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Autore: Yujuid    28/08/2014    1 recensioni
Quando la vita ti rema contro e non sai più cosa fare, tira fuori tutto il coraggio che è in te.
Capirai che chi giudica lo faceva perché ti vedeva debole, capirai che, vissuta a testa alta, la vita è più bella e può dare molte soddisfazioni.
Vivi la tua vita per quello che sei, fregatene del giudizio altrui.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Just a dream(s)



Sono qui, seduto sulla panchina, ad aspettare che il mio autobus arrivi. Mi sto dirigendo a scuola.
Sono un ragazzo di 18 anni e non mi vergogno di dire di amare la scuola. Ma odiare chi la frequenta. Oramai, ogni persona, ogni mente, ogni persona dotata di una voce per parlare è pronta a giudicare. Ed io non sopporto essere giudicato. Eppure la vita mi rema contro. Perché? Beh, vengo giudicato perché sono omosessuale, o come preferiscono identificarmi loro, “frocio”, vengo criticato per la mia passione per la scuola e per i libri, vengo criticato per la mia poca vita sociale, per la mia voce un po’ troppo acuta e perché non ho sogni. Loro credono che io non abbia sogni.
In realtà io ho un sogno, ma temo che, ora come ora, sia irrealizzabile: sogno di diventare un cantante di successo.
Arriva l’autobus ed entro. Mi siedo al solito posto, un sedile a circa metà dell’autobus, spiaccicato al vetro. Per quanto l’autobus possa essere pieno il posto accanto a me rimane sempre e comunque vuoto.
Mai nessuno si siede accanto a me. Per loro io sono diverso. Osservo i loro sguardi, che per me sono come coltelli che mi arrivano dritti al cuore.
E allora mi metto le mie cuffiette ed accendo l’Ipod. Solo così riesco ad esternarmi dal mondo. Solo così riesco a non pensare a nulla.
Dopo poco tempo arriviamo. Mi devo, purtroppo, togliere le cuffie. Mi sento nudo ora. Mi sento già attaccato solo dagli sguardi disprezzanti delle persone. Devo percorrere circa duecento metri per arrivare a scuola. Perché mi sembrano sempre interminabili? Perché se c’è gente che ci mette venti secondi a farlo io ci metto dei minuti?
Ovviamente, lungo il mio tragitto mi arrivano alle orecchie i soliti disprezza menti fatti da alcuni gruppi di amici o da alcune coppie che non sanno far altro che dire “Uh, guardate quel frocietto!”
Arrivo nella mia aula e mi siedo al primo banco, come sempre. E come sempre, accanto a me non c’è nessuno.
Nella mia classe ci sono altri venticinque ragazzi e tra questi solo uno si degna di parlarmi. Solo uno non mi trova diverso. Solo uno non è un omofobo. Si chiama Mirco. Anche con lui, comunque, non ho dialoghi eccessivamente privati. Ogni tanto mi viene a consolare, mi viene a dire di non deprimermi, mi viene a supportare. Ogni tanto, addirittura, si siede accanto a me, nell’altro banco. Non dice nulla, ma mi fa sentire immensamente meglio.
Sono passate due ore, e sono state due ore di pace interiore e scoperte. Er la lezione di matematica, la mia materia preferita. Ma ora suona l’intervallo: odio quei dieci minuti.
Sono dieci minuti in cui chiunque può entrare nelle altri classi, e tutti coloro i quali entrano qui mi vedono e… iniziano a ridere.
Sono questi i momenti in cui vorrei Mirco vicino. Sono questi i momenti in cui mi rendo conto che lui è un vero amico. Perché? Beh, ora vi racconterò, in breve, una mia giornata di qualche mese fa: era seduto in classe durante l’intervallo, come sempre. Senza cuffiette: quel giorno le avevo dimenticate. E allora successe l’inevitabile: entrarono due ragazzi che solitamente si divertono ad offendermi, a deprimermi e deridermi, e mi si avvicinarono. Iniziarono a tamburellare le dita sulle mie orecchie e gli altri miei “amati” compagni non facevano nulla. Mi misero sopra al banco immagini di donne nude e mi tennero gli occhi aperti per obbligarmi a guardarle. Mi tapparono la bocca per non farmi gridare. Dopo alcuni minuti di questo genere di tortura ecco che Mirco rientrò in classe e, vedendo quello che stavo subendo, si accanì contro i due ragazzi. Li picchiò: Mirco è un giocatore di box e quindi sa come difendersi.
Finirono tutti e tre davanti al preside e la salvezza di Mirco fu un nostro compagno di classe, anche lui uno di quelli che mi deridono, che aveva filmato tutto, dall’inizio alla fine.
E così per alcune settimane non vidi quelli. Ora sono qui, con le mie cuffiette, la schiena poggiata al muro, il cappuccio a coprire gli occhi.
Sento il suono acuto e vibrante della campanella che indica la fine dell’intervallo e mi si sciolgo il nodo al cuore che avevo. Di nuovo un po’ di pace.
La professoressa di Storia ed Italiano, quella che avremo nelle prossime tre ore, è la mia professoressa preferita. E’ dolce, simpatica, premurosa. Vorrei avere lei come madre. Sì, non sto scherzando.
Alla fine di questa tre ore si ripete la routine del mattino fino a quando non arrivo a casa. E lì è anche peggio.
Mia madre non mi parla da quando a scoperto della mia omosessualità, non mi cucina, non mi lava i panni, non mi mette a posto la camera. Per lei non esisto. Mio padre, invece, se ne è proprio andato. Lui pensa che l’omosessualità sia una malattia, e che sia addirittura genetica. Era sicuro che mia madre in realtà ne soffrisse, quindi ci ha abbandonati per questo.
Entro aprendomi la porta con le chiavi: non devo neanche suonare, perché tanto so che nessuno mi aprirebbe. Appoggio lo zaino sul pavimento e mi dirigo verso la tavola. Mia madre sta cucinando. Solo per lei, ovviamente. La saluto dicendo “Ciao mamma, come è andata a lavoro?” e non ricevo alcuna risposta. Ogni volta è come se un arciere scoccasse una freccia dritta al mio cuore. Non è bello essere ignorati dai propri genitori.
Mi levo il giubbetto e mi avvio verso il fornello, quando vedo che mia madre ha apparecchiato e cucinato per due.
Mi si gonfiano gli occhi di lacrime, e mi giro per abbracciare mamma. Lei ha ancora quell’espressione da dura sulla faccia e mi risponde, con la sua voce rauca e tagliente come un coltello “Tra pochi minuti arriva tua nonna. Sbrigati a prepararti il mangiare”.
Corro in camera mia e chiudo a chiave la porta. Mi siedo nell’angolo formato tra la porta e il muro ed inizio a piangere, piangere e piangere. Ma non mi basta. Prendo una lametta dal mio armadio e affondo la lama nella carne, fino a vedere il sangue.
Almeno ora, ho un motivo per piangere. Il mio braccio è pieno di righe e croste. Non lo sa nessuno e nessuno lo dovrà mai sapere.
Suona il campanello e il mio umore si risolleva un pochino: mia nonna è l’unica componente della famiglia che non mi giudica male e che mi accetta per quello che sono.
Apro la porta e corro in bagno a mettere un altro cerotto sul mio braccio, dopodiché metto un po’ di garza per farlo stare fermo. Mi asciugo le lacrime con la manica della felpa e mi reco in cucina, e corro ad abbracciare mia nonna, che mi saluta e mi bacia più volte. Quando vede che sul tavolo è preparato per due, mi bacia in fronte, mi lascia e va a cucinare per me. Mi metto a tavola: è passato molto tempo dall’ultima volta che ho mangiato allo stesso tavolo con mia madre. E, come l’ultima volta, non ho il coraggio di chiederle per quale motivo sono così tanto una delusione, per lei.
Dopo un delizioso pranzo, mi dirigo verso la casa della mia insegnante di canto: lei è un’altra delle poche persone che mi capisce. Sa di me, sa della mia storia e conosce mia madre, tant’è vero che non mi fa pagare i suoi corsi. Mi dice di cantare una canzone: non l’avevo mai sentita prima. Quando chiedo il titolo mi dice: “Lo scoprirai. A tempo debito”
Il testo mi fa piangere. Il ritornello in particolare
 
This is my story, that I wanna tell you.
This is my story and know cannot you
All you are wrecking my life, and you are soddisfacted
All you are broken my world,
And all of I wanna, is live in peace with my soul.
You don’t criticize,
If you don’t know what my heart’ve passed in life.
 
La mia insegnante mi dice di impararla bene a memoria, e alla mia domanda sul perché mi dice: “Tu fallo, non te ne pentirai”
 
[…]
 
Sono passate alcune settimane, ma non sono state come le altre: Mirco mi chiama tutti i giorni il pomeriggio per sapere come va e tutti i pomeriggi vado a lezione di canto.
I miei sentimenti su di Mirco stanno cambiando, e li temo. Prima lo vedevo solo come una persona rifugio, una persona che mi capiva, ma ora sto iniziando a sentire bisogno di lui.
Non mi basta più vederlo solo a scuola e davvero, temo di iniziare… ad amarlo. Poche volte avevo usato questo termine s una persona. Per la prima volta, però, sono sincero mentre lo dico.
Ed ora ho paura: paura di rovinare il nostro rapporto, paura di perdere l’unica persona che mi capisce davvero.
In queste settimane mi sono deciso, deciso a cambiare la mia vita. Sono stato da uno psicologo, ed ora mi sento pronto.
A scuola sono io ad ignorare tutti: sono più forte di loro, lo so, e non mi farò mai più sopraffare da loro. Sto tornando a casa. Mamma è sempre lì, ad ignorarmi. Inspiro. Penso a ciò che gli devo dire. Espiro. “Mamma, ascoltami: dobbiamo parlare. Ora”
Sembra sorpresa: era da tanto che non parlavo a nessuno con questo tono deciso e secco. E mi ascolta, sedendosi di fronte al tavolo. La raggiungo e mi siedo di fronte a lei.
“Perché mi tratti così? Credi davvero che l’omosessualità sia una malattia?”
“No, è che…”
“Cosa è, spiegami. Io non ce la faccio più a vivere così. Non penso di poter resistere ancora per tanto”
“Non dire sciocchezze. Io sono arrabbiata con te perché hai rovinato la mia vita, hai distrutto il mio matrimoni, hai scombussolato la mia routine” mi risponde lei alzando il tono.
Rido e dico “Ah, allora è per questo? Pensi davvero che papà non ti avrebbe lasciato? Non hai mai sospettato che possa aver usato il mio essere gay solo come scusa?”
Non risponde. Si alza dalla sedia. E mi abbraccia.
Le lacrime cominciano a scendere come fiumi. Era da una vita che non abbracciavo mia madre. Ricambio e la stringo ancora più forte.
“Scusami,” mi dice, “scusami se sono stata così ottusa”
Io non dico niente, e continuo a rimanere abbracciato. Lei si stacca dalla mia amorevole morsa solo dopo qualche minuto e va verso i fornelli a prepararmi qualcosa da mangiare.
“Allora… come è andata oggi a scuola?” mi chiede.
Sorrido e rispondo dicendo “Benissimo. Ho preso un nove in matematica”
Passo tutto il pomeriggio con lei a parlare fino a quando si fanno le quattro. La abbraccio e la saluto dicendo “Vado a lezione di canto. Domani farò un concerto con gli altri ragazzi. In piazza”
La lezione passa benissimo e alla fine l’insegnante mi dice “Ricordi che volevi sapere il titolo della canzone? Ecco, quella canzone s’intitola Tell you my story e l’ho scritta io per te. Dopodomani andremo allo studio di registrazione: pubblicherai il tuo primo singolo.
Urlo di felicità. Il mio singolo. La mia canzone.
Il resto della giornata passa tranquillamente.
Mi sveglio: è mattina. Mi stropiccio gli occhi: non sarà stato tutto un sogno, vero? Vado in cucina e mia mamma mi saluta abbracciandomi: non era un sogno. Mi ha preparato la colazione e mi dice che oggi non sarei andato a scuola. Alla mia domanda sul perché mi dice che oggi mi devo preparare.
Sono circa le otto e sono in macchina con lei: stiamo andando dal parrucchiere. Ci facciamo fare entrambi due tagli di capelli bellissimi e alle dieci usciamo. Entriamo poi in molti negozio di vestiti per decidere quello che mi sarei messo nel pomeriggio. Abbiamo optato per una camicia rossa a maniche corte e dei pantaloncini corti blu.
Sono circa le quattro e sono sul palco con gli altri a fare le prove. Fino a due settimane fa avrei avuto paure, mi sarei sentito diverso, ma oggi è diverso. Gli altri ragazzi non mi guardano con occhi taglienti, ma con un sorriso. Le prove vanno benissimo. Lo spettacolo ancora meglio. Ho appena finito la mia canzone e sono in piedi, sul palco, a godermi tutti gli applausi. Ci sono centinaia, forse migliaia di persone che mi stanno applaudendo. Me. Chiedono il bis, e mentre sto scendendo dal palco per fare spazio al prossimo riparte la base musicale. Canto nuovamente e la folla mi acclama ancora più di prima. Ringrazio tutti al microfono e scendo. Abbraccio la mia insegnante e poi mia madre. E vedo che c’è una persona che aspetta me, un po’ in disparte, sorridendomi. E’ Mirco.
Respiro profondamente e nella mia testa si incatenano mille pensieri, tanto da portarmi all’esasperazione. Ma sono deciso e sicuro: devo parlargli. Mi avvicino a lui con grandi passi e mi siedo affianco. Mi fa i complimenti dicendomi che sono stato molto bravo. Io neanche lo ascolto e dico: “Dobbiamo parlare” lui annuisce e mi risponde dicendomi: “Si, sono d’accordo: dobbiamo parlare.”
“Avrai notato che nell’ultimo periodo sono cambiato e…” spezzo la frase e lo bacio. Sentire le sue labbra sulle mie mi da una sensazione di benessere che però ho paura non possa durare. E invece, a differenza di quanto pensavo, lui ricambia. Dopo molto tempo ci separiamo e sento le mie labbra fredde, come se un pezzo di loro fosse stato portato via.
“Ecco, dovevo dirti questo”, dico.
Silenzio. Nessuna risposta. Per alcuni minuti Mirco guarda il suolo, l’asfalto, fisso senza mai girar4si. Io ho paura, ho paura che possa non accettare questa situazione.
“Anche io”, mi risponde dopo quel silenzio. Mi scendono (di nuovo) fiumi di lacrime e lo abbraccio, per poi baciarlo nuovamente. Ora che ho qualcuno al mio fianco mi sento meno vulnerabile.
 
[…]
 
Sono passati oramai dieci mesi da quel bellissimo giorno, e ancora lo ricordo come fosse ieri. Ora sono un cantante: ho già pubblicato sei singoli e tutti hanno avuto un discreto successo.
Ho riallacciato alla perfezione i rapporti con mia madre e la mia relazione con Mirco è sempre più forte.
Ho finito la scuola facendo gli esami: ho preso novantaquattro,e sono soddisfatto.
Fino a poco tempo fa non avrei mai pensato di dire nulla del genere, ma ora posso affermare di amare la mia vita.
Nessuno più mi guarda come se fossi diverso, anzi, ora tutti mi guardano con ammirazione, e quei coltelli che mi venivano puntati contro sono ora delle rose.
Sono felice.
   
 
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