse rimasto integro: lo sentiva schiantarsi contro il torace con talmente tanta forza e precisione che avrebbe potuto disegnarne i contorni sul petto.
Non faceva male. Era solo destabilizzante.
- ... non... vi sedete...? -
- No. Grazie. Rimango in piedi. Oggi credo farò lezione in piedi. -
Anche se non si era affatto sorpreso di quella domanda - gli era apparso piuttosto palese che l'altro non avesse davvero la minima idea di come funzionasse tra due uomini - era comunque meglio far finta di essere stata una fanciulla illibata fino alla sera prima.
Dopo quella notte, Kyte aveva definitivamente smesso di fingere - male - ciò che non era neppure di sfuggita. Assumeva un'espressione seria e composta solo quando c'erano i suoi genitori nei paraggi - al di fuori dei pasti, la cosa avveniva circa zero volte al giorno.
Aveva il viso più rilassato, parlava in modo decisamente meno formale, faceva domande stupide, a volte dava anche risposte stupide, sorrideva come un idiota per la maggior parte del tempo e non si faceva scrupoli a prendergli la mano, a baciarlo, quando erano soli.
Ogni volta, sentiva il cuore fare un salto fino all'altezza del collo, colpendogli la gola. Era sicuro che, prima o poi, l'avrebbe sputato.
Non che facessero nulla di diverso dal solito: passeggiate per i prati, qualche pomeriggio in paese, qualche debole tentativo di Kyte di fargli leggere i libri piuttosto che disegnarci sopra - quando si ricordava di essere il suo precettore di giapponese, e la cosa sembrava avvenire di rado -, qualche riposo sulla riva del lago. Eppure, era quasi come se "prima" non avessero davvero fatto tutte quelle cose, come se avessero iniziato solo in quel momento. Se provava a ripensarci, le settimane precedenti gli apparivano come il racconto di una terza persona, distante e sconosciuta.
E poi, sì, Kyte non aveva il benché minimo problema a fare di giorno, da qualche altra parte, quello che facevano la notte nella sua camera.
Fu così che scoprì la sua interessante velocità nel ricomporsi e nel fingersi del tutto rilassato qualora qualcuno si fosse avvicinato loro in certi momenti.
Non tutti quei momenti, ovviamente. Ce n'erano alcuni in cui l'unica cosa da fare era chiudersi nella prima stanza vuota o spazio nascosto disponibile e sentirsi premere una mano sulla bocca.
Quando succedeva, dopo, a Len veniva da ridere.
Forse avrebbe dovuto avere paura, essere preoccupato, ma si sentiva assolutamente tranquillo.
Non che Kyte ispirasse autorità o che altro; però, trovava rilassante stare con lui, addormentarsi abbracciato a lui o con la testa sulla sua spalla, senza alcun intento erotico, o di baciarlo all'improvviso, a volte approfondendo il bacio, a volte no, soltanto perché voleva, senza alcun sottointeso.
Per Kyte sembrava essere lo stesso. Lo abbracciava, baciava, gli accarezzava i capelli, perché lo voleva e sapeva che a lui non dispiaceva affatto.
Forse era la naturalità con cui compiva quei gesti a calmarlo a sua volta, a farlo sentire tanto rilassato.
Era lì ed era felice.
Erano gli unici due pensieri che gli sembrava avere, delle volte.

Len arricciò il naso, ridusse gli occhi a fessure: - Alla signora Smith sta bene? -
Kyte mosse appena il bicchiere, tenendolo da sopra, il liquido roteò contro le pareti di vetro: - Credo di no. - un accenno di risata: - Ma non saprei, visto che non lo sa. -
- Mi sembrava strano... -
- Il bicchiere ritornerà in cucina sano e salvo. - lo sollevò come se dovesse fare un brindisi, la voce solenne.
- E il contenuto? -
- Ovviamente no. -
- Ovviamente. - ridacchiò, portò le ginocchia al petto, le circondò con le braccia.
Prima di andare sulla riva del laghetto, avevano deciso di far visita alle cucine.
Len aveva fatto sparire un indefinito numero di biscottini al burro - banane non ce n'erano e si era premurato di aggiungerne il nome con tanto di sottolineatura alla lista della spesa che aveva notato lì vicino - mentre Kyte aveva versato qualcosa in un bicchiere.
Posò la guancia sulle ginocchia, guardò al suo fianco.
Era affascinante.
Era bellissimo.
Era giallo.
Kyte ne aveva già bevuti due sorsi quando Len si decise a domandare: - Cos'è? -
- Whiskey. -
- Whiskey? - rialzò la testa, sbattè le palpebre: - Quindi quello è whiskey? -
- Già. - un altro sorso: - Ed è anche buono. -
Len rise, nascose la bocca dietro una mano: - Non ne dubito. - "E' giallo..."
- Ne volete un po'? -
Si irrigidì.
Ci mise qualche istante nel realizzare che Kyte gli aveva davvero proposto di bere del whiskey.
Scoppiò a ridere, senza togliere la mano: - Per favore, Kyte... - lo guardò, divertito: - ... non siete affatto divertente! -
- Non stavo scherzando. -
Sentì il sorriso congelarsi sulle labbra.
Guardò quegli occhi azzurri, cercò una qualsiasi traccia di risa, di scherzo, trovò solo confusione.
Abbassò la mano, piano, riportandola sulle ginocchia.
- Kyte... - distolse lo sguardo: - ... non siete divertente. -.
L'acqua del lago scivolava avanti e indietro a qualche metro da loro.
Faceva un bel suono. Era ritmico ma, a volte, qualche pezzo era appena più intenso o appena più lieve.
- Dico davvero, Len. - la voce di Kyte si era abbassata di poco, ma non aveva perso la sua tranquillità: - Ne volete un po'? -
"..."
Tornò a guardarlo.
Ancora quell'espressione perplessa.
Ridacchiò: - Le brave fanciulle di buona famiglia non bevono alcolici. - distese le gambe, scavò dei piccoli solchi nella terra con i tacchi: - Siete una persona davvero poco per bene, se offrite del whiskey ad una fanciulla con tutta questa calma. -
Quella confusione si spezzò, lasciando il posto ad un sorriso: - Perdonatemi, Len. - gli porse il bicchiere: - I bravi eredi di buona famiglia non hanno problemi nel bere alcolici. -
"..."
- ... cosa vorreste dire? - la voce era uscita atona.
Quando incontrò lo sguardo di Kyte, vide una luce di esitazione. Ma durò solo un istante.
- Quello che ho appena detto. - il suo sorriso si accentuò: - Ne volete un po'? -
"..."
Guardò il bicchiere che gli veniva porto.
E il contenuto giallo al suo interno.
Un brivido lungo la schiena, lungo le braccia.
Voltò la testa.
- Le donne non bevono alcolici. -
Una fitta allo stomaco.
- Voi ne volete un po', Len? -
Un altro brivido.
Tornò a guardare il bicchiere.
Sentiva improvvisamente la gola secca.
"... non posso." strinse i pugni, strinse la stoffa della gonna: "Non devo.".
Inspirò.
Una scena simile, in un libro, avrebbe descritto lui come un'ingenua ragazza troppo curiosa e Kyte come un demonio che, con le sue mani ricoperte di squame di serpente nascoste sotto i guanti del colore della notte, gli offriva il frutto del peccato con un sorriso all'apparenza di puro miele, ma che in realtà era vizioso fiele.
Non sapeva se trovare più disturbante delle mani squamose o la possibilità che Kyte impersonasse un demonio consapevolmente e con successo - non con quel sorriso gentile, non con quell'espressione stupida.
E poi...
"..."
Allungò una mano. Afferrò il bicchiere.
Il cuore sobbalzò.
"Solo un sorso."
Lo portò alle labbra.
Bevve.
Si sentì incendiare dall'interno.
Scostò il bicchiere.
Il vetro era freddo, la bevanda era fredda, eppure aveva sentito un'improvvisa ondata di calore, dallo stomaco a tutto il resto del corpo, fino alle punte delle dita.
"... questa cosa non ha senso."
- Com'è? -
Riportò lo sguardo su Kyte.
"... com'è, in effetti...?"
- ... caldo. -
Una risata leggera: - Difatti l'inverno è l'ideale. -
- Ma ora fa caldo. E questo mi fa sentire ancora più caldo. - ne bevve un altro sorso. Il fuoco si fece più intenso.
- Eh? - la voce di Kyte era improvvisamente esitante: - Ehi, ora non bevetevelo tutto voi! -
Lo sentì avvicinarsi, finché non sentì una mano su un polso.
Abbassò il bicchiere e lo guardò di nuovo. Sorrise: - Avete detto "un po'". -
- Non "tutto"! -
- Guardate quanto ce n'è! Un paio di sorsi è molto meno di "un po'"! -
- Eh? -
Era buona, quella bevanda gialla.
L'unico problema stava nel fatto che ora aveva caldo sia dall'interno che dall'esterno.
"Posso bere seduta con le gambe in acqua!"
- Len? Dove state andando? Ehi... ehi! Tornate qui! Quel bicchiere è mio! -
"Solo per oggi..." un altro sorso, stavolta appena un assaggio: "... solo per oggi, io..." un altro sorso, almeno mezzo dito di whiskey.

Era bello.
Era bello ed era ridicolo.
Era felice in quel mondo tanto ridicolo.
Kyte rendeva ogni cosa semplice. Non c'era da pensare, da preoccuparsi, da ipotizzare: le cose erano così, semplici, dirette.
Era bello, quel mondo tanto stupido, tanto limpido, insieme ad una persona così stupida da stupirsi di cose ovvie.
Ma aveva la sua logica. Il suo mondo aveva troppe zone in ombra perché potesse essere compreso da una persona del genere.
Gli sarebbe piaciuto essere tanto stupido.
Smettere di pensare. E di ripensare.
E di accettare.
Sapeva che Kyte stava sbagliando. Lui non poteva comprendere la verità delle cose - era probabile non ne fosse fisicamente in grado.
Però gli piacevano quelle parole senza senso.
Gli piaceva cullarsi nell'illusione che il suo mondo non avesse senso.
Che fosse sbagliato rimanere lì per sempre, immobile e immutabile.
Che non fosse vero che il suo destino fosse legato a quell'edificio e a quei vestiti che tanto amava.
Sicuramente, Kyte era cambiato molte volte. L'aveva capito fin da quando aveva letto quei documenti nello studio di suo padre.
Era logico che non potesse capire, che desse per scontato che la stessa cosa valesse per lui.
E a Len piaceva davvero pensare di poter distruggere quell'immobilità.
L'aveva fatto, una volta.
Anni prima.
Li ricordava, quei sottili rivoli di sangue, i pezzi del suo corpo sparsi per il pavimento.
Ed era rimasto uguale a prima.
Forse avrebbe potuto distruggere di nuovo quell'immobilità.
E avrebbe rivisto la stessa identica cosa.
Ormai era diventato una cosa sola con quel mondo immobile.
Forse avrebbe fatto male.
Per questo era così bello continuare ad illudersi in quel riflesso ridicolo.

- E quel budino era davvero buonissimo! La signora Smith dovrebbe farlo più spesso! - sorrise, strinse il pupazzo a sé: - Poi... poi... - guardò il soffitto, cercando di ricordare gli avvenimenti di quella giornata.
- Ah, sì! - tornò a guardare lo specchio: - Ho scoperto che Kyte ha ventuno anni! Ventuno! - se li portava decisamente bene: - Buffo pensare abbia solo due anni in meno di Gakupo! -.
Silenzio.
"..."
- ... Gakupo. -
Lo specchio ricambiò il suo sguardo perplesso.
- ... -
Gli sembrò di svegliarsi dopo un lungo sonno.
Ma non era dispiaciuto. Né intimorito, o preoccupato.
Era solo disorientato.
- ... quanti giorni sono che non penso a Gakupo? -
"Quante settimane sono che non penso a Gakupo?".
Piegò appena la testa di lato.
- ... quante settimane mancano al vostro ritorno, Gakupo? -
"Quanti mesi mancano al vostro ritorno, Gakupo?"
Quanto tempo era trascorso dall'arrivo di Kyte?
Sbattè le palpebre.
- ... quando voi tornerete... - fissò quegli occhi azzurri: - ... Kyte dovrà andarsene? -
Gakupo sarebbe tornato da lui.
Ma Kyte se ne sarebbe andato.
Forse non l'avrebbe mai più rivisto.
Rabbrividì.
- ... non voglio che Kyte se ne vada. -
"Kyte non vuole andarsene. Anche Kyte vuole rimanere qui. Con me. Lo so."
C'erano delle parole che non gli aveva ancora detto.
Gliele diceva ogni giorno con ogni gesto, ma non le aveva ancora sentite pronunciare.
Sapeva che era questione di tempo.
Avrebbe aspettato.
- Anche Kyte vuole rimanere qui. -
Sentì le labbra tirare.
Lasciò libera la risata.
- E poi, non l'avete detto anche voi, Gakupo? - sorrise: - Non posso plasmare la mia vita sulla vostra. -
Accarezzò la testa del pupazzo.
- Kyte... - sfiorò l'orecchio di stoffa con le labbra: - Volete rimanere qui con noi? -.

Sbuffò.
"Il signor Anderson è un maleducato!" avanzò con i pugni sui fianchi, il naso all'insù: "Non si tratta così una povera fanciulla!".
Era davvero di cattivo umore.
Non poteva neppure andare a protestare da sua madre.
- Cos'ha fatto il signor Anderson di così maleducato? -
- Mi ha detto che non posso salire sul tetto perché è pericoloso! -
- ... torna a giocare con i libri, Len. -

La scena sarebbe andata all'incirca così - forse perché era già successo tempo prima.
Detestava quando non gli facevano fare ciò che voleva.
E poi si ritrovava di cattivo umore.
E niente e nessuno poteva smuoverlo da-
- Len, è arrivato un invito da parte dei conti Tibirsh. -
Sua madre, la lettera tra le sue mani, fu una sorta di apparizione angelica.

Il ballo dai conti Tibirsh.
Subito dopo la prima volta, aveva sperato per giorni di ricevere un altro invito simile; con il passare del tempo, aveva finito con il metterlo un po' da parte nella mente, ma non aveva mai abbandonato la speranza.
E, finalmente, quell'invito era arrivato.
Ci sarebbe stata quella perfetta torta di banane, ne era sicurissimo.
E ci sarebbe stato il valzer.
I conti Tibirsh erano famosi per la scaletta dei balli.
"Un valzer..."
Stavolta, non ci sarebbe stato Gakupo.
"Danzare un valzer con Kyte..."
Stavolta, si premurò di far modificare un kimono in modo da renderlo più comodo - anche se poi dovette sopportare tutti i: - Ma è così necessario che le maniche siano qualche centimetro sopra la pelle? -, frase ripetuta fino allo sfinimento da all'incirca chiunque.
Voleva danzare un valzer con Kyte.
E Kyte era più basso di Gakupo.
Potevano prendere le posizioni senza mettersi sulle punte, o piegarsi.
"Voglio che sia tutto perfetto." fece una piroetta davanti allo specchio, la gonna rosa si alzò appena, per poi ricadere a coprire le caviglie: "Il valzer che ho danzato con Gakupo voglio danzarlo con Kyte.".

E lo fece.
Niente movimenti goffi, niente vestiti pesanti, niente piedi doloranti.
In realtà, quando danzò, non si curò affatto di star finalmente facendo un valzer come si doveva.
Voleva solo continuare a danzare in eterno, in quella sala gialla, con quei fiori gialli, con quella torta biancagialla, in quel mondo tanto bello.
Danzarono un valzer, sotto gli sguardi di tutti.
Danzarono un altro valzer, fuori dagli sguardi di tutti.
Quando furono a casa, Len attraversò i corridoi che lo separavano dalla stanza di Kyte.
Voleva solo continuare a danzare in eterno, in quel mondo tanto bello.

- I nobili sono strani. -
- Anch'io? - sussurrò, le dita tra i capelli di Kyte.
- Soprattutto voi. -
Ridacchiò.
- Anche voi? -
Incontrò quegli occhi azzurri.
Sgranati.
Increduli, come quando veniva platealmente smascherato.
- ... c-cosa? -
Non riuscì ad impedire al suo sorriso di accentuarsi: - Anche voi siete strano, Lord Sheeawn? -.
Ci aveva pensato, negli ultimi tempi.
Quel mondo era così limpido e senza ombre che era un peccato lasciarne una così evidente.
- ... da quanto lo sapete? -
Voleva che Kyte gli dicesse ogni cosa. Voleva sentirlo dalla sua voce.
- Io da un po'. Anche se, quando siete arrivato, non lo sapevo. I miei genitori lo sapevano da prima. Si fidano di Gakupo-sensei ma, come dire... - cercò delle parole adatte: - ... un po' di informazioni in più non dispiacciono. -
Voleva sapere del suo passato, dei suoi cambiamenti, del suo rapporto con Gakupo, di lui.
- Io l'ho scoperto perché ero curiosa. -
- Perché? -
Il petto contro il suo corpo, sentiva il suo cuore battere più forte. Gli sembrava anche che il suo viso fosse più pallido.
Di certo, riusciva a vedere un curioso contrasto di esitazione e rassegnazione sul suo volto, nei suoi occhi.
- Ricordate quando vi diedi il permesso di chiamarmi solo con il mio nome? -
Era bello passargli le dita tra i capelli. Erano corti, riusciva a prenderne facilmente le ciocche, i movimenti erano più lenti, rilassanti.
Gli rivelò della sua curiosità, di come avesse scoperto la verità, anche dell'infamante detto che conteneva il suo cognome modificato.
Fu attento a mettere quanti più particolari possibili.
Voleva un racconto altrettanto dettagliato.
Quando finì di parlare, Kyte esaudì la sua richiesta.
Man mano che narrava, lo sentiva irrigidirsi, lo sentiva tremare.
Non sapeva perché ma, ogni volta, sentiva una fitta al cuore.
Continuò ad accarezzargli i capelli, gli baciò la fronte. Voleva che continuasse a parlare, ma non voleva che continuasse a tremare.
Ogni tanto, quando sentiva la sua voce abbassarsi troppo, lo interrompeva commentando.
Kyte gli disse le stesse cose che aveva letto in quei documenti. Ma gliele disse in modo diverso.
Si era agitato, quando aveva letto quelle cose. Ora non sapeva neppure cosa stesse provando. Qualsiasi cosa fosse, non era una bella sensazione. Non era affatto pentito di averlo spinto a raccontargli tutto. Però aveva iniziato a pensare che forse quei brividi freddi non erano tutti di Kyte.
Gli accarezzò il viso, lo sentì stringersi a sé.
Non gli piaceva il tono di voce che stava usando.
Non gli sarebbe piaciuto vederlo piangere.
- Non ho idea di come facesse a sapere che fossi lì. - una risata leggera, un po' strana: - Me lo sono ritrovato vicino, mi ha gentilmente scansato e ha preso il mio posto. -
"Eh?" - Chi? -
- L'integerrimo signor Kamui, ovviamente. -
"Oh."
Non fece in tempo a pensare a come il discorso fosse effettivamente finito su Gakupo, perché Kyte gli confermò subito che, sì, aveva abitato per quasi un anno in una casa di proprietà dell'altro.
Gakupo, che aveva salvato e aiutato Kyte.
- Conoscete da molto Gakupo-sensei? -
La risposta arrivò dopo un attimo di silenzio: - Dodici anni. - e lo colse di sorpresa.
- Davvero? - una nota appena più alta di quanto avrebbe voluto.
"Così tanto? Non pensavo si conoscessero addirittura dall'infanzia..."
I loro padri si conoscevano, erano in trattative.
E, dalle parole di Kyte, sembrava anche che fossero praticamente cresciuti insieme.
Il cuore trasalì.
- Dunque voi e Gakupo-sensei siete molto amici? -
Lo sentì battere più forte.
- Mi fido di lui. - Kyte sorrise, per la prima volta da quando aveva iniziato a raccontare, e non c'era nessuna traccia di malinconia o tristezza: - Sa sempre trovare una soluzione ad ogni problema e, anche se a volte è un po' noioso, so che posso contare su di lui. -
"Già..."
- E poi, se gli si affida qualcosa, potete star certo che la difenderà ad ogni costo! Se fosse un oggetto materiale, gli affiderei la mia vita senza neppure starci troppo a pensare! E' uno che prende sul serio praticamente ogni cosa, sapete? -
Il resto delle parole di Kyte giunse quasi indistinto.
Non aveva parlato in modo altisonante.
Non aveva posto alcuna enfasi.
Aveva davvero detto, con tutta quella naturalezza, che avrebbe affidato la sua vita a Gakupo senza alcuna esitazione.
Il cuore batteva davvero troppo forte.
Voleva baciare Kyte.
Voleva che rimanesse lì per sempre, insieme a lui, insieme a Gakupo.
- Siete davvero divertenti, sapete? -
Voleva che anche Gakupo rimanesse lì per sempre, insieme a lui, insieme a Kyte.
- Divertenti...? -
- Sì! - nascose la bocca dietro la mano libera: - Voi e Gakupo-sensei! Siete davvero divertenti! Lo siete singolarmente, ma credo che anche insieme siate molto divertenti! -
E anche loro lo volevano.
Volevano diventare una sola cosa con lui.
Diventare come lui.
Baciò Kyte.
Lui lo spronava a dimenticare le cose tristi. Ora voleva essere lui a farlo.
- Mi dispiace avervi fatto ricordare cose che avreste preferito tacere. - sussurrò sulle sue labbra: - Per me non sarete mai Lord Sheeawn, se non lo desiderate. -
Non sarebbe più stato triste.
Né lui né Kyte.
E Gakupo sarebbe stato con loro.
Loro tre, insieme, come una cosa sola.
L'ultimo ostacolo alla loro felicità erano i loro mondi.
Le loro convinzioni, la loro fiducia, i loro legami.
Sarebbero diventati come lui.
Perché lui sarebbe stato l'unica cosa eternamente integra nei loro veri mondi.
Ora aveva trovato il modo di distruggere l'ultimo ostacolo alla loro felicità.

Quelle parole, finalmente, le udì.
Chiare, limpide, come ogni cosa in quel mondo ridicolo e splendido.
Sapeva che le avrebbe sentite, prima o poi.
Era certo le avrebbe accolte con un sorriso di circostanza, senza scomporsi più del dovuto, perché già sapeva.
Quando le udì, non pensò a niente.
Desiderò solo che ogni cosa si fermasse in quel preciso momento, per sempre.

Non aveva sinceramente idea di quanto tempo fosse trascorso.
- Il signor Kamui è tornato in Inghilterra ieri mattina. Tra due giorni verrà qui a farvi visita. -
Avrebbe potuto dire, letteralmente, di essersi svegliato in una bella giornata di sole e aver scoperto che erano trascorsi sei mesi.
Sei mesi dalla separazione da Gakupo.
Sei mesi dall'incontro con Kyte.
Gakupo stava per tornare da lui.
Kyte stava per allontanarsi da lui.
- Gakupo-sensei è tornato, signor Kyte! E sarà qui tra due giorni! Non siete felice? -
Gakupo voleva tornare insieme a lui.
Kyte voleva rimanere insieme a lui.
Avrebbe riaccolto Gakupo in casa, perché lo voleva anche lui.
Avrebbe esaudito il desiderio di Kyte, perché era anche il suo.
- Voglio che la casa sia perfetta per il suo ritorno! -.






Note:
* "Bambole": Dolls, cantata solo da Len.
... che in realtà, quando lo scrissi per la prima volta, capitoli fa, non ricordavo ci fosse una canzone con questo titolo. *E' stato... uhm, particolare, riscoprirlo.*
Tra l'altro, l'immagine di Dolls nel libretto del CD vede Len sposa angsterotichorror. *Mumble.*
* Nel pianoforte, i tasti a sinistra emettono i suoni più bassi, quelli a destra i più acuti.
* Il "pigiama" maschile consisteva in una camicia da notte piuttosto larga lunga fino alle ginocchia. E basta.
* "Per favore, portate lì anche me.": Fate: Rebirth.
[Per favore, porta anche me in quel posto] [Traduzione]




Ero sicurissima di aver aggiornato a Luglio.
Potrei dire di non aver calcolato che il capitolo-a-specchio di Kaito sarebbe venuto così lungo da costringermi a dividerlo. Potrei dirlo, ma sarebbe scontato.
*nota torce e forconi in avvicinamento*
Ma il prossimo capitolo è già scritto e vi posso assicurare che finalmente il flashback finisce! *O*/ *A fine prossimo capitolo. Siamo specifici e non diamo false speranze. (!)*

Spero davvero di essere riuscita a rendere il rapporto tra Len e Kyte. °A°" Ho tagliato/riassunto tutto il tagliabile/riassumibile, spero di averlo fatto in modo decente - e che non risulti un grosso découpage mal riuscito. °A°
Spero anche di essere riuscita a far vedere la "differenza" tra Kyte e Gakupo. °A°
Comunque sì, questo capitolo era Kytecentrico, il prossimo è... ehm... ImitationBlackcentrico. (?) *Con molta insanità mentale. E deliri. Soprattutto deliri.* *Più del solito, sì.*

Due piccole note sulla scena del whiskey: il primo è che pare che le banane siano dei perfetti frutti anti-sbronza *dunque Len sarebbe completamente immune all'ubriacatura...?*; il secondo è che, in un modo assurdo&contorto, sono finita con l'infilare il Kaito demone (?) pure qui. *Questa cosa non ha senso.*

Eee, ultimissima cosa.
... pare che, dopo due anni, Natsu abbia recuperato i VanaN'Ice. Non proprio del tutto ma, un mese fa, se n'è uscita con un miniCD con due canzoni (Aya shigure e Increase, quest'ultima solo di Len - ma pare ci sia il coro di Kaito e Gakupo...?), per poi metterle nel CD che ha rilasciato qualche settimana fa (insieme a Blue Salvia, la cover con i VanaN'Ice di una canzone che aveva scritto per l'Utaite Mi-chan).
... sono rimasta colpita. Non sono ancora riuscita a sentire nessuna delle tre canzoni ma, dalla crossfade, Increase sembra puccizuccherosissima e, soprattutto, Aya shigure interessante. Sarebbe carino se ci facessero dei PV. Tipo. */fine delirio mistico*
*Avrebbe voluto inserirle come citazioni, ma né qui né nel prossimo capitolo c'era spazio materiale. Forse nell'ultim- ultimo? *Argh**

Un biscotto premio a chi è riuscito ad arrivare fin qui senza fare pause.
Evito di allungare ulteriormente questa cosa infinita. U.U"
Come sempre, spero che questo capitolo non vi abbia risucchiato tutti i sali minerali vi sia stato di gradimento. ^^
Se ci sono consigli o critiche, dite pure. ^^
  
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