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Autore: Eirien    28/08/2014    3 recensioni
Da quando, sotto l’equivoco bustino in cui ogni Santo donna riteneva suo preciso dovere strizzare quel che restava della propria femminilità, aveva incominciato a notare l'esordio di quella che prometteva di diventare una scollatura di tutto rispetto, non passava giorno che non mandasse un'intima e silenziosa maledizione a colui che era causa di tutte le sue tribolazioni. Perché lo sapeva. Prima o poi quel fatale giorno sarebbe arrivato. Lei glielo avrebbe chiesto, oh sì, perché era attenta e sveglia, fin troppo. E lui, con estremo coraggio, coltivava l'ardente speranza che qualcun altro le avesse già spiegato che i bambini NON nascono sotto i cavoli.
Un Santo, la sua allieva, una vecchia ed una levatrice.
Mai, mai accettare un cicchetto da Mitsumasa Kido, Camus. E ora, sono solo cavoli tuoi.
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Terrore sul K2! Quando la neve si tinge… di rosso. Prima di incominciare…

Questa one-shot nasce per scommessa. Una lontana e malaugurata sera in cui non avevamo nulla di meglio da fare, io e l'amica Philos discutevamo di quell'altra sciagurata storia in corso di pubblicazione, Gates of Gods, e sui problemi pratici del vivere dentro una traballante catapecchia 'ngopp o' K2. Lo sventurato Santo vittima dell’esperimento, per chi giustamente se lo domandasse, è Camus dell'Acquario, uomo di provata simpatia e in insolita compagnia. La compagnia di una ragazzina appena dodicenne, per la precisione. Con le sue legittime curosità, la femminilità acerba e una pratica maschera di metallo sulla faccia.
E quindi… Una marmocchia che doveva imparare a (soprav)vivere, più bianco che nella camera imbottita di un manicomio e neppure un’aquila per scambiare quattro chiacchiere: ce n'era a sufficienza perché il povero Camus, durante quei cinque-sei anni di solitudine in alta montagna, accendesse discretamente un cero ad Eros (sì, l'amico di Pollon)  sperando in un po' di sana e adulta compagnia femminile. Ché il Cavaliere è pure uomo, e Camus è uomo poco incline alla pedofilia e ai rapporti intimi con le stalattiti. Questa è la storia di come il suo desiderio sia stato esaudito. Ma gli Dei sono capricciosi, si sa, e forse questa volta Eros ha mostrato un senso dell'umorismo piuttosto deviato.

Questa la dedichiamo…

A Sara, bella dentro e fuori, piena di talento e di una rara sensibilità.
A Sagitta, per ricordarle che non c’è modo di impedire alla vita di maltrattare Camus. È inevitabile, come i monsoni e la cellulite.
A Iri, il mio Sofferenzo, cogenitrice di felini e compagna di risvegli e deliri ridenti e dementi. Non dovevi rompere il pallavisore, sappilo. Da allora in poi nulla è più stato come prima.
A Resmea, che ama le belle lettere, la compagnia degli amici e non prendersi mai troppo sul serio.
A Philos, che nonostante tutto non perde mai la voglia di lollare.
E soprattutto a te, Melantò, che per prima mi hai mostrato la strada per il reparto geriatrico. Prima o poi scriverò anche delle recensioni degne di questo nome a Vossignoria e Gegè. Intanto hai tutta la mia gratitudine. Quella di Camus un po’ meno.
Ah, e ti ho pure rubato una frase… indovina dove?


P.S.: Ancora un paio di note a carattere pratico: essendo legata all’universo di Gates of Gods, l’ambientazione di questa storiella può giustamente risultare ostica a chi non abbia mai avuto lo stomaco di aprire la fic principale. No problem, ladies and gentlemen. Sappiate solo che l’ambientazione è anime-style, in questo fantasioso AU Camus è inaspettatamente etero, quasi coetaneo di Aioros e suo grande amico, e che dopo la Notte degli Inganni il buon (!?) Mitsumasa Kido ha avuto l’ineffabile gusto di cercarlo e raccontargli la verità, sconvolgendogli naturalmente l’esistenza. Circa nove anni dopo, mentre il Crystal Saint addestra Hyoga, il nostro Capitan Siberia ne ha più o meno ventidue e da un paio si è trasferito sul K2 in compagnia della ragazzina di cui sopra, che sta tirando su per l’armatura della Gru. Perché proprio lui? Ehm… lo sta chiedendo anche il nostro prode. Ripetutamente. Sconsolatamente. Ma ora bando alle ciance.
Pronti?
Ciak…
Azione!

Disclaimer semiserio: Questa scemenza esce tutta dal mio unico neurone funzionante, che, come Ortolani col suo blog, ci teneva tanto, poveretto. Il titolo, invece, è un colpo di genio tutto di Philos. Quanto a te, Masami, prenditi le tue colpe: Camus e Saint Seiya sono tutti farina del tuo sacco. Che sia messo agli atti, ecco. E già che ci sei, trova un modo per sfrattare Iceman dal mio armadio.










Terrore Sul K2!
Quando la neve si tinge… di rosso.


C'erano mattine in cui Camus dell'Acquario si chiedeva perché s'era alzato dal letto, anche se si sarebbe congelato qualche parte essenziale piuttosto che confessarlo ad anima viva. C'erano giorni tristi e duri e faticosi, in quella catapecchia pericolante sul lato nord del K2, che ogni primavera lui e la sua allieva erano costretti a rinforzare, nella speranza che non crollasse loro in testa durante i mesi invernali. La vita di un aspirante Cavaliere era dura, durissima e lui ne ricordava ogni stramaledetto istante. C’era la fatica, il terrore e il rischio costante di non arrivare al tramonto, c’erano delusioni snervanti e brevi, sudatissime vittorie. La vita da Maestro, aveva scoperto da tempo, rasentava la truffa aggravata, perché dopo aver messo da parte gli ematomi e le fratture del tuo apprendistato, ti toccava anche ripetere il viaggio con ognuno dei tuoi allievi, rivivendo i disagi, il dolore e il dubbio costante di una scelta che soltanto alla fine, e con molta fortuna, si sarebbe potuta rivelare quella giusta.
Oh sì, l'amore per la Dea era davvero potente, ed esigente, dal momento che finivi per sentirti come un pirata della strada che, non contento di essere sopravvissuto all'incidente della sua vita, continuasse a ripetere ad libitum la traumatica esperienza.
“E allora, vuoi continuare a pensarci tutta la mattina?”
Allora un bel niente, si rispondeva ogni volta, un vero Santo non indietreggia di fronte al proprio dovere, soprattutto se sta cercando di non cedere al timore di veder crollare il proprio mondo, sull'orlo del baratro per colpa di uno schizofrenico, assassino e usurpatore. Uno che ha fatto uccidere il tuo migliore amico, fatto cadere su di lui la più infamante delle colpe, e, tanto per prendere due piccioni con una fava, ha tentato di far fuori anche la tua Dea in fasce, indossando nel frattempo la maschera dell'uomo che, con saggezza, amore ed esperienza, ti ha reso quello che sei.
E mettendoli tutti nel sacco come un branco di bietoloni, lui compreso, almeno finché un amabile vecchietto abituato a tutto tranne che a sentirsi dire di no non l’aveva preso a metaforici ceffoni con una rivelazione tanto indigesta quanto impossibile da ignorare.
Camus non si considerava uno stupido, almeno su questo poteva garantire, visto che non poteva certo spacciarsi per monolitico e imperturbabile quanto immaginava chi lo conosceva appena in superficie. Proprio perché non era uno stupido, si sarebbe risparmiato anche il lieto soggiorno sul Karakorum, dopo aver dato per ben due volte nelle infinite, gelide e sconfinate steppe siberiane. C’era stato persino un momento, anni prima, un attimo di fulmineo e incauto ottimismo, in cui aveva creduto che aver consegnato alla storia il prossimo Santo dei Cristalli avesse posto fine a quell’inadatto ruolo di mentore.
Ma provateci voi, a dire no a Mitsumasa Kido, alla sua scacchiera di shoji e alla sua infida bottiglia di sakè.
La fine era già scritta, l'aveva compreso non appena si era alzato dalla sua poltrona alla fine della partita  - e dell’arringa del vecchio- più che mai deciso all'equivalente beneducato di un bel gesto dell'ombrello, e dietro il sorriso furbo di Kido aveva intravisto la piccola Athena di rosa vestita, sapientemente inquadrata dalla monumentale finestra spalancata sul giardino di quella modesta magione di poco meno imponente del Santuario tutto.
E così, aveva ceduto le armi. Incastrato in meno tempo di quanto ce ne volesse a dire ‘Aurora Execution’.
O a buttar giù un altro bicchierino, per non pentirsene all’istante.
Non era trascorso un mese da quella conversazione perché, complice la diabolica Fondazione del Padrino in salsa orientale, al sedicente Gran Sacerdote Shion giungesse la lieta novella di una possibile candidata alla Veste della Gru, e ancor meno perché la patata bollente rimbalzasse nelle sue mani, durante un surreale colloquio che aveva visto protagonisti lui, il Mentecatto e l’ingombrante assenza di Mu dell’Ariete, primo candidato a quel compito ingrato, che si era guardato bene dal rispondere alla convocazione. E così, come previsto da Kido, era partito lui, fingendo di non saperne nulla e soprattutto di trovarla un'ottima idea.
Continuava a fingere anche adesso, in effetti.
Già da due anni era confinato sul K2 in compagnia di quella ragazzina, e mai si era sentito tanto inquieto. Da quando, sotto l’equivoco bustino in cui ogni Santo donna riteneva suo preciso dovere strizzare quel che restava della propria femminilità, aveva incominciato a notare l'esordio di quella che prometteva di diventare una scollatura di tutto rispetto, non passava giorno che non mandasse un'intima e silenziosa maledizione a colui che era causa di tutte le sue tribolazioni. Perché lo sapeva. Prima o poi quel fatale giorno sarebbe arrivato. Lei glielo avrebbe chiesto, oh sì, perché era attenta e sveglia, fin troppo. E lui, con estremo coraggio, coltivava l'ardente speranza che qualcun altro le avesse già spiegato che i bambini NON nascono sotto i cavoli.
La risatina sommessa di Marin dell’Aquila, durante l’ultima puntata al Santuario, avrebbe acquistato un nuovo e assai meno disturbante significato.
No, nessuno poteva essere abbastanza preparato, continuava a ripetersi anche quella mattina, sforzandosi di scrutare la maschera inespressiva della sua allieva, quasi fosse stato un volto vero con cui confrontarsi. Era diventato facile, dopo tutto quel tempo, decifrarla partendo da gesti insignificanti, o dal tono di voce. O capire che la temperatura stava scendendo a precipizio dal sangue che a volte, durante gli allenamenti, le colava lungo il collo, scivolando sotto il metallo troppo freddo. Si era sorpreso qualche volta a fantasticare che se la togliesse dal viso, quella prigione portatile, che costringeva lei a mangiare rintanata in camera sua come una reietta e dava a lui l'impressione di vivere con un fantasma. Aveva un vago ricordo di occhi grandi e arrossati dal vento ghiacciato, il giorno del suo arrivo sul K2, e di quegli stessi occhi, adulti, che in un'altra vita l'avevano fissato con curiosità e sfida malcelata(1).
Chissà come l'avrebbero guardato, adesso.
Ma le regole erano regole, soprattutto quelle dettate dalla sua stessa Dea, e lui era lì per insegnargliene il rispetto.
Così, si era limitato a passarle, brusco e silenzioso, un puzzolente unguento contro i geloni che le vecchie del villaggio di Askole producevano da generazioni. Lo dicevano miracoloso, e forse lo era. Tuttavia, ogni volta che lei apriva la boccetta e quell'odore mefitico si diffondeva per tutta la loro catapecchia, scivolando sotto la porta chiusa con la determinazione di un serial killer, lui ribadiva a se stesso la sua ferrea convinzione di voler restare all'oscuro, tanto della composizione, quanto delle modalità di preparazione di quell’immonda schifezza.

 — Maestro… — Impiegò qualche istante per metterla a fuoco, lei e la sua mano tesa. Il tè era finito da un pezzo, e lui non se n’era neppure accorto. — La tazza, per favore. —

Camus gliela porse distrattamente, osservandola attento mentre la riponeva nel mastello in cui, a fine giornata, le toccava lavare tutte le stoviglie con pazienza, una spazzola malconcia e un po' di neve sciolta. C'era qualcosa di strano, si disse, nel suo modo di muoversi, di parlargli. Una sorta di affannata lentezza. Inspiegabile, dopo una notte di buon sonno. Considerò l'idea di chiederle spiegazioni, ma poi decise di lasciar perdere. La ragazzina aveva mutuato da lui la pessima abitudine di restare in piedi fino a tardi per leggere o pensare a chissà cosa, e nessuno dei suoi rimproveri si era dimostrato in grado di fermarla.
"Finora, almeno."
Quella mattina, si ripromise, avrebbe imparato a dargli ascolto. Era magari un po' presto per le sue possibilità, ma da qualche tempo stava ponderando di sottoporla ad una prova più impegnativa del solito, la prima in cui avrebbe davvero rischiato la vita. Perché, se avesse ceduto, lui non sarebbe intervenuto, non questa volta. La Montagna sapeva essere dura, e crudele, ed educare con il sacrificio. Ed era ora che lei si confrontasse di persona con la Madre che custodiva il premio finale.

 — Preparati, Altair, oggi vieni con me sulla vetta. — scacciò in fretta quel presentimento sgradevole che rischiava di minare la sua decisione. Come per tutti loro, la strada di quella ragazzina sarebbe stata lastricata di speranze, sofferenza e quasi certamente morte. Sarebbe stato inutile e dannoso risparmiarla ora. Se non si fosse mostrata all’altezza… beh, inutile perdere altro tempo.



~.~



A ripensarci, anche a distanza di mesi, avrebbe continuato a darsi del demente. Per quella superficiale sicurezza di prevedere ogni evenienza, e di sapere sempre cosa passasse per la testa alla sua allieva, e soprattutto di non aver più nulla da imparare. Avrebbe dovuto sapere che non era da lei battere la fiacca, o fingersi stanca per ottenere sconti. L'aveva ignorata per tre giorni, mentre le sfuggivano confusi gemiti di fatica, e sembrava che le gambe le venissero meno durante i tratti di arrampicata. Su uno degli ultimi crinali, poi, aveva evitato a malapena di finire travolta da un seracco(2) sbriciolatosi qualche decina di metri al di sopra delle loro teste.
Lei pareva non averlo neppure sentito, mentre la rimproverava seccamente per quella distrazione, e in modo ancora più stentato aveva percorso gli ultimi metri.
Eccolo lì, lo spettacolo più bello di tutti, dopo un'aurora boreale beninteso: il mondo ai loro piedi e la sensazione che nulla fosse più pulito di quell'aria tersa.
Per quanto mortalmente fredda e incredibilmente scarsa di ossigeno.
Camus si chinò, raccolse un po' di neve e l'assaggiò. Sapeva di gelo familiare, di ozono e di libertà, e per un attimo il ragazzo di vent’anni che dormiva nel corpo del Maestro si sorprese a desiderare che lei potesse condividere quella sensazione, e finire per amare quel posto quanto lui.
Si voltò a guardarla, barcollava e tentava di nasconderglielo. Ma annuì convinta, piena di ammirazione.
E poi cadde.
Si lasciò andare, semplicemente, a faccia in giù nella neve, scivolando lungo la lieve pendenza. Cadde con tanta delicatezza che se non l'avesse visto con i suoi occhi Camus avrebbe creduto che fosse svanita. Per un attimo, anzi, aveva pensato che la ragazzina prendesse lo slancio per spiccare il volo.
E invece, eccola miseramente svenuta. Si avvicinò, rigirandola sulla schiena. Se lo aspettava, ma non così presto. Almeno verso sera, quando la temperatura sarebbe scesa attorno ai -40° e anche lui avrebbe cominciato a desiderare una zuppa calda e quel loro caminetto sempre intasato che rendeva il loro un ménage a trois con il monossido di carbonio.

"Poteva andar peggio…" Magnanimamente, Camus decise di considerare la prova superata. Dopotutto ce l'aveva fatta, e risparmiandogli la seccatura di negarle il suo aiuto. Un piccolo moto d'orgoglio non riusciva proprio ad impedirselo… anche se appena tornati a casa una strigliata da levare il pelo non gliela avrebbe tolta nessuno, quella piccola incosciente nottambula doveva imparare a dosare meglio le forze.
E lui avrebbe dovuto riportarla indietro prima possibile. L’embolia polmonare sarebbe stata un pessimo risultato, a quel punto.
La toccò appena, pensando di sollevarla tra le braccia, ma la ragazzina si irrigidì, e lui capì che doveva essere rinvenuta. Si stava portando le mani all’addome, un gesto istintivo e accompagnato da gemiti di dolore. E poi si allontanò da lui come se avesse visto il diavolo, chiedendo perdono a raffica.

 — Basta così. Non è così grave, Altair, la prossima volta farai meglio. Intanto… —

Intanto c'era ancora tempo per un'occhiata al candido mucchietto su cui lei si era trovata pochi istanti prima… e decidere che la lezione di educazione sessuale che aveva temuto per mesi sarebbe stata la benvenuta, di fronte a quella monumentale sorgente di imbarazzo.
Di colpo tutto era chiaro, la stanchezza, l’affanno, i riflessi rallentati e anche la repentina scomparsa di un certo numero di bende da allenamento.
Poteva una maschera arrossire? In quel momento avrebbe giurato di sì, eccome. O forse era il suo stesso sangue, che affluiva irruente al suo cervello poco ossigenato, a fargli vedere tutto rosso.
No, sul serio: poteva evitare di pronunciare una sola parola, contando su un congelamento di buon cuore?
Rimasero a fissarsi per un tempo infinito, misurando i battiti e contando i respiri. Poi la ragazzina si ritirò ancora più indietro, tremando come una foglia. E lui, povero imbecille, con gli occhi incatenati alla striscia rosata che aveva accompagnato i movimenti maldestri della sua allieva sulla neve, era utile esattamente quanto un due di picche.
"Bene. È ora, che non può andar peggio…"
Lei teneva il viso inchiodato a terra, e balbettava qualcosa di inintelligibile. Poi si piegò di nuovo in due. Tossì finché lui non fu certo che avesse sputato un polmone e qualche pezzo di stomaco. Inghiottiva aria fredda, tentando disperatamente di non cedere.
"Fare qualcosa prima che si strangoli, ecco una buona idea."
Camus le si materializzò alle spalle, e prima che Altair pensasse di reagire la maschera era già sparita.

 — Smetti di trattenerti, ragazzina. — Lei restava rigida come una bambola di legno, terrorizzata, e Camus si chiese se, tutto sommato, scaraventarla di sotto non potesse rivelarsi un atto di solidarietà. O di contraccezione tardiva. —Non ti sto guardando — le fece notare, appena più morbido.

 —Ma-maestro… non c'è… — come suonava strana la sua voce, senza filtri a distorcerla. La ragazzina s’interruppe, scossa dai conati. Lui la sostenne con decisione. E pregò tutte le divinità della terra che almeno finisse in fretta.

 — No, non c’è bisogno che tu dica niente — la rampognò, brusco. Con una mano continuava a reggerla, con l'altra le tratteneva i capelli arruffati. Erano più scuri di quando era arrivata, lo notava soltanto allora. "Non ho notato parecchie cose, a quanto pare."

 — Maestro Camus… va meglio adesso — sussurrò Altair, ancora di spalle, intenta a ripulirsi la bocca con la neve. Lui avrebbe preferito seppellircisi, ma si sarebbe strangolato con le sue stesse mani piuttosto che lasciarglielo intendere. E poi, qualcuno doveva pur restituirle la maschera.

Gliela porse guardando altrove, e lei gliela strappò via con disperazione. — Gra… grazie — gemette, la voce di nuovo metallica, tentando di restare raggomitolata su se stessa finché le sue viscere non avessero smesso di tentare la fuga dalla sua pancia. Oh, ma lei poteva aspettare. Anche fino alla morte, pur di non guardarlo in faccia, mai più.
Camus rimase a fissarla per qualche altro istante, poi si mosse, la rapidità di un Santo di Athena dalla sua. E l’esclamazione disperata della sua allieva se la portò via il vento, inascoltata.


~.~



L’Anziano di Askole, un brav'uomo dalla mente aperta e solo vagamente devota alla sua tradizionale fede musulmana, l'aveva visto arrivare di corsa soltanto qualche minuto prima.
Doveva trattarsi di quel pittoresco capellone che era salito alla casetta nascosta un paio d'anni prima e che qualche giorno dopo era stato raggiunto da una bambina bionda e irrigidita dal freddo. Come da accordi, sua moglie le aveva consegnato una maschera di metallo, spiegandole come indossarla, quindi la piccola era stata mandata verso la Ke-tu(3) con uno dei portatori più fidati. Lui era tornato di tanto in tanto per far compere nel minuscolo emporio, ma lei non l'avevano più rivista, ed erano quasi certi che fosse finita in fondo a qualche crepaccio. O a far da cena al ragazzo più grande durante una tormenta particolarmente lunga.
Askole era un villaggetto minuscolo che si raggiungeva a piedi, l'ultimo prima della solitudine dell'alta montagna, l'unico dove procurarsi il necessario per la sopravvivenza. Gli abitanti fingevano di non sapere nulla, e quegli strani visitatori si rendevano invisibili, era quello il patto dalla notte dei tempi. Ed era anche il segreto di Pulcinella. Sapevano tutti, fin da quando iniziavano a camminare, che altri mille metri più in alto c'era una casetta incassata in una rientranza della montagna, fuori dalle piste battute e impossibile da trovare senza conoscere la strada, e che ogni tanto stranieri di tutti i colori e devoti ad una bislacca divinità forestiera andavano ad occuparla. A volte si trattava dei loro lontani cugini dello Jamir, vestiti di lunghi abiti dei colori della terra bruciata, dalla pelle d'alabastro e dai distintivi segni rotondi sulle arcate sopracciliari. Lui stesso ricordava, benché all’epoca fosse soltanto un bambino, che decine d'anni prima uno di loro, antichi discendenti del perduto continente di Mu, era apparso con uno scrigno d'argento sulle spalle, incamminandosi verso la Ke-tu senza permettere a nessuno di accompagnarlo.
Quando ne era ridisceso, era molto meno carico. E quella notte, mentre il forestiero e suo nonno conversavano di fronte ad una di quelle sue tisane che avrebbero resuscitato i morti, lui era rimasto ad ascoltare incantato quello Shion raccontare della cassa misteriosa, dell'ultimo desiderio della sua proprietaria, che per lui era stata come una sorella. Lei se n'era servita per proteggere la giustizia, aveva detto, con la voce saggia e roca di vecchiaia mai rassegnata, e prima o poi sarebbe giunto qualcuno in grado di ereditarla.
Fino ad allora, a custodirla sarebbe stata la Grande Montagna.
Quello che accadeva lassù era un mistero che nessuno di loro aveva troppo interesse a svelare, ma nel corso degli anni era capitato di frequente che di quegli stranieri, poco più che bambini, molti non tornassero indietro. I baltì avevano ignorato bellamente anche questo dettaglio, per generazioni. Ai loro occhi, quegli uomini e donne non erano molto diversi dalle decine di ricchi pazzoidi che tutte le estati transitavano per il villaggio prima di tentare la scalata a qualcuno dei giganti che si stagliavano all'orizzonte, appena oltre il ghiacciaio del Baltoro, con l'unica differenza che questi devoti alla Dea Vattelapesca non avevano mai messo a repentaglio la vita di alcuno dei loro uomini. Differenza sostanziale, ai loro occhi, che rendeva gli abitanti del villaggio istintivamente ben disposti nei loro confronti.
Così, in quella tiepida giornata estiva, i due occupanti della baracca erano scesi. Anzi, più precisamente, lui era sceso a precipizio, reggendo su una spalla una cosa che da lontano poteva venire scambiata per un sacco di patate. Il sacco protestava qualcosa, in effetti. Con estrema debolezza, per dirla tutta. Il ragazzo, per tutta risposta, aveva bussato alla porta della levatrice del villaggio, scambiato qualche parola, e posato a terra il suo carico soltanto il tempo necessario a sospingerlo all’interno della casetta di mattoni grezzi.
Il vecchio aveva scosso il capo, e poi era andato a fumarsi in santa pace la sua pipa aromatica nei campi di orzo estivo. Al suo ritorno, era certo che ci sarebbe stato qualcosa di cui parlare.

 “E adesso?”
Camus era rimasto a fissare la porta che aveva inghiottito Altair per un bel pezzo, temendo il peggio, e solo quando era stato del tutto certo che non ne sarebbe uscita di corsa si era concesso un profondo e meritato sospiro di sollievo. Si guardò attorno, il sole stava iniziando la sua lenta parabola di discesa. E al ferreo imbarazzo e alla vergogna di non aver previsto in alcun modo una circostanza tanto banale, si aggiungeva un meraviglioso senso di liberazione.
Nulla poteva peggiorare quella giornata. E la giornata, glielo dicevano il sole e la temperaratura, sarebbe presto finita.

 — Giovanotto? —

“Ma cosa…” Camus voltò la testa a destra, poi a sinistra. La porta della casa della levatrice aveva cigolato, ma non c’era nessuno in vista. Aveva le traveggole, ora ne era certo. Aveva immolato gli ultimi neuroni alla causa della giustizia, e senza neanche la consolazione di un’orazione funebre.

 — Qui, giovanotto… — la voce  proveniva da un punto molto in basso, attorno alla sua cintura. Camus chinò lo sguardo quanto bastava per inquadrare una figura molto anziana e molto sferica, il sorriso bonario che rifletteva con lampi di luce i raggi del sole morente. Aveva l’aspetto di una donna, o quanto meno le vesti. Non avrebbe mai creduto che un dente solo potesse veicolare un tale potere scenografico.

 — Ehm… sì? — s’informò, facendo appello a tutte le norme di savoir-faire che l’educazione cavalleresca era riuscita a inculcargli. E anche a quel dizionario di lingua urdu che aveva rimediato a Skardu prima di seppellirsi in quel luogo dimenticato da Zeus e da tutto il suo Pantheon.

 — Credo che la tua sorellina ne avrà ancora per un po’. Hai fatto bene a portarla qui. —

“Eh?” — Lei non è… — Camus chiuse la bocca di scatto, in un disperato automatismo di sopravvivenza. L’aveva appena sentito, il suo istinto, urlare a perdifiato di allontanarsi in fretta da quella minaccia ricoperta di lana di capra. All’istante, se possibile. E aveva tutte le intenzioni di dargli ascolto.

 — Su, vieni con me, ragazzo. Non puoi restare lì tutto il tempo. Ti offro una tazza di tè. — Non c’erano dubbi. Lei lo fissava come se fosse affamata. E la schiena del Cavaliere fu percorsa, in men che non si dica, da brividi piuttosto spiacevoli. “Non ti insegnano ad affrontare certe insidie, durante l’addestramento.”

 — Non si disturbi, signora. Ma grazie. — le rispose, mascherando in fretta un sussulto di orrore. “Dove sono le valanghe quando servono?”, invocò tra sé, improvvido, prima di ricordare con tristezza che erano in piena estate.

Ma la nonnina sorrise ancora, senza dar segno di aver colto alcunché della sua lotta interiore, e gli artigliò un polso. Una stretta sorprendentemente forte. — Suvvia giovanotto, fa’ un po’ di compagnia a questa povera vecchia — uggiolò, con aria compassionevole.

Camus lanciò un’occhiata alla porta dietro la quale Altair stava apprendendo i misteri dell’esser donna, quindi al viso gioviale della vecchia, per finire alla mano che la donna serrava. La scelta era facile, dopotutto: da un lato la Polvere di Diamanti (sei un Cavaliere, per la miseria, non puoi congelare le vecchiette!), dall’altro una ritirata precipitosa (d’altra parte, non sei neppure un gerontofilo).
Oppure…
Non c’era alcuna speranza di uscirne con dignità. In compenso, ora aveva l’esatta percezione di quello che doveva provare una volpe presa dalla tagliola.
E lui non aveva intenzione di rosicchiarsi la mano fino a staccarsela, non era degno di un Santo di Athena.
Con un sospiro discreto, si arrese.

 — Allora, se non è di troppo peso, accetterò una tazza di tè. Solo un momento, però — si affrettò a chiarire, alla vista dell’entusiasmo dell’attempata signora. La donna bussò alla porta della levatrice, borbottò qualche parola in quel loro misconosciuto dialetto simil-tibetano, e la richiuse sotto lo sguardo perplesso del prode Cavaliere. Si incamminarono, la nonna saldamente appesa al suo braccio.

— A proposito, bel giovanotto. — Camus si chinò appena, educatamente. — Mio marito non c’è. —

E il ragazzo sentì, d’istinto, tutti i brividi arrestarsi. La schiena era diventata ghiaccio.

~.~


“D’accordo. Passi la bottiglia di acquavite, si sa che l’alcool fa saltare i freni inibitori. Passi il tè  del decennio scorso, lo sappiamo tutti che qui i commercianti arrivano un anno sì ed uno no. Ma questo è troppo, per le mutande di Dioniso!”

Camus continuava a ripeterselo, lo sapeva, soltanto per farsi forza, perché il suo era il coraggio di una bestia presa in trappola. La moglie dell’Anziano continuava a girargli attorno, premurosa, sfiorandolo come per caso e sempre più vicina alla meta. Aveva anche rimosso metà degli strati di lana che normalmente si frapponevano tra la sua appassita femminilità e lo sventurato sguardo altrui. Quello che mostrava non era poi molto, ma Camus, intrepido, sperò soltanto che il ricordo di quelle ginocchia non tornasse a tormentarlo per ogni notte a venire.
La donna, ignara della sua lunga storia di tolleranza all’alcool, continuava a riempirgli il bicchiere, forse nel tentativo di fargli venir voglia di rimuovere quei provvidenziali ultimi strati. Quanto a lui, ormai beveva solo per dimenticare.
Era sotto scacco. E Altair ancora non accennava a tornare.

 — Ragazzo, tutto bene? Hai l’aria sofferente… —

“Perché, cosa c’è che non va? Sono ostaggio nell’antro di una maniaca attempata e a quanto pare priva di ogni senso della decenza. Direi che è il caso di brindare ancora…”

 — Su, prendi un altro sorso… a me rimette sempre a posto lo stomaco… — pigolò la donna, versando un altro cicchetto.

“Ripetilo, Camus. Proteggere l’umanità…”

 — Hai un nome che non avevo mai sentito, sai? — riprese quella, giuliva.

“…combattere per la pace, in nome della Dea…” Di fronte al suo silenzio, era d’uopo che chiunque conservasse un po’ di sale in zucca prendesse la saggia decisione di chiudere il becco. Quasi sempre. Di solito. Non quel giorno, evidentemente.

— E dimmi, un bel giovanotto come te non ha la fidanzata? —

Camus riprese il suo privatissimo mantra, sempre più desolato. “…aiutare le vecchiette ad attraversare la strada…”

 — Nessuna? Non avrai qualche problema… —

“Magari questa la spingiamo giù dalla Karakoram Highway.”

 — Ah, se solo avessi qualche anno di meno… — chiocciò la signora, estraendo un plico di fotografie corrose dal tempo da un cofanetto di legno intarsiato.

“Avresti l’età di Matusalemme” malignò lui, posando gli occhi riluttanti su una delle immagini in bianco e nero.

 — …ai miei tempi, avresti pensato che fossi un bel bocconcino… —

“Certo. Nel braccio della morte, magari.” Camus si schiarì la voce, restituendole la fotografia. — Grazie per l’ospitalità, Venerabile, ma ora dovrei proprio andare. —

La donna prese ad avanzare verso di lui, lenta e apparentemente inarrestabile. —Oh, e sei anche beneducato.— cinguettò. — Se la tua ragazzina non se la sentisse di tornare alla vostra baita potresti restare qui… per la notte. —

“Cosa?” con calma e perfetta padronanza di se stesso, Camus si ritrovò a pensare ad una scena di un vecchio film dell'orrore in cui un infernale pupazzo (sdentato anche lui, lo notava soltanto adesso) attirava lentamente una recalcitrante vittima sotto il letto, per farne polpette.
La Polvere di Diamanti, doveva ammetterlo, era un’opzione sempre più invitante. O magari la bottiglia. Sembrava solida e meno compromettente. Aioros, pace all’anima sua, non avrebbe mai approvato, ma era pur vero che Aioros non era lì. Non era più lì da un pezzo, lui, di certo si beava nel Paradiso dei Giusti e non avrebbe mai dovuto preoccuparsi di giovani incoscienti preda del menarca o di vecchie allupate provviste di mariti evidentemente non all’altezza della situazione.

Proprio in quell’istante, né un secondo prima e neppure uno dopo, la porta si aprì con un cigolio da film dell’orrore. Camus si predispose a dare l’addio a quel poco di dignità che gli restava, rintanato in un angolo, saldamente aggrappato ad una bottiglia di acquavite e stretto d’assedio da una vecchia carampana che un giudizio benevolo avrebbe potuto al massimo paragonare ad una sorta di nonna lasciva di Cappuccetto Rosso. “Mia Dea, non mi procureresti una bella missione all’equatore?”
La levatrice del villaggio varcò la soglia a passo di carica, trascinandosi dietro un fagotto avvolto in un enorme scialle di lana di capra.
Con una seconda occhiata, l’occhio del maestro notò un ciuffo di capelli biondicci spuntare da una piega della stoffa.
Al terzo esame, il senso di ragno di Camus ebbe modo di notare come la donna lo stesse osservando con grande attenzione, il disgusto a malapena contenuto dalla dignità professionale.

 — Maestro? — Altair, o quel poco che riusciva ad emergere dal suo sudario a l’eau de chèvre. Neppure lei doveva aver passato un buon pomeriggio. — Maestro Camus, possiamo andare, se vuoi. —

“Che la Dea ti benedica, ragazzina.” Camus posò delicatamente la bottiglia di acquavite, tentando di riprendere un certo contegno. Impresa assicurata con la ragazzina mascherata, impalata sull’attenti, difficile con la vegliarda (che continuava a fissarlo come se si fosse transustanziato in un appetitoso bignè umano), impossibile con la sedicente cerusica, che in quel momento stringeva irosamente il pugno destro, come ad impugnare un bisturi per conficcarglielo Athena sola sapeva dove.

 — Spero tu stia meglio, Altair — tentò di assicurarsi. Pericolo geriatrico o no, non sarebbero tornati indietro a meno che l’emergenza non fosse davvero rientrata, non aveva certo intenzione di sopprimere la ragazzina con le proprie mani. Per lo meno, non al di fuori di un regolare allenamento.
La sua allieva annuì, nascondendo il volto tra le mani. Pessimo, pessimo segno.

 — Oh, lei sta bene, per ora — interloquì la levatrice, tagliente. — Anche se la sua situazione potrebbe di certo migliorare. —

“Prego?”

Altair sollevò la testa di scatto, compiendo due passi esitanti verso di lui. — Maestro… — tentò, un pigolio incerto e in qualche modo colpevole.

 — Ancora con questo ‘maestro’… — borbottò la donna fra sé e sé, frapponendosi con decisione tra i due. — Venerabile Rasha(4) — si rivolse alla padrona di casa, chinando appena il capo in segno di rispetto. — so che non è consuetudine interferire nelle faccende degli abitanti della baita, ma… —

Camus lo avvertì ancora, il familiare brivido di avvertimento, solo più rivolto alla sua integrità fisica. Chiaramente, questa nuova aggiunta pareva interessata a tutto fuorché alle sue virtù sottocoperta, benché constatarlo non lo rassicurasse affatto.  

La maniaca dedicò all’altra donna un sorriso volenteroso quanto privo dei necessari attributi. — Mia cara Samira, sai che la tua opinione è per noi sempre preziosa. Anche se in questa occasione, forse, avresti potuto occuparti più a lungo della tua paziente. —

Due identici sguardi di riprovazione trafissero la donna, ugualmente scandalizzati, anche se per motivi diametralmente opposti. La levatrice ne approfittò per riprendere, con più foga — La mia giovane paziente gode di ottima salute, Venerabile, sebbene una tale magrezza non sia appropriata per una donna che aspiri a divenire madre… — Un’occhiata inceneritrice al capellone — … a tempo debito. È per altri aspetti che gradirei conferire con il Saggio Hashim, prima di riconsegnare la ragazzina a questo… individuo. —

— Prego? —

 — Non fingere con me, pervertito, ho compreso bene tutto —

La sua conoscenza della lingua baltì era quanto mai sommaria, Camus doveva riconoscerlo, ma non credeva di riuscire a perdere colpi anche con l’urdu. Eppure, pareva proprio che quella donna lo avesse bollato come un…

 — Porco… — la sentì rincarare a bassa voce, prima di strappare rapidamente la coperta di dosso alla sua allieva. Camus registrò vagamente la collezione di macchie nerastre sugli avambracci scoperti della ragazzina, compiaciuto perché alcuni accennavano già a sbiadire. La vecchia trattenne il respiro e, per la prima volta, lo fissò con intenzioni che non avevano nulla a che vedere con quello che poteva nascondere sotto la cintura.

 — Signora Samira, forse non mi sono spiegata bene — tentò di intervenire Altair, timidamente. — È necessario che mi fortifichi e i lividi sono soltanto conseguenza dell’addestramento. Questi me li sono procurati quando il Maestro mi ha scaraventato contro le rocce accanto alla nostra casa, durante l’allenamento. Ma è stata colpa mia, perché non sono stata brava a schivare il colpo. —

Lo sguardo inorridito delle due donne si trasformò, all’istante, in una la lama di coltello diretta alla sua gola. Camus si passò una mano discreta sul viso oramai terreo. “Di bene in meglio, Aquarius. Ricorda di portare a Kido una dozzina di rose di Aphrodite, la prossima volta. Di quelle speciali.”(5)

 — Comprendi, ora, Venerabile? —

La “Venerabile” aveva, in apparenza inavvertitamente, lasciato vagare lo sguardo più in basso del necessario, lungo la maglietta un po’ troppo sdrucita, fino ai calzoni di cuoio. Camus decise, immediatamente, che alla prossima visita al Santuario si sarebbe procurato della biancheria in metallo. — Oh, ma insomma, Samira! Non posso credere che questo ragazzo abbia davvero… —

 — Oh, ma il peggio non è questo, Venerabile Rasha. — rincarò la donna, ormai lanciata a capofitto nella sua crociata — il peggio è accaduto quando si è seduta. — Prima che chiunque potesse intervenire, la donna aveva già palpato il sedere della ragazzina, che lanciò un guaito colpevole, prima di proteggere la parte lesa con entrambe le mani, del tutto simile ad un cucciolo bastonato. — Questo… questo… individuo la sottopone a pratiche innominabili, e la ragazzina crede che se sopporterà abbastanza lui le regalerà una… una… come diavolo si chiama! Crede che lui ne farà una guerriera! —

“Devo scoprire come vanno le cose in Siberia. Se buon sangue non mente, Alëša sarà presto inseguito con torce e forconi.”(6)

Ignorando coraggiosamente quel certo dolorino che cominciava a martellargli il cranio, Camus cercò almeno di avvicinarsi alla sua allieva quel tanto che bastava per constare i danni. La donna infernale rispose afferrando una spalla della ragazzina, ignorandone a bella posta i sussulti di dolore.

 — Ora basta, Samira. — La Venerabile Rasha, first lady di Askole, si erse in tutta la sua statura, arrivando a sfiorare con la testa lo sterno della ragazzina. — Non puoi accampare accuse così gravi sul conto di questo giovane senza la minima prova. — Per la prima volta, a Camus parve di provare un minimo moto di riconoscenza per quella donna e per il suo sorriso simile ad un buco nero.

 — Ma, Venerabile… —

 — Oh, Samira, dovresti smettere di giudicare dalla prima occhiata. Questo ragazzo mi ha intrattenuto per una giornata intera, e non ho mai avuto il sospetto che sapesse comportarsi da uomo. —

Poche, pochissime volte Camus dell’Acquario si era trovato così a corto di parole. Parole poche, certo, ma parolacce parecchie, se solo avesse avuto un animo più triviale. Si avvicinò alla sua allieva, immobile, infagottata e interdetta, e provvide ad allontanarla dalla medichessa pazza. Altair si aggrappò al suo braccio, come se non avesse atteso altro per tutto il tempo. Barcollava ancora un po’, e forse aveva la febbre.
Il dovere prima di tutto, pensò il Cavaliere, mettendo da parte alcune encomiabili fantasie su bottiglie di acquavite e stricnina a buon mercato.

 — La ringrazio dell’apprezzamento, Venerabile Rasha, ma credo che ora dovrei ricondurre a casa la mia protetta. Ha senza dubbio bisogno di cibo e di un letto. —

 — Letto, eh? L’avevo detto che era un maniaco… — ringhiò la levatrice, tentando di afferrare Altair per un polso.

 — Letto? — esclamò la vecchia, tutta contenta. — Qui ce ne sono quanti ne volete. Anche per te, valente maestro… —

 — Letto? Mi sembra un’ottima idea. — il Saggio Hashim era comparso senza che nessuno lo notasse, la pipa contro i reumatismi stretta in pugno e l’eterno sorriso sul volto solcato di rughe. — Dovrete affrettarvi. Tra poche ore sarà notte. —

Camus tirò un sospiro di sollievo tanto intenso quanto clandestino, ringraziando tutte le divinità del pantheon greco, e già che c’era, anche il Profeta, Allah e chiunque potesse far piacere a quel Babbo Natale fuori stagione.

 — Venerabile, quelle ferite… —

“D’accordo, ora mi sono stancato.” Camus, al colmo della frustrazione, dedicò a quella donna infernale un solo, breve sguardo, di quelli che spingevano Altair a nascondersi nell’armadio e gli allievi al Santuario a dissolversi nell’etere. Rimasero tutti in silenzio, i tre più anziani presi a fissare stupefatti le nuvolette di condensa dei loro respiri, nella capanna improvvisamente gelata, il giovanotto imperturbabile e la ragazzina solo vagamente sorpresa.

“Quasi se lo aspettasse…”

 — Quelle ferite, ragazza mia, provano soltanto che il destino di quella bambina, già da ora, percorre strade che nessuno di noi tre può comprendere — intervenne rapido il vecchio, fissando senza più alcuna traccia di ironia ora il focolare pieno di brina, ora la donna, che era arretrata fino alla parete. — Ed io credo che tu ti sia sbagliata sul conto di questo giovanotto, molto più di quanto immagini. —

 — Quindi credi che possa anche darci sotto, di tanto in tan… — Rapido come un serpente, l’Anziano tappò la bocca della sua signora con quello che restava della sua pipa rilassante.

 — La ringrazio per il prezioso aiuto, Samira — era la prima volta che il maiale sfoggiava quel tono, in sua presenza, e per un istante la levatrice si sentì davvero come se potesse ghiacciarle il sangue nelle vene. — E credo che ora sia davvero il momento di congedarci, se riesce a scostarsi dalla porta. —   

La donna accettò di liberare il passaggio, confusa e per nulla convinta. C’era, lo sapeva, qualcosa di ambivalente  nel contegno e nelle parole di quel dannato capellone. Distacco e una sorta di pudica premura per quella ragazzina che chiaramente lo considerava un eroe. Il Sommo Hashim di certo sapeva più di quanto suggerisse il suo atteggiamento da nonno svagato, ma non aveva nessuna intenzione di essere più esplicito. Ma c’erano quelle ferite…

 — D’ora in poi questa ragazzina verrà tutti i mesi a farsi controllare.— Stava fissando il delinquente con cattiveria inesprimibile, ma era già una resa. Camus annuì, rigido, ma sentendosi lieto, all’occorrenza, di sapersi muovere alla velocità della luce.

 — Ma certo! — proruppe Dente Solitario, gioviale. — questo bravissimo ragazzo accompagnerà giù la sorellina ogni volta che ce ne sarà bisogno, non è vero? — Sorrise, inquietante, una mano improvvida saldamente avvinghiata al ginocchio del bravo ragazzo.
Che si sottrasse alla presa con una manovra tanto discreta quanto degna della rapidità che sfoderava in battaglia. “Aspetta e spera, vecchia megera.”

Samira gli lanciò un’altra occhiata disgustata e se ne andò, borbottando alcuni improperi in lingua baltì, e altre frasi più comprensibili ma non proprio amichevoli sui bruti che rapiscono le ragazzine appena puberi e le assoggettano ad ogni sorta di indegnità. Il Venerabile Hashim, oculatamente, fece finta di non sentire. E mentre la porta si chiudeva alle loro spalle, Camus riuscì a sentire ancora la sua carceriera protestare che, da veri maleducati, non li avevano neppure invitati a cena.

~.~


Era lunga, la strada di casa, lunga e faticosa anche per chi non avesse dodici anni, un improvviso calo di globuli rossi e una coperta da venti chili sulle spalle.
Camus sogguardava dall’alto la sua ragazzina, cercando di non farsi notare. Impresa facile, quando la tua compagna è alta come un tappo di sughero, incespica ad ogni passo e tiene lo sguardo incollato al suolo, evidentemente preda di un parossismo di vergogna.
Aveva un aspetto così miserando che da qualche parte, nelle sue orgogliose viscere, si stava facendo strada un vago desiderio di metterle un braccio attorno alle spalle per consolarla. “È fuori discussione, rammollito.”
Scosse appena la testa, tra sé e sé. “Da quando ci sei tu, non so mai cosa aspettarmi”, constatò, rendendosi conto che per un giorno intero non aveva pensato ad Aioros, a Saga e al marciume che l’avrebbe atteso ad Atene, quando fosse rientrato. Non gli era tornato alla mente Shura del Capricorno coperto del sangue del suo - del loro - amico, e non si era preoccupato per Milo, il suo amico di sempre, solo e all’oscuro di troppe cose, in quel covo di serpenti. Per un giorno, uno solo, aveva lasciato correre.
Sì, era tutto merito della ragazzina, anche se lei non poteva rendersene conto, e Camus era certo che non glielo avrebbe detto mai.

 — Maestro… — Altair alzò il viso verso di lui, in attesa di un cenno.

 — Sì? — affettò lui, sbrigativo, a disagio come se lei potesse leggergli nel cervello quei pensieri inopportuni.

 — Io.. ecco… avrò davvero bisogno di tornare tutti i mesi — bisbigliò la ragazzina, mortificata.

Lui soffocò discretamente, al pensiero di cosa avrebbe dovuto includere nella lista dei loro acquisti, da quel momento in poi. Un paio di secondi estremamente penosi, prima che il suo fine intelletto da Sacro Guerriero prendesse il sopravvento. — Sono certo che troveremo un modo, Altair — tornò a guardare dinanzi a sé, nascondendole il tenue sorrisetto che tentava di farsi strada sul suo volto. Due piccioni con una fava, certo. Semplice ed elegante. — Potresti imparare a fare la spesa anche da sola, ad esempio. —

~.~


Cinque anni da allora. Quattro anni per l’investitura della sua allieva, un secondo per perdere la sua fiducia, svariati mesi per ritrovarla, per ritrovare un’alleata e non più una sottoposta.
Sembrava incredibile che la loro antica catapecchia non fosse ancora crollata. E, addirittura, fosse di nuovo piena di luce, calore e sempre troppo fumo. Kelly irruppe nella stanza comune all’alba, appena un paio di minuti dopo di lui. La pubertà era un lontano ricordo, le visite dalla levatrice pure, la giovane donna che aveva davanti adesso aveva riscoperto il suo nome e tutto il suo passato e complottava con lui per preparare al mentecatto il piatto che da tredici anni meritava di vedersi servire.
La sua allieva sorrise, togliendogli di mano il vetusto samovar da viaggio che lo seguiva dai tempi della Siberia, un sorriso affettuoso e beffardo, lontano anni luce dal timore ammirato dei tempi più lontani e dal disprezzo feroce di appena qualche mese prima. Ora Camus sapeva come sarebbe stato guardarla in volto tutti i giorni.
Era come avere qualcuno che ti vedesse per ciò che eri davvero.

 — Lascia perdere il tè, ci penso io— trillò lei, insolitamente di buonumore.


“Quale onore, ragazzina.” — Tutta questa premura non ti farà male? — osservò con noncuranza, cedendole il posto. La grande spia che gli serviva il tè… tempo prima avrebbe rischiato di scoprirlo avvelenato.

Lei saltellava su una ciabatta sola nei pressi della stufa a legna, armeggiando con le braci con la familiarità di chi si è occupato della stessa incombenza per anni. — Curo soltanto i miei interessi, maestro — sogghignò,  — La colazione è il pasto più importante della giornata. E i tuoi tentativi di uccidermi non cominceranno prima dell’allenamento. —

 — Sarebbe ora che mi rendessi le cose più difficili, ragazzina… — la rimbeccò lui senza pensarci un secondo, come da copione. La piccola teiera in cima al samovar spandeva un aroma invitante, molto più di quella sciacquatura di piatti che bevevano anni prima. Forse perché stavolta se n’era occupata lei, che conosceva sin troppo bene lui e la sua leggendaria idiosincrasia per tutto ciò che odorasse di faccende domestiche.

Kelly gli sorrise di nuovo, soave, allungando il tè concentrato con l’acqua bollente. — Sarebbe ora, maestro. Chissà che questa non sia il giorno in cui verrai accontentato… —

C’erano state mattine in cui Camus s’era chiesto perché si alzava dal letto. C’erano stati il rancore e l’angoscia, delusioni snervanti, e sudatissime e fin troppo brevi vittorie.
Per troppo tempo aveva sentito di aver perso la guerra.
Ora non più. Ora, ogni giorno era diverso, lo avvicinava alla fine del tunnel. E poi lei sorrideva, adesso, e quel sorriso gli ricordava che, in fondo, il sangue non gli si era ancora gelato nelle vene.

 — Oh, Camus, a proposito. Non ho potuto ritirare le nostre provviste, ieri sera. —

Lui scese dall’empireo di quelle fantasie consolanti più in fretta di lei di fronte ad una stecca di fondente con le mandorle. — Avevi così tanta voglia di digiunare, ragazzina? Nella dispensa non è rimasto più niente. —

 — Al contrario, maestro, ho una fame da lupi. Ma hanno insistito che le ritirassi tu. — Camus prese a fissarla, scettico.
“È uno dei tuoi scherzi, piccola serpe?” — Pare te le abbiano lasciate in casa della Venerabile Rasha… te la ricordi? Pensa un po’, è ancora viva — proseguì lei, del tutto ignara della portata di quell’informazione.

Camus ci rifletté sopra, approfonditamente, per circa un nanosecondo.

 — D’accordo, Kelly, oggi ho in mente un nuovo tipo di allenamento. Prepara arco e frecce. Andiamo a caccia di capre selvatiche. —








Fine?







(1) Riferimento alla Track #01 di Gates of Gods
(2) I seracchi sono formazioni tipiche soprattutto dei ghiacciai del Baltoro o dell'Himalaya, e sono originati dall'apertura di crepacci in un blocco di ghiaccio preesistente, spesso per un cambio di pendenza. qualche volta sono coperti da un strato di neve fresca, che rende ancora più difficile riconoscerli. Sono imprevedibili e uno dei motivi principali dell'alto tasso di mortalità tra coloro che tentano di scalare il K2.
(3) Secondo wikipedia, il modo in cui la gente del posto pronuncia la parola "K2"
(4 ) Poiché sembra che l'usanza, nel Baltistan, sia quella di utilizzare nomi arabi, ne ho scelti di significativi: Rasha, "giovane gazzella", per l'adorabile vecchietta; Samira, "compagna ospitale" per la levatrice; Hashim, "distruttore del male", per l'Anziano. Sì, sono una brutta persona.
(5) Camus, nell’Eirienverse, coltiva un pluriennale rapporto con le rose di Aphrodite. Non con il loro proprietario, ovviamente, che di solito non viene mai avvertito.
(6)Il povero Crystal Saint, tanto buono e caro quanto inutile filler, nella mia ambientazione possiede come tutti un nome di battesimo, Alëša, anche se Camus è l'unico a ricordarsene. E, dal momento che Altair è sorella di Hyoga e che il karma negativo scorre forte in famiglia, il timore del nostro Capitan Siberia potrebbe essere giustificato.


Che altro dire? Arrivederci alla prossima… e grazie soprattutto a chi, in questo periodo orribile, mi ha chiesto che fine avesse fatto Gates of Gods. Tornerà, oh sì, tornerà… la gramigna, come i Veri Cavalieri™, è dura a morire.

   
 
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