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Autore: theIrydioner    27/08/2014    3 recensioni
"Siamo fatti anche noi della materia di cui sono fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita." (W.Shakespeare)
OS sospesa tra sogno e realtà, presente e passato, in cui le vite dei fratelli York s'intrecciano e si rincorrono, mentre inseguono ciascuno il proprio destino.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edmund Plantagenet, Edward Plantagenet / Edward IV, George Plantagenet, Henry Tudor/ Henry VII, Richard Plantagenet / Richard III
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Gli occhi di George si aprono di scatto nel buio all’ennesima gomitata appuntita nello stomaco che riceve quella notte.
Non è riuscito a chiudere occhio per un solo momento, e non certo per mancanza di stanchezza – è sempre stato un ragazzino agitato, e le sue energie vengono spese completamente, senza riserve, in ogni cosa che si mette in testa di fare – o di comodità del soffice letto di piume. L’ospitalità del Duca Philip nei confronti dei suoi due cuginetti fuggiaschi è degna della fama della corte borgognone, più sontuosa e magnifica di qualunque sua luccicante immaginazione (e la mente di George non teme certo di sognare in grande); eppure egli si chiede corrucciato per quale motivo, con tutti i favori che egli gli ha dimostrato, trattandolo in modo più adulto di chiunque altro riesca a ricordare, il duca lo costringa a condividere ancora il letto con suo fratello come un infante.
Accanto a lui, un gemito strozzato si leva dalla gola di Dickon, e lo sguardo di George si sposta irritato sulla sua esile forma irrequieta che si rivolta su se stessa per l’ennesima volta nel giro di pochi minuti.
Che diavolo gli prende? Divide il letto con Dickon da che ha memoria, e mai ricorda di averlo visto dormire in altro modo che placidamente rannicchiato dal proprio lato del materasso, immerso in un sonno profondo e tranquillo che gli ha sempre reso la vita facile ogni volta che gli saltava in mente di rubargli le coperte, o di infilargli qualche sorpresa sotto il cuscino – un gioco cui neanche le leggendarie ramanzine di sua madre la Duchessa erano in grado di fargli rinunciare. Se questo è il modo di Dickon di vendicarsi per gli scherzi subìti, ebbene, non è affatto divertente…
Proprio in quel momento, suo fratello caccia un grido e si leva a sedere all’improvviso, tremante di spavento. George riesce quasi a vedere i suoi grandi occhi blu-grigi sbarrati nell’oscurità mentre si guarda intorno spaesato, li vede fissarsi terrorizzati su di lui – prima di restare totalmente di stucco quando Dickon, il suo fratellino così riservato, getta ogni rimasuglio di dignità alle ortiche e gli si slancia contro, abbracciandolo stretto.
“Ma che fai?! Lasciami in pace!” Lo shock rende la sua spinta istintiva un po’ troppo veemente, e Dickon finisce oltre il bordo del letto su cui era già pericolosamente in bilico, cadendo a terra con un tonfo – ma senza un solo lamento.
La fitta di senso di colpa che assale George è istantanea, ma il suo orgoglio domanda prepotentemente di essere conservato, perciò rincara la dose. “Ben ti sta per non avermi lasciato dormire tutta notte!” gli urla, impietoso, girandosi dall’altra parte mentre riaffonda ostinatamente la testa nel cuscino.
Ma George non è davvero così senza cuore, anche se spesso vorrebbe farlo credere, e presto la preoccupazione l’ha vinta sul possibile orgoglio ferito.
“Dickon?”
Sul pavimento, suo fratello è accartocciato su se stesso, il volto nascosto contro le ginocchia, e il suo respiro irregolare e affannato gli dice che sta cercando disperatamente di non piangere.
“Ho…ho visto Edmund,” mormora in un singulto. “Giocavo nella neve, ma poi la neve era rossa…e lui gridava, gridava così forte…”
Edmund. Per un istante George lo rivede come lo rammenta – biondo, alto, ridente mentre fingeva di essere colto di sorpresa dall’assalto combinato alle spalle dei suoi due fratelli minori; un pomeriggio spensierato trascorso nei boschi intorno a Ludlow, con Ned sparito chissà dove all’inseguimento della servetta di turno, e lui e Dickon intenti ad occupare in modo molto diverso il tempo del loro paziente fratellone…e il ricordo è una pugnalata quasi più mortale dell’altra immagine che ha tormentato anche i suoi, di sogni – lo stesso volto sorridente appeso in alto, in alto sulla sua testa, sorretto da una picca insanguinata…
In un attimo le coperte sono gettate con noncuranza di lato, e George si ritrova per terra a sua volta, a stringere di propria iniziativa Richard, in un gesto senza precedenti, in un abbraccio ancor più soffocante di quello di cui è stato oggetto poco prima; al tempo stesso consolatore e in cerca di consolazione. In quel momento è grato, immensamente grato per il fratello che solo qualche minuto prima aveva desiderato scomparisse da quella stanza; il fratello senza cui non sa come starebbe affrontando tutto questo.
Qualunque cosa accada, potranno sempre contare l’uno sull’altro.
“Ned gliela farà pagare a quel demonio,” sussurra cupo contro la zazzera scomposta di riccioli scuri di Richard. “Vedrai.”
 

 
*
 

Il contatto con l’aria gli pizzica il viso; e il duca, armato di tutto punto, si chiede perché il sole sia così innaturalmente abbagliante, tanto da costringerlo a schermarsi il viso con la mano inguantata di metallo.
La risposta è davanti ai suoi occhi – non è il sole, sono tre soli.
Rischiarato dalla loro luce calda, rassicurante, tutto intorno a lui pare più vibrante, intenso, pieno di vita; il verde dell’erba che ricopre la collina brillante, il cielo di un azzurro profondo, e le fronde degli alberi cariche di frutti maturi e colorati.
Poi, all’improvviso, qualcosa di terribile accade. Il sole centrale tenta di farsi più luminoso, di sottrarre luce ai suoi gemelli; il chiarore si fa ancora più violento, e gli occhi del duca iniziano a bruciare, a ferirlo, ma non riesce a staccarli dallo scontro degli astri sopra il suo capo. Ciò che prima sembrava l’immagine perfetta dell’armonia si è trasformato in un campo di battaglia – scie luminose si rincorrono e si scontrano tra l’uno e l’altro sole, come tante palle di cannone infuocate; e il calore da essi sprigionato è come un incendio che brucia l’intera distesa d’erba, uccide gli alberi e consuma i loro frutti.
E il sole centrale, che ha spezzato l’equilibrio, sta perdendo. Gli altri due soli convergono su di lui, minacciosi, fino a inghiottirlo; e tutto finisce. Parte di esso esplode in mille pezzi, che piovono sulla testa del duca come tante insistenti goccioline.
Solo quando li guarda cadere a terra si accorge che essi in realtà sono frammenti di uno specchio. Moltiplicata all’infinito intorno a lui, l’immagine del suo volto lo fissa attonita da ciascuna delle schegge di sole.
 
Il Duca di Clarence si sveglia di soprassalto, disorientato, accolto di ritorno dal mondo dei sogni dal rumore distante delle onde che filtra dalla finestra, e dalla sensazione leggera di morbidi capelli scuri sparsi sul suo petto. Una mano delicata si fa strada timidamente lungo la sua clavicola, e quando abbassa lo sguardo accanto a sé George incontra gli occhi tesi di Isabel.
“George? Va tutto bene?”
Isabel…sua moglie. Ora ricorda; sono a Calais e lui l’ha sposata quel giorno, legandosi indissolubilmente alla causa di Warwick, pronto a muovere contro suo fratello il Re per prendere il posto che gli spetta – il posto cui Edward ha perso ogni diritto nel momento in cui ha accolto nel proprio talamo nuziale quella donna.
Sorride tenero alla sua nuova moglie, tutta occhi grandi da cerbiatto e pelle di porcellana che riflette pallida i raggi lunari; pare lei stessa la Luna in persona, una splendida Selene. Se c’è una donna che merita di essere regina, pensa, eccola lì, tra le sue braccia – non certo quell’avida vedova paesana, lei e tutti i suoi parenti arrampicatori sociali, che porteranno l’Inghilterra alla rovina in modo affatto diverso dalla malfamata Regina Cattiva incubo della sua infanzia. Quello di Ned è un imperdonabile tradimento – Ned che dopo tanti sforzi e sangue e voti solenni di fare giustizia ha tradito tutto ciò per cui ha lottato, scambiando una sgualdrina d’Anjou con una Woodville; né George riesce a credere che Dickon abbia potuto scegliere di restare al suo fianco, fedele come un cagnolino, preferendo Ned a lui, quando oltretutto sa perfettamente di non essere mai stato l’unico figlio di York a desiderare una fanciulla Neville per sé.
No, erano i suoi fratelli a sbagliare; e presto George l’avrebbe fatto loro capire.
“Solo un sogno, mia cara. Niente d’importante.”
Non dà tempo a Isabel di replicare, catturandole la bocca in un bacio deciso mentre le sue mani si fanno nuovamente audaci sotto il lenzuolo.
Io ti darò una corona, mia cara, pensa, mentre lascia che la ragazza-luna sotto di lui cancelli dalla sua mente i tre soli del suo sogno.
 

 
**
 

È piuttosto ironico, pensa Ned. Quella sera i festeggiamenti per il compleanno del suo Edward si sono protratti per le lunghe; ed è stato così felice di poter riavere a corte accanto a sé, seppure per poco prima che Anthony lo riporti con sé a Ludlow, il suo piccolo principe, di poter costatare quanto sia cresciuto. Forse anche troppo felice – perché si è preso una delle peggiori sbronze della sua vita, e Dio sa che le occasioni per stabilire record elevatissimi in tale ambito alla sua corte non mancano di certo. Quando la sua stanza da letto è stata invasa dalle sue bambine, venute a salutarlo prima di essere messe a letto, è stato vagamente consapevole del loro disappunto nel trovarlo accasciato sul letto e a malapena in grado di muovere un dito; perciò ora trova totalmente assurda la propria lucida cognizione di stare sognando.
Sta passeggiando nei giardini di Westminster, ma sente di non stare facendolo per piacere; sta cercando qualcosa – o qualcuno. Quando sente una vocetta canticchiare tra sé poco più avanti, con pochi passi delle sue gambe lunghe raggiunge il roseto, ed ecco l’oggetto della sua ricerca inconsapevole: è una bambina in abiti da principessa, no, da piccola regina, intenta a giocare con una bambola di pezza tra le rose.
Bess? Eppure i capelli che le scendono in morbidi riccioli lungo le spalle sono troppo biondi perché siano quelli della sua primogenita, troppo luminosi, quasi argentei…
Un dubbio lo coglie mentre le si fa più vicino, cauto a non spaventarla, dubbio che viene fugato immediatamente quando ne scorge gli occhi, verdi e penetranti come quelli di un gatto – questa non è sua figlia, ma un’inedita versione in miniatura dell’omonima signora madre di Bess, sua moglie Elizabeth.
Una risata spontanea sale alle labbra di Ned. Mai avrebbe immaginato di vedere Lisbet in una veste tanto apparentemente innocua, le sue iridi verdi due specchi d’innocenza e non di sottile calcolo politico – e, divertito, pensa che non le si addica per nulla.
Anche la bambola tra le braccia della piccola, realizza, gli è curiosamente familiare. Capelli biondi sotto a una corona gemmata, e abiti di velluto rosso che ha visto identici soltanto poche ore prima: è un’immagine perfetta del suo Edward, e Ned trova ancora più ironica la scenetta che si sta svolgendo di fronte ai suoi occhi – di questa versione bambina di sua moglie che gioca a fare la madre con il loro figlio. Il reame dei sogni è certamente una landa bizzarra…
A quanto pare, però, la sua mente ha deciso che per qualche motivo questa riunione famigliare non è ancora al completo, poiché una terza figura minuta fa capolino in quel momento dai vialetti in mezzo al roseto a completare il quadretto, aggrottando la fronte da sotto il cespuglio scomposto dei suoi riccioli scuri alla vista di Elizabeth. Un sorriso istantaneo fiorisce sulla bocca di Ned nel riconoscere Dickon come lo ricorda – uscito da un tempo, ormai quasi più irreale del sogno che lo tiene prigioniero, in cui lui era soltanto Edward, conte di March; e lo assale un moto dello stesso, fiero affetto protettivo che ha sempre provato nei confronti di quel bambino esile ma determinato, che lo guardava ogni volta come se davvero lo credesse la nuova incarnazione in terra di San Michele o San Giorgio.
Nostalgico e incuriosito, lo studia mentre si avvicina con passi misurati alla bambina bionda; e poi, tutto a un tratto, il ragazzino si esibisce in un’azione così totalmente contrastante con tutto ciò che è Dickon, sempre così riservato, quieto e cortese, da far sobbalzare violentemente persino un uomo grande e ben piantato come lui.
Attonito, Ned lo osserva avventarsi rapace su Lisbet, come un falco in vista di una preda a portata di artiglio, ingaggiare con la bambina una lotta furibonda per il possesso della sua bambola vestita di broccato ed ermellino. La copia in miniatura di sua moglie si difende con ostinazione, strillando oltraggiata, strattonando febbrilmente a sé quel povero piccolo principino di pezza, determinata a non lasciare andare il suo giocattolo per nessun motivo al mondo, conficcando le piccole unghie nel suo mantello…
Un secco, terribile rumore di stoffa lacerata, ed è tutto finito.
La bambina cade a terra in un tonfo sonoro, e i grandi occhi verdi le si riempiono di lacrime nell’accorgersi che tutto ciò che ora stringe tra le mani è un braccino della sua bambola, strappato con violenza all’altezza della spalla. Non può vedere il modo sprezzante con cui Dickon non la degna neanche di uno sguardo, intento solamente a rimirare il proprio trofeo…o più precisamente, il suo più scintillante ornamento.
Una sorta di fascino inorridito impedisce a Ned di distogliere lo sguardo da quel bambino così familiare e al tempo stesso così spaventosamente estraneo, mentre solleva, improvvisamente solenne, la coroncina dai capelli biondi della bambola per sistemarla sul proprio capo. È troppo piccola per potergli cingere la fronte; ma l’oro scintilla abbagliante sulla sua testa, brillante in contrasto con le onde dei suoi capelli scuri, e pare irradiare di luce e di fermezza tutta la sua figura minuta.
Le labbra di Dickon s’increspano in un sorriso d’orgoglio.
Rotta e già dimenticata, la bambola rotola abbandonata ai suoi piedi.
 
Edward si sveglia accolto da una cacofonia di fitte lancinanti a trapassargli la testa come spilli roventi non appena tenta di aprire gli occhi sulla luminosità abbagliante del mattino, che inonda impietosa ogni angolo delle stanze reali e del letto del cui baldacchino si è dimenticato, nell’ebbrezza della sera prima, di tirare le tende. Il primo oggetto che riesce a mettere a fuoco, quando finalmente i suoi occhi arrossati si abituano alla luce, è la caraffa di vino svuotata fino all’ultimo goccio e rovesciata di malagrazia sul suo tavolino da notte.
Si scherma gli occhi con un grugnito. Grazie al cielo almeno ha avuto il buonsenso di non barcollare fin nel letto di Elizabeth quella notte. Se l’avesse sorpreso al risveglio da quell’assurdo delirio notturno non l’avrebbe lasciato in pace, inflessibile, finché non le avesse raccontato ciò che l’aveva turbato nel dettaglio; e Dio sa che tra la sua dolce moglie e i suoi fratelli non corre già particolare simpatia allo stato presente, senza che lui vi aggiunga sogni farneticanti sicuramente indotti da tutto quel maledetto alcol della sera precedente. Povero Dickon, che gran bella ricompensa per la sua costante lealtà sarebbe.
Soltanto un sogno. Sì. E mai più una sbornia simile, giura a se stesso – ma è una promessa che, conoscendosi, sa che non riuscirà a mantenere.
 

 
***


Di solito è la sua piccola famiglia lontana da troppo tempo a popolare i suoi sonni francesi.
Katherine, i capelli corvini al vento mentre corre su per le scalinate di Middleham con una risata argentina squillante a fior di labbra; Johnny, posato e tranquillo, così simile a suo padre alla stessa età, intento ad osservare l’eccitazione di sua sorella con un sorriso condiscendente. Ned, il suo piccolo Ned, tutto occhi blu curiosi e vivace entusiasmo mentre si fa rincorrere dalla sua balia nel cortile.
E Anne. Il più delle volte sono le carezze leggere come piume delle sue mani sottili, il mare ramato-dorato dei suoi capelli sparsi sul suo petto ad accoglierlo nell’oblio – pianure e vallate di tenera pelle sotto le sue dita, i loro nomi ad inseguirsi, carezzevoli, in un sospiro dopo l’altro, mentre annega con lei, in lei…
Ma non stanotte.
Stanotte è l’altra sua famiglia a fargli visita, quella che mai come ora gli è così vicina e distante al tempo stesso – vicina perché si trova materialmente a poche tende dalla sua, distante perché non può, non vuole credere a ciò che Ned ha intenzione di fare, e George di approvare con così rapida prontezza, ansioso di mettere le mani su nuove ricchezze con tanta apparente semplicità.
Seduti su una catasta altissima di forzieri, monete d’oro e argenteria, i suoi fratelli lo squadrano dall’alto con un misto di commiserazione e scherno nei loro occhi, e levano i calici pieni fino all’orlo di vino francese in un brindisi di derisione alla salute del loro fratellino ingenuo, che ancora crede alle favole della Tavola Rotonda. L’odore del vino è acre e pungente, ed è lo stesso che avvolge l’intero campo inglese in baldoria da giorni per l’imminente firma del trattato con re Louis; lo stesso che gli invade nauseante le narici appena riapre gli occhi su quella realtà che preferirebbe non dover vedere, in cui l’onore della sua terra non è altro che una delle tante merci da barattare.
Noi siamo i tre figli di York. E nessuno potrà mai dividerci!
E invece mai come ora sente di non conoscerli affatto. George è sempre stato bravo con le parole; ma i fatti, ah…quelli l’hanno sempre un po’ eluso.
Sa che, col tempo, lo sdegno si mitigherà e finirà col perdonarli – sono i suoi fratelli, e potrà anche smettere di fidarsi di loro, ma mai di amarli, nonostante tutto. Per ora, tuttavia, tutto quello che Richard può fare è inginocchiarsi di fronte al crocifisso nella sua tenda, e pregare il Signore perché gli dia la forza di sopportare la svendita cui dovrà assistere.
 

 
****


C’è qualcuno con lui nella stanza.
Il suo cervello scarta istintivamente il pensiero come impossibile; a nessuno è permesso fargli visita alla Torre, né sono molti quelli che sarebbero disposti a rischiare di incorrere nelle ire reali per farlo. Eppure George è sicuro di distinguere una silhouette scura nella penombra; e, per un attimo, una folle speranza si fa strada nel suo cuore.
“Ned…?” mormora con voce strozzata. Forse suo fratello ha cambiato idea, forse vorrà finalmente vederlo, parlargli, forse lo lascerà andare e tutto questo sarà servito soltanto a spaventarlo…o forse sta semplicemente impazzendo, e questo è esattamente ciò che Edward vuole, rendere persino la morte più appetibile ai suoi occhi di questa desolata impotenza e solitudine che lo soffocano.
Tutto si aspetta in risposta, fuorché la risata schietta, e così stranamente familiare, che riecheggia nella sua stanza-prigione.
“Non so se essere lusingato di essere scambiato per il re, o profondamente offeso. Non credo di essere mai stato tanto imbolsito quanto nostro fratello lo è ora.”
No, non Ned. George non ha bisogno di attendere che la sagoma si sposti alla luce, rivelando una brillante chioma bionda, per diventare pallido come un cencio. Non ha più alcun dubbio: deve stare impazzendo, non c’è altra spiegazione.
“Tu…non puoi…tu sei…”
“Morto?” completa per lui Edmund, con un sorriso quasi allegro, benevolo. Non è cambiato di una virgola dall’ultimo giorno che l’ha visto, bello e giovane e fiero e solenne, pronto a seguire il loro padre in guerra con tutto l’entusiasmo di un giovane diciassettenne; mentre loro, tutti loro hanno vissuto e sono cresciuti, e George non è sicuro che l’abbiano fatto in meglio.
“Sì, ho avuto un paio di decadi per abituarmi all’idea – e lo stesso dovresti aver fatto tu, fratello.”
“Edmund…” George boccheggia, a corto di parole. È così strano il contrasto del suo ricordo di bambino, in cui i suoi due fratelli maggiori paiono dei giganti sui loro cavalli, splendenti e alti e irraggiungibili, con quanto suo fratello gli paia giovane ora in confronto a se stesso.  “Perché…perché sei qui?”
“Oh, ci sono sempre stato,” risponde tranquillo, sedendosi sul bordo del letto di George con assoluta naturalezza. “Vi ho osservato commettere le vostre idiozie un po’ a turno, voi tre. Mi chiedo come nostra madre sia rimasta sana in tutto questo tempo…ma è sempre stata la donna più forte che abbia mai conosciuto.” Edmund lo guarda dritto negli occhi con un sorriso affezionato. “La vera domanda è perché tu riesca a vedere me ora. Temo che il velo tra i nostri mondi non sia destinato a restare in piedi ancora per molto, fratellino.”
George sbatte le palpebre senza capire; e poi all’improvviso realizza ciò che suo fratello intende. “No! Ned non lo farebbe…non potrebbe…sono suo fratello!” Ha creduto di preferire la morte al nulla senza uscita di quella prigionia solitaria alla Torre, ma ora che gliene si prospetta davvero di fronte l’eventualità un terrore gelido gli attanaglia le viscere.
Gli occhi sinceri di Edmund si fanno tristi. “Vi sono molte cose che mai avrei creduto possibili, e che pure sono successe in questi anni. Anche tu hai tradito Ned, più volte, e il fatto che egli fosse non solo nostro fratello, ma anche il tuo re non ti ha fermato allora. E Dickon…” Il suo sguardo si perde a inseguire una visione distante, e s’incupisce ancora. “Presto o tardi anche Dickon si troverà costretto a fare una scelta che lo porterà, comunque vada, a tradire qualcosa in cui crede, e temo che questo distruggerà anche lui…”
Tradire e Dickon nella stessa frase? Sei sicuro di averci osservato così a lungo come dici, fratello?” George sbotta in una risata isterica; tira fuori gli artigli, come fa sempre quando, in fondo, è terrorizzato. “Dickon potrebbe scambiarsi sigillo con quel Lovell – un cane sarebbe molto più consono per lui!”
“La tua lingua è sempre stata particolarmente affilata ogni volta che ti sentivi braccato.” Lo sguardo di Edmund si fa severo, e lo fa sentire nuovamente un ragazzetto di dieci anni colto nel mezzo di qualche marachella. “Se avessi imparato qualcosa da Dickon, forse non ti troveresti qui ora.”
C’è solo verità nelle sue parole. Edmund è rimasto, anche in questo, esattamente come lo ricorda, insolitamente, quietamente percettivo, di non troppe parole ma capace di leggere le azioni delle persone intorno a lui, come nessuno dei suoi tre fratelli è altrettanto in grado di fare. Sarebbe stato un buon re, pensa George.
“Non voglio morire, Ed,” confessa all’improvviso, in un atto di vulnerabilità che ha permesso ad una sola persona, in tutta la sua vita adulta, di scorgere mai in qualche raro momento: la sua dolce Isabel, soffocata così orribilmente nel suo stesso sangue…così come soffocando morirà lui, si rende conto, annaspando in una tinozza colma del vino preferito della regina. E la cosa peggiore è che quella morte se l’è assegnata lui stesso, credendo di schernire quella strega – credendo che quella risposta sarebbe rimasta solo una delle sue tante bravate, poiché Ned non sarebbe mai davvero arrivato a tanto.
Forse è davvero solo un povero stolto, proprio come i dannati Woodville affermano.
Non si accorgerebbe neanche di stare tremando se non fosse per la mano forte di Edmund che gli stringe la spalla con fermezza, come a infondergli coraggio.
“Morire è la parte facile,” commenta, quasi con leggerezza. “Sono quei momenti prima del colpo finale…quegli attimi in cui sai che lei sta arrivando a prenderti, in cui ti dibatti come un animale preso in trappola, ad essere realmente spaventosi.” I suoi occhi paiono di nuovo indurirsi, prigionieri di un’immagine lontana – di una battaglia, un ponte, e neve di sangue. Ma poi la sua testa di ricci biondi si volta nuovamente verso di lui, e il suo sguardo è lo sguardo complice e incoraggiante di quando gli insegnava a tirare con l’arco, sorridendo della sua frenetica impazienza di bambino.
“Ma non preoccuparti. Sarò lì ad aspettarti dall’altro lato.”
 

 
*****


Respirare gli è sempre più difficile. Ogni esalazione esce ingolfata in un rantolo, che riecheggia orrendamente nella camera avvolta nel più sbigottito silenzio, e il calore che lo soffoca da ogni parte gli offusca la vista, ma non abbastanza da impedirgli di rendersi conto di ciò che sta accadendo intorno a lui.
I vari Morton, Stanley, Rotherham, tutti affollati intorno al suo capezzale con la testa china e un’aria di affettata afflizione; e, ai lati opposti del suo letto, il suo figliastro Thomas e Will Hastings, le mani strette l’una nell’altra sotto sua richiesta, in un forzato segno di buona volontà reciproca.
Se ancora potesse farlo, lo vedrebbero ridacchiare tra sé, di sé, come tanto spesso l’avevano visto fare in passato: è ancora Re a sufficienza, nonostante abbia ormai probabilmente l’aspetto della Morte stessa, da comandare la loro deferenza, da tenerli uniti nonostante tutto. Questo ancora il disfacimento del suo corpo non gliel’ha portato via. Ma appena sarà morto, allora…già riesce a percepire la sete di sangue prendere il sopravvento nei suoi uomini, la volontà inflessibile di darsi battaglia su quanto rimarrà delle sue ossa. Persino gli occhi di Will, del suo caro Will, forse gli unici arrossati di sincere lacrime in quella stanza, si fanno duri e gelidi come ghiaccio non appena incrociano quelli di Thomas Grey; e l’improvvisa, chiara visione delle rivalità che non ha mai considerato niente più che piccoli screzi infantili è sufficiente da sola a gettarlo nello sconforto, a farlo sentire disperatamente solo, pur attorniato com’è dai suoi cortigiani.
Una smorfia si disegna sul suo volto infiammato dalla febbre, e tutti l’attribuiscono al dolore fisico, ignari di quanto si sbaglino.
“Hai un aspetto davvero orribile, fratello.”
Gli occhi di Ned si riaprono di scatto; e, nell’immobilità innaturale del resto della stanza sempre più sfocata, una figura solitaria vi volteggia quasi a passo di danza, spegnendo candele qua e là come uno spiritello dispettoso, precipitando la camera sempre di più nell’oscurità della notte.
Un debole sorriso aleggia sulle labbra di Edward; riconoscerebbe quell’andatura sfrontata, da padrone della stanza, tra mille. Quale deliziosa ironia che la sorte gli abbia fatto desiderare tanto, e invano, la presenza di un fratello al suo capezzale, e gli abbia invece inviato l’altro – quello che gli ha tormentato la coscienza incessantemente in quegli ultimi anni.
“Potrei dire lo stesso di te, George” risponde, e si stupisce di come le parole gli escano facili e ferme, quando soltanto pochi istanti prima ogni sillaba delle sue ultime volontà gli è parsa una brace ardente incastonata nel suo petto.
Suo fratello solleva il capo mentre alita sul candeliere al centro del tavolo, e gli rivolge uno dei suoi tipici sorrisetti ironici, così totalmente in contrasto con il resto del suo aspetto – il volto a tratti pallido a tratti violaceo, la camicia un tempo candida grondante malvasia scarlatta. Sarebbe un’apparizione in grado di far agghiacciare il più coraggioso degli uomini; ma il suo atteggiamento è così totalmente, sfacciatamente George che Ned non riesce ad averne paura.
“Perlomeno io non mi sono ridotto così tutto da solo, fratello. Ho sentito dire che dovrei ringraziare un tal Edward Plantagenet per il mio stato…lo conosci, per caso?”
Ned ride debolmente, mentre lo osserva soffocare le fiamme del camino sotto la cenere. “Non credevo che sarei mai stato in grado di dirlo, ma…ammetto che di questa tua impertinenza si sente la mancanza da molto tempo.”
Il sorriso sulle labbra di George si allarga, e per un attimo pare quasi in parte genuino, e non del tutto derisorio come sua abitudine – o forse è solo un trucco della luce sempre più fioca nella stanza.
“Quindi lo rimpiangi? L’avermi mandato a morte?”
Ned trasalisce alla domanda, improvvisamente seria in mezzo a quella conversazione dal tono così assurdamente leggero. Uno spasmo malsano di tosse lo assale, e gli occhi gli si velano.
“Ogni giorno. Ma se mi stai chiedendo se, tornando indietro, agirei diversamente…” Lascia la frase in sospeso mentre studia suo fratello, mentre s’imprime nella mente il suo aspetto terribile – una delle tante conseguenze di azioni che non potrà mai cambiare, e per cui dovrà pregare la misericordia dell’Onnipotente a breve. Avrà bisogno che Egli sia molto misericordioso, sospetta.
“…la risposta è no. Non ti sei mai reso conto di quando passavi il limite, George. Non mi hai lasciato scelta.”
George si stringe nelle spalle, il suo interesse nella risposta già vacante – anche in questo, tipicamente uguale a se stesso – mentre prosegue imperterrito nel compito che si è autoassegnato. Una dopo l’altra, anche le candele ai piedi del letto si spengono tremolando, e le stanze reali sprofondano ancor di più nel buio.
“Forse allora rimpiangerai anche di non aver fatto un lavoro altrettanto accurato con alcuni di questi…soggetti qui intorno,” commenta, le labbra arricciate in una smorfia di disprezzo mentre i suoi occhi vagano tra le sagome scure accalcate intorno al letto a baldacchino. “So distinguere la scintilla del tradimento negli occhi degli uomini – in fondo, dovrai riconoscere che non vi è esperto più grande di me in materia, non è così, Ned?” Sorride beffardo, mentre il suo sguardo si appunta nuovamente su suo fratello il re, ed è colmo di tagliente, amara ironia. “E questa stanza è una miccia pronta ad esplodere. Dimmi una cosa, Ned: questi uomini di cui ti circondi, di cui vorresti circondare anche tuo figlio, hanno meritato davvero così tanto più di me di vivere?”
Edward non riesce, non può, non vuole rispondere; non sa neanche lui quale delle tre cose, e cerca disperatamente di convincersi che sia soltanto colpa dell’aria sempre più soffocante man mano che la camera precipita nell’oscurità, del cerchio di fuoco che nuovamente pare stringersi intorno alla sua gola.
“Uno splendido raccolto hai lasciato per Dickon, davvero.” George soffia via la candela dall’altro lato del suo letto, avvolgendo nella totale penombra i volti immobili che lo circondano. Ne è rimasta solo più una, quella sul suo tavolino da notte, a crepitare nel buio, e con fatica Ned volta il capo per osservarla danzare, osservare la cera liquefarsi in goccioline – come gli pare stia succedendo a lui, tanto è il calore che sente.
Dickon…povero Dickon. Si meritava di meglio di questo…di essere costretto a dedicare la sua vita ad aggiustare i suoi errori.
“Ma se non altro, nel bene o nel male, lui sarà ricordato. Si parlerà di lui in anni…forse secoli a venire. Chi l’avrebbe mai detto del nostro fratellino tanto silenzioso, cresciuto come una tua seconda ombra?” George scuote la testa tra sé, mentre fa il giro del letto con passo leggero, ed è difficile distinguerne l’espressione nel gioco di ombre lunghissime che l’unica fonte di luce nella stanza dipinge sul suo viso – ma Edward sa che sta sorridendo divertito.
“Mentre tu, fratello…almeno su di te avrò avuto ragione. Anche tu sarai ricordato…”
Edward lo guarda avvicinarsi, si sforza di rimettere a fuoco la sua figura attraverso gli occhi arsi di febbre.
Mentre si china sull’ultima candela rimasta, George gli rivolge un ultimo dei suoi sorrisetti saccenti, trionfante.
“…Per essere stato grasso e pigro.”
La fiammella rimasta si spegne in un soffio; e il Sole Splendente di York non è più.
 

 
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Qualcuno lo sta scuotendo per farlo svegliare, e Richard geme, la voce impastata dal sonno di cui per troppe notti si è privato.
Non sa neppure quando, come si sia addormentato – esaustione, probabilmente. Troppe notti insonni spese tra colloqui e carteggi, quanti carteggi, un mal di testa sordo e continuo a esplodergli sotto le tempie incoronate, prima che i pensieri si facessero comunque troppi, e troppo insistenti, e lui cercasse istintivamente rifugio nel porto di sempre, tra le braccia di Anne – riuscendo soltanto a ferirli entrambi, di nuovo, daccapo. Non è stato dolce con lei, l’ha presa con tutta la sua rabbia e frustrazione, hanno fatto l’amore con lacerante disperazione – e come poteva illudersi che fosse altrimenti, quando persino nel privato del loro talamo è come se avessero gli occhi di tutta la loro corte addosso? Quando non riesce neanche a sfiorarla senza essere perseguitato dagli sguardi malevoli che lo circondano ogni giorno, chiedendosi per quale motivo insista a volere al suo fianco una regina sterile? Quando il mondo intero vorrebbe che concepissero un nuovo erede e loro hanno ancora la morte nel cuore per il figlio che hanno perso?
Ned. Chiunque lo stia scrollando ha mani piccole ma insistenti, e Richard seppellisce sotto strati d’insensibile acciaio il ricordo di suo figlio, sorridente e inorgoglito e pieno d’eccitazione a malapena contenuta durante le feste a York in onore della sua investitura a Principe del Galles. Così pieno di vita, così diverso dal corpicino esangue e freddo che ha stretto tra le braccia per l’ultima volta senza riuscire a credere, a capacitarsi… Ma non può pensarci, non può: lui è il Re d’Inghilterra, e i re non possono permettersi di mostrarsi deboli a nessuno, pensa mentre si costringe ad aprire gli occhi su chiunque lo stia sollecitando con tanta urgenza.
In un battito di palpebre, tutta la risolutezza appena radunata evapora come ghiaccio al sole.
Neanche l’avesse evocato, è lo sguardo chiaro di suo figlio a incontrare il suo a mezz’altezza, gli occhi di Anne nel suo visetto immaturo a riflettere lo sguardo attonito di Richard, come se fosse soltanto un’altra mattinata invernale degli anni passati, in cui Ned sgattaiolava nelle loro stanze a svegliarli entusiasta per la caduta della prima neve.
Il mio bambino… Richard si solleva incredulo sui gomiti, riesce a sentire princìpi di lacrime traditrici pungergli gli angoli degli occhi; ma quando allunga un braccio verso di lui, per quanto lo desideri con tutte le sue forze, non riesce a toccarlo.
Una mano si allunga ferma, irremovibile, sulla spalla minuta di Ned, trattenendolo fuori portata. Una mano grande, forte, abituata al comando, su cui spicca un grosso anello di rubino – lo stesso anello tramandato di sovrano in sovrano, che ora è Richard ad essere solito portare.
Gli pare di dover sollevare il viso fino al soffitto per poterlo vedere. Edward – suo fratello Edward – è altissimo, irraggiungibile, troneggia sul suo piccolo, omonimo nipote e su di lui, bello e imponente come nel fiore dei suoi anni, splendido in tutto e per tutto come il sole del suo emblema personale, come uscito dalle sue memorie più vivide e ammirate di bambino – eccetto che per un unico, spaventoso dettaglio. Gli occhi di suo fratello sono come due pugnali affilati su di lui, ardono minacciosi di sdegno, di delusione come due tizzoni. È così che deve essere apparso ai suoi nemici, e Richard non riesce a sopportare il disprezzo nel suo sguardo, diretto come un dardo infuocato su di lui, che mai prima aveva dovuto subirne il peso – e riesce a sentirsi tremare sotto quel terribile scrutinio.
La presa di Ned è ferrea, implacabile, si stringe intorno al braccio di suo nipote affondando le unghie nella carne fino a farlo sanguinare, senza che il bambino emetta un solo lamento.
“Un figlio per un figlio, fratello” dice solamente; e la frase è come uno schiaffo, un manrovescio così forte che Richard si sveglia di soprassalto, per davvero questa volta, le lenzuola un groviglio confuso intorno ai fianchi e sudore freddo a colargli giù per la schiena, il suo respiro affannato come se si stesse riprendendo da una lunga corsa.
“Richard!” Anne gli si precipita accanto dall’altro lato della stanza, i lunghi capelli e la vestaglia svolazzanti in una nuvola intorno a lei; e Richard è troppo sconvolto per chiederle cosa ci faccia in piedi fuori dal letto quando fuori il giorno ancora non dà cenni della sua presenza – troppo turbato, e si odierà per questo più avanti, per accorgersi del lieve, malsano raschiare di fondo nei respiri di sua moglie.
“Cos’è successo? Che cosa c’è?”
“Ned…” riesce solo a mormorare lui, con voce strozzata; e non sa nemmeno bene a chi davvero si riferisca – se al loro bambino, o a suo fratello, o ancora a quell’altro Edward, il figlio di suo fratello, il nipote di cui aveva giurato di prendersi cura come un figlio, cui aveva giurato obbedienza come a un sovrano, e che invece sotto la sua “protezione” si è visto sottrarre la corona e la vita.
“Shh, era solo un incubo, amore mio, solo un incubo…” Anne lo stringe tra le braccia con decisione, lo culla come avrebbe fatto con il loro Ned, scostandogli i capelli umidi incollati alla fronte.
Di fronte al mondo lei è sempre stata piccola e fragile, e lui il suo salvatore; ma nel privato è lei la sua roccia, e Richard seppellisce il volto contro i suoi seni come se potesse schermarlo da ogni male, proteggerlo dall’inaccettabile eventualità che le accuse di suo fratello siano, in fondo, nient’altro che la pura verità – perché potrà anche essere stato Buckingham a soffocare senza alcuna pietà la vita dei due principini nella Torre, ma chi altri se non lui, con la sua fiducia mal riposta, ha armato la sua mano?
 

 
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La terra trema con violenza sotto di lui, sotto i piedi dei suoi uomini, come se stesse collassando. È come se l’ira dell’Onnipotente volesse sprofondarli tutti e non lasciare di loro alcuna traccia; e riesce a distinguere lampi di terrore superstizioso negli occhi dei soldati della sua guardia, bagliori di panico che per un momento contagiano anche lui.
E se mia madre si fosse sbagliata? E se Dio non fosse davvero dalla nostra parte come dice?
Poi li vede. Non è un terremoto; sono gli zoccoli tonanti di centinaia di cavalli spronati al galoppo giù dalla collina, in una marea umana e animale di stendardi colorati, briglie, speroni e lame affilate alzate al cielo – una marea che punta ad infrangersi dritta contro di lui, a spazzarlo via con la forza delle sue ondate.
Alla sua testa non vi è un uomo, ma una macchina; il re guerriero sembra fatto di solo acciaio, come la sua volontà, il cerchio d’oro intorno alla sua testa una corona di fuoco e le sue membra una cosa sola con quelle del suo destriero bianco lanciato in folle corsa, sempre più vicino. Pare l’Arcangelo Michele vendicatore in persona; e, sopra alla confusione degli uomini che nel panico più totale stringono i ranghi intorno a lui come meglio riescono, puntando le picche verso l’esterno della formazione, il pretendente riesce ad avvertire una punta di ammirazione meravigliata nei confronti di quell’avversario che dovrebbe odiare più di ogni cosa al mondo, che pure gli corre incontro promettendogli morte a fil di spada.
L’impatto tra i due schieramenti è terribile. Il sangue inizia a saturare nuovamente l’aria, mentre alcuni cavalieri vengono abbattuti di sella, ma altri, molti altri, mietono vittime tra i suoi uomini come falcerebbero il grano, e più di tutti il re guerriero mulina intorno a sé spada e ascia come un demone lucente, inarrestabile nella sua furia. I suoi colpi trovano un soldato, e poi un altro, e un altro ancora; lacera carne con le sue lame come il cinghiale del suo vessillo farebbe con le zanne affilate.
Lo stendardo del drago vacilla, s’accartoccia, cade, calpestato dalla moltitudine caotica di corpi; ma il pretendente ha smesso di avere paura, e non indietreggia nel vedere i suoi nemici così pericolosamente vicini.
Perché dovrebbe? Ora ricorda tutto, ricorda perfettamente.
Lui sa come andrà a finire.
Questo è il momento in cui il suo patrigno interviene dalla postazione da cui si è rifiutato di muoversi fino a quell’istante; il momento in cui i suoi uomini e quelli di suo fratello, come un’unica, enorme aquila si gettano in picchiata sulla preda lasciata esposta per loro, travolgendola. Il momento in cui il cinghiale viene infine abbattuto, e portato in trionfo alla mensa del nuovo re.
Ma il pretendente si sbaglia.
Questa volta non c’è nessuna carica; nessun “Per Tudor!” gridato a pieni polmoni dalle colline prima dell’affondo decisivo da una direzione inaspettata.
Accade tutto in fretta, troppo in fretta, in una cacofonia di grida, colpi disperati e di dolore, un dolore che gli esplode intorno, dentro, ovunque. Il suo cavallo nitrisce impazzito, e lui si ritrova a cadere giù, cadere e toccare terra e quasi non sentirlo per via del dolore sordo che lo dilania, che s’impadronisce di ogni centimetro del suo corpo.
La cosa successiva di cui è consapevole è di giacere supino su un letto di rose bianche, tingendole di scarlatto con il proprio sangue; e il pretendente sa di avere perso.
Il re guerriero osserva la sua agonia dall’alto con un misto di tristezza e mortale stanchezza, molto diverso dall’espressione trionfante che avrebbe potuto immaginare di incontrare nei suoi occhi. Il suo sguardo si sposta, lentamente, dal corpo martoriato del suo avversario all’elmetto che ora stringe tra le dita guantate di ferro – l’elmo su cui ora troneggia una corona opaca, imbrattata del sangue e della terra e del sudore della battaglia.
Il pretendente sconfitto lo guarda sfilare con cautela il circolo d’oro dal suo supporto, rigirarselo tra le mani, soppesarlo con occhi pensosi seminascosti da ciuffi di capelli corvini…
…Per poi lasciarlo cadere, quasi con noncuranza. La corona gli atterra massiccia sul petto, con un colpo secco che gli mozza il respiro già affannoso; e il pretendente fissa la sua nemesi con occhi spalancati, senza capire.
“Puoi tenerla,” gli dice il re guerriero, e nella sua voce non vi è un solo accenno di esitazione. “Tienila, e scopri da solo quanta felicità può davvero portarti.”
Sbalordito, il pretendente si lascia scavalcare con passo deciso dal suo nemico, che ora ha gli occhi blu-grigi fissi verso l’orizzonte, il fantasma di un sorriso ad addolcirgli il volto provato dallo scontro. Il più lieve movimento pesa come un macigno; ma riesce a voltare la testa a sufficienza per continuare a seguirlo con lo sguardo, mentre si dirige verso la luce.
Vi sono tre figure ferme ad attenderlo, poco lontano. Il re si avvicina a loro, e il pretendente li sente ridere da lontano, li osserva abbracciarsi come amici persi e ritrovatisi dopo lungo tempo.
Poi, fianco a fianco, i quattro uomini si allontanano insieme, luminosi in controluce come quattro piccoli soli, lasciandolo lì a morire lentamente su quel tappeto di rose bianche.
 
Henry VII d’Inghilterra si risveglia con ancora il sapore metallico del sangue in bocca, e non chiude più occhio per tutta la notte.
 

 

A.N.: sì, lo so, io non mi faccio viva per mesi, e poi me ne esco con certi spezzoni depressi di questa storia. Sì, siete autorizzati ad odiarmi.
Questa storia è un po’ un esperimento, ed è nata in realtà dal penultimo spezzone, quello con Richard, che mi è comparso sulla pagina di Word mentre scrivevo per i Fili (di cui non mi sono dimenticata!), e che poi ho pensato fosse meglio spostare in separata sede. Da lì i miei onnipresenti York brothers feels hanno preso il sopravvento…e ora sta a chi vorrà leggere dirmi se il risultato ha un senso. Ho cercato di raccontare la storia dei fratelli - il legame profondo che li ha uniti e i conflitti che li hanno divisi - a modo mio, attraverso i loro sogni reciproci l'uno dell'altro; spero di esserci riuscita!
L’ultima sezione diverge un po’ dalle altre nel soggetto “perseguitato” dal sogno, ed è ispirata dall’Author’s note della solita, immensa Sharon Kay Penman (autrice del mio beneamato Sunne)
 che del caro Henry Tudor ha scritto: “I still like to think that memories of Richard's last, desperate charge gave Henry nightmares for the rest of his life” – oltre che alla mia visita alla rievocazione di Bosworth di un paio di settimane fa :’(
Come solito, mi sono presa la libertà di riprendere a volte la serie, altre la realtà storica…ad esempio cito George direttamente da TWQ un paio di volte, ma nella questione della campagna francese seguo i fatti storici, che ci tramandano come Richard fosse l’unico ad essere molto scontento del trattato con la Francia, mentre George fosse ben contento di partecipare della spartizione del bottino ^^ (idem dicasi per Richard non presente sul letto di morte di Ned).
 
Last, but certainly not least (e vai così, riesco ad essere prolissa anche nelle note! ^^’’), un abbraccio stritoloso va alla mia Vale-colla preferita Ormhaxan, autrice di tante storie meravigliose in questa sezione – che meritano di essere lette e rilette e cuoricinate! – che mi ha editato la bellissima copertina per questa storia, aiutato con titolo e summary e che ha avuto sempre un’enorme pazienza con i miei ritmi da lumaca. Love you, glue <3
E un grazie enorme, as usual, a chiunque avrà voglia di leggere e recensire!
 
-Vale
  
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