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Autore: _Leviathan    28/08/2014    2 recensioni
Frank Iero e Daisy Snowdon sono migliori amici. Frequentano il liceo a Westwood, nel Minnesota, e hanno un compito da portare a termine: Scattare delle fotografie che facciano vincere loro il concorso di fotografia della scuola.
Daisy è sicura di aver trovato la location perfetta: L'ex Ospedale Psichiatrico di Westwood.
Solo nel momento in cui Daisy e Frank si recheranno lì, si renderanno conto che quel luogo nasconde un terribile segreto.
Genere: Horror, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*** Non ho riletto il capitolo prima di postarlo perchè devo correre a studiare, ma dovevo postarlo assolutamente. Se ci sono errori di qualsiasi tipo non linciatemi, appena avrò un po' di tempo li sistemerò! 
Buona lettura! ***



 
Capitolo 6.





La mattina seguente il tempo era mutato completamente. Pioveva a dirotto, il vento faceva sbattere le imposte e frusciare i rami degli alberi.
Mi alzai dal letto e trovai Frank alla finestra.
- Ehi. –
Sorrise appena. – Ehi. –
- Da quanto tempo sei lì? – Mi stiracchiai.
- Un paio d’ore, penso. –
Annuii. L’insonnia ormai era all’ordine del giorno, per questo non rimasi particolarmente colpita. Entrambi avevamo delle occhiaie che avrebbero potuto far invidia al Conte Dracula in persona.
Mi alzai dal letto e mi accostai a lui. Sospirai. Quella che infuriava all’esterno era una vera e propria tempesta.
Guardai Frank. Il suo volto era tirato, segnato da mille preoccupazioni. Gli diedi una carezza leggera sulla guancia semibarbuta,  poi lo presi per mano.
– Su, andiamo a fare colazione. –
 
Seduta al tavolo della cucina fissavo la mia tazza di thè fumante senza essermi ancora azzardata a toccarla. In effetti, la guardavo come se contenesse arsenico.
- Non bevi? –
Sollevai gli occhi sulla figura di Frank. Lui il suo thè l’aveva quasi finito. Mi strinsi nelle spalle. – Si, è che… si sente che lei non c’è. – Sospirai. – Mi… manca. –
E quel finto quadretto di sana quotidianità mi stava dando sui nervi. Mi sentivo un’ipocrita. Bevevamo tranquillamente thè in cucina come se non fosse mai successo nulla. Ma d’altra parte la ricerca di un minimo di normalità, in un momento simile, era imperativa da parte del nostro subconscio.
Frank annuì, posò una mano sulla mia. Era calda, ma probabilmente solo perché era stata a contatto per cinque minuti buoni con la tazza. In ogni caso, quel calore riuscì ad infondermi un po’ di conforto. – La troveremo, Daisy. Te lo prometto. –
Corrugai la fronte. – Il problema non è trovarla. Il problema è trovarla viva. –
Non disse nulla. D’altra parte neppure io avrei saputo cosa dire.
 
Dopo qualche minuto riuscii a finire il thè.
Ci dirigemmo in garage nella speranza che l’automobile di Rachel fosse ancora lì. Io non ne possedevo una, perciò quella era l’unica cosa in cui potevamo sperare.
In realtà non era proprio una speranza. O meglio, lo era solo da una parte. Se l’auto fosse stata ancora lì, avremmo potuto utilizzarla per spostarci, e questo era un bene. Ma allo stesso tempo voleva dire che Rachel non se n’era andata. Perlomeno non con la sua auto. E allora che cosa le era successo?
Scossi la testa cercando di scacciarne i pensieri.
Tutto inutile. L’automobile c’era, con tanto di chiavi inserite nel blocchetto di accensione. Mi morsi il labbro inferiore.
Frank doveva aver pensato la stessa cosa che aveva albergato nella mia mente fino a qualche istante prima, a giudicare dalla sua espressione.
Aprì la portiera del posto di guida, entrò nell’abitacolo. Feci lo stesso e mi sedetti sul sedile del passeggero. 
Si schiarì la voce. – Vuoi… vuoi guidare tu? –
Scossi la testa. Frank mimò un “okay”.
Girò la chiave. L’auto si mise subito in moto, seppur con un po’ di fatica. Frank mise la retromarcia e uscì dal garage. Appena ci trovammo sulla strada deserta accese i tergicristallo e mise la prima. Il tempo si era stabilizzato, ora piovigginava soltanto.
- Direzione frontiere? – Domandai.
- Esattamente. –
- E poi? –
- E poi si vedrà. –
La strada più veloce per arrivare ai confini della città prevedeva circa venti minuti di viaggio, che passarono con una lentezza disarmante.
Lo scenario era sempre lo stesso: Strade ed edifici deserti – su molti dei quali si potevano benissimo vedere le tracce dell’incendio – e non un’anima in giro. Il silenzio era assordante.
Buffo, ma vero.
- Frank? –
- Si? –
- E se fossimo solo noi due? –
Frank mi rivolse un’occhiataccia dal sedile di guida. – Non dire sciocchezze D. Non siamo gli ultimi rimasti. –
Cercava di autoconvincersi. – Io non ho ancora visto nessuno. Quando ti capita, fammi un fischio. – Meglio essere realistici.
Eravamo quasi arrivati.
Fu in quel momento che spinse il pedale del freno così forte che rischiai concretamente di schiantare la fronte sul cruscotto dell’automobile.
- Sei impazzito?! – Strillai.
- C’è qualcuno! –
Ironia della sorte.
- Cosa? Dove?! –
- Là davanti, vengono verso di noi! – Frank indicò esattamente davanti a noi, sulla carreggiata rettilinea. Strinsi le palpebre e notai che effettivamente qualcosa c’era, e aveva tutta l’aria di essere un’automobile. Probabilmente un pick-up.
Guardai Frank di sfuggita, un sorriso di quelli che non vedevo da giorni stava occupando gran parte del suo volto. I suoi occhi erano tornati a splendere.
Non eravamo soli, dunque. Aveva avuto ragione lui, per fortuna.
Frank rallentò avanzando ad una velocità di quindici chilometri orari. Mano a mano che l’altra auto si avvicinava, si riuscivano a distinguere i particolari.
Era un pick-up, e sembrava essere piuttosto malmesso. No, non malmesso. Era… dipinto? E aveva dei pezzi in più di quelli di un semplice pick-up, con ogni probabilità modifiche che erano state apportate dal suo proprietario. O meglio, dai suoi proprietari. Ora si distingueva chiaramente che le persone all’interno dell’abitacolo erano due, e sul rimorchio ce n’erano almeno tre.
E avevano… erano armi, quelle?
Ormai la nostra auto distava al massimo dieci metri dal pick-up.
- Frank, fermati. – Intimai. Avevo parlato sottovoce senza neanche sapere il perché.
- Perché dovrei? – Anche lui aveva sussurrato. Non era riuscito a sembrare sicuro come probabilmente aveva sperato di fare.
Il pick-up si fermò, e il tempo congelò. Furono interminabili gli istanti in cui nessuno si mosse. Né noi, né loro.
E poi gli sportelli del pick-up si aprirono. Spuntò una gamba, poi l’altra. Jeans scuri, stracciati, stivali di pelle rinforzati in ferro sulle punte.
L’uomo dalla parte della guida chiuse lo sportello, seguito subito dal tizio alla sua destra. I tre sul rimorchio restavano a guardare.
Facevano… paura.
Dalle giacche senza maniche dell’uomo che era stato al volante spuntavano tatuaggi che si ramificavano per tutte le braccia. Mi concentrai su di lui. I capelli biondi, rasati solo di lato, cadevano sulla spalla destra, sulla quale era appoggiato un machete. Oh si, era proprio un machete. Deglutii a fatica, la gola improvvisamente secca.
Non riuscivo a vedere bene il suo volto, ma sembrava sfregiato da una o più cicatrici.
Non faceva nulla. Era immobile e guardava verso di noi.
- Frank. – Sussurrai stringendogli l’avambraccio. – Non mi piace. –
- Neanche a me. –
Era preoccupato, visibilmente. Tutto il suo ottimismo era scomparso. Puff, come se non fosse mai esistito.
- Che facciamo, Daisy? –
Mi morsi l’interno della guancia. Che cosa dovevamo fare?
- Magari vogliono solo accertarsi che non siamo pericolosi… - Azzardai. Cazzata, non ci credevo neanche io. Saremmo stati noi che avremmo dovuto accertarci della loro innocuità, ma la situazione era decisamente sfavorevole.
Scappare? Ogni fibra del mio corpo mi urlava di farlo. La ragione, però, cercava di metterle a tacere. Avevamo finalmente trovato qualcuno e l’unica cosa che volevo era correre il più lontano possibile da quegli individui.
Irrazionale? Forse, ma fino ad un certo punto. Avevo sempre considerato il sesto senso una componente molto importante dell’integrità di un individuo.
L’uomo col machete mosse un passo verso di noi.
Machete. L’avrei soprannominato così. Mi sorpresi di essere capace di pensare certe stupidaggini in un momento del genere.
Continuava ad avanzare a passo lento e cadenzato. Sembrava leggero, troppo per un uomo di quell’altezza e abbigliato in quel modo. Frank, di fianco a me, si irrigidì.
Machete era vicino, ancora un paio di passi e la distanza tra noi e lui sarebbe stata annullata.
Trattenni il fiato.
Sollevò il braccio muscoloso e si appoggiò al finestrino dalla parte di Frank.
¬ Buon pomeriggio… - La sua voce era strascicata e melliflua, non il tipo di voce che automaticamente si associava a persone del genere. Sembrava quasi gentile, ma sapevo che era solo una falsa facciata. Il suo sorriso sghembo nascondeva dell’altro.
- Che ci fanno due ragazzini in giro da soli di questi tempi? Ce l’hai la patente, almeno? – Si era rivolto a Frank, e Frank era troppo impegnato a cercare di respirare correttamente per riuscire a rispondere.
Mi schiarii la voce, lo colpii leggermente con il gomito e lui sembrò riprendere il controllo di sé.
– S-si, ce l’ho –
Machete sorrise. Gli occhi, di uno strano azzurro troppo chiaro, brillarono di un qualcosa che mi fece paura. Non ero per niente tranquilla.
E prima di riuscire a capire che cosa stavo facendo, prima di poter anche solo pensare di controllarmi, parlai. – Chi siete voi? –
Frank mi guardò con gli occhi spalancati. Feci altrettanto, cercando di comunicargli “sono solo persone”. Era ormai appurato che non erano solo persone, ma pensavo che una domanda semplice come quella non potesse certo peggiorare la situazione.
Machete esibì per la seconda volta il sorrisino di prima. Rabbrividii.
–  Noi? –  Il sorriso si allargò. – Oh beh… noi siamo solo persone che… come dire, si prendono cura dell’ordine di questa città. –
Ordine della città? La città era deserta, non c’era nessun ordine da amministrare. Deglutii a vuoto.
Doveva essere pazzo.
- Puoi… puoi dirci cos’è successo? – Era stato Frank a parlare, questa volta.
Machete sollevò un sopracciglio. – Ma come, non lo sapete? –
Io e Frank scuotemmo la testa all’unisono.
Machete si guardò intorno. Sembrava sinceramente preoccupato. – Non è saggio restare qui fuori. Ora torno al pick-up, metto in moto e voi ci seguite. Una volta arrivati alla base, parleremo. – Il suo tono non mi era piaciuto per niente.
Si voltò e tornò all’auto. Il resto della banda era ancora là, immobile. Appena Machete arrivò, rientrarono tutti.
Ma qualcosa non quadrava. Guardai meglio.
Non erano tutti, due di loro non c’erano.
– Dove… ? –
– Cosa? –
– Ne mancano due. Dove sono? –
Guardai Frank. Frank guardò me.
–  Io non mi fido. – Sentenziai.
– Neanche io, ma quali altre scelte abbiamo? –
Intimai a Frank di fare silenzio. Non erano ancora partiti, e lasciare che ci vedessero discutere non era una buona idea. – Metti in moto. – Sussurrai. – Dobbiamo fargli credere che li seguiremo. –
Frank fece come avevo detto.
Ed ecco che anche Machete fece lo stesso. Fece inversione, e partì.
– Ora vagli dietro, ma vai molto, molto lentamente. –
– Okay. –
– Bene. Dunque, usciamo dalla città com’era nel programma, e scopriamo queste cose da soli. – Ripresi il discorso di prima.
– Non pensi che ci seguiranno, se cambiamo direzione? –
– Hanno un pick-up, noi abbiamo una Mercedes. Potranno inseguirci, ma non ci prenderanno. – Non ne ero sicura, ma avrei detto qualsiasi cosa pur di evitare di andare con loro. Sperai solo che Frank fosse dalla mia.
Prese un respiro profondo, poi annuì lentamente. – Okay. Quindi…  fingiamo di seguirli per un po’ e poi prendiamo un’altra strada. –
Annuii. – Si. –
Purtroppo, non riuscimmo mai a prendere quella strada. Non riuscimmo neppure a seguirli. La Mercedes smise di funzionare circa cinque metri più avanti.
Si spense di botto, dal motore fuoriusciva del fumo.
Rimasi impietrita. 
- Oh-Merda. – Fece Frank.
Com’era potuto succedere? L’auto non aveva mai dato segni d’allarme, aveva sempre funzionato alla perfezione.
A meno che… Machete. Era stato lui. Mi sfuggiva ancora il come, ma doveva per forza essere stato lui.
Era una trappola.
- E adesso? – Sussurrai.
Il rumore del pick-up tornò a risuonare nelle nostre orecchie.
- Cazzo, cazzo! Tornano! –
Frank spalancò la portiera. – Corri, Daisy! –
Scesi dalla macchina e lo raggiunsi. Mi prese la mano e, insieme, cominciammo a correre. Ci trovammo subito alle calcagna i due che prima mancavano all’appello.
E allora capii il loro piano: Avevano pensato di prenderci quando ci saremmo resi conto che l’auto era fuori uso.
Non sapevo dove si erano nascosti, non sapevo da dove erano sbucati. L’unica cosa che la mia testa mi urlava era: “CORRI!”
Eravamo io e Frank. Io e Frank inseguiti da una banda di criminali. Io e Frank contro il mondo, come era sempre stato.
Scavalcammo la protezione della carreggiata e continuammo la nostra corsa su un prato in discesa. Un chilometro o due più avanti si apriva un boschetto di faggi, mentre una stradina secondaria attraversava il prato. L’unica speranza di riuscire a scappare era raggiungere quel bosco.
Ma anche il bosco, come scoprimmo di lì a poco, non l’avremmo mai raggiunto.
Questa volta erano due: Un suv e un vecchio autobus malmesso. Passavano per la stradina secondaria, si piazzarono esattamente tra noi e il bosco.
Imprecai.
Il finestrino del suv si abbassò, tutto ciò che riuscii a vedere furono dei capelli rosso fuoco e un braccio che cercava di attirare la nostra attenzione. E poi, una voce.
- Per di qua! Venite qua! –
Non potevamo fermarci, perciò continuammo a correre.
E se fosse stata un’altra trappola? Saremmo finiti dalla padella alla brace? Non lo sapevo.
Ma d’altra parte, non avevamo altra scelta. O loro, o Machete.
Ci guardammo, e senza bisogno di parole decidemmo cosa fare. Avevamo scelto loro.
Quando mancavano solo pochi metri per raggiungere il suv, le portiere posteriori si spalancarono.
Ero stremata, sentivo che sarei potuta stramazzare al suolo da un momento all’altro. Serrai le labbra e mi costrinsi a compiere l’ultimo sforzo.
Ci buttammo in macchina e Frank chiuse la portiera con una forza tale che tutto il veicolo tremò. – PARTITE! – Sbraitò. Era fuori di sé.
Il rosso che era al volante premette il piede sull’acceleratore.
 
Cinque minuti dopo stavamo sfrecciando ad alta velocità sulla stessa strada secondaria nel mezzo della campagna del Minnesota.
Avevo passato quei pochi minuti a studiare i nostri presunti salvatori, che dal canto loro non avevano ancora detto una parola.
L’uomo al volante era piuttosto giovane, doveva avere al massimo venticinque anni.  I capelli rossi erano l’unica nota di colore nel suo abbigliamento, completamente nero. Sbirciai nello specchietto retrovisore. Il volto aveva lineamenti ben definiti, ma allo stesso tempo delicati… non era un volto tipicamente virile, ma era affascinante. Notai che i suoi occhi erano di un insolito verde muschio. Abbassai lo sguardo imbarazzata nel momento in cui i nostri sguardi si incrociarono.
Accanto a lui, seduta sul sedile del passeggero, c’era una ragazza che doveva avere all’incirca la sua età. Capelli neri, occhi chiari, pelle diafana. Vestita anche lei di nero.
Mi voltai. Dietro di noi, il vecchio autobus era guidato da un ragazzo piuttosto insolito. Da quella distanza riuscivo a distinguere solo un particolare: era pieno di tatuaggi, ma non sembrava minaccioso come Machete. Forse perché in quell’esatto istante mi fece una linguaccia accompagnata da un occhiolino.
Ero troppo sconvolta per mettermi a ridere, quindi passai oltre.
Nell’autobus c’era un’altra persona. Era un uomo, probabilmente sulla trentina. Mi rivolse un sorriso luminoso.
Mi voltai con una strana espressione. Perché sembravano tutti così svitati?
- Tutto bene, ragazzi? –
Era stato il rosso a parlare.
Annuii. Probabilmente non mi aveva visto, ma non ci feci caso.
- Chi erano quelli? – Chiese Frank.
Il rosso storse la bocca. – Meglio non saperlo. –
- Ma noi vogliamo saperlo. – Ribatté Frank.
Lui sospirò e fece un sorrisino. – Sono… beh, potrebbero essere definiti “banditi”. Sono convinti di essere una sorta di paladini della città, di… liberatori. – Fece una pausa. – Da quando è cominciata l’Apocalisse, so… –
- COSA?! – Urlammo, all’unisono, io e Frank.
Il rosso sollevò un sopracciglio. La ragazza rise di sottecchi.
- Ragazzi… dove siete stati, negli ultimi sette giorni? –
- E’ una storia lunga. – Commentai, sbrigativa. – Apocalisse. Dimmi che stai scherzando. –
– Vorrei potertelo dire, credimi. –
Apocalisse. Non sapevo come sentirmi. Non sapevo se ero agitata, o spaventata, o incredula, o scioccata. Forse il mio umore era un misto di tutte queste cose.
Apocalisse. Ma proprio l’Apocalisse biblica? Non avevo visto angeli, né carestie, né… guerre. A meno che la sorte che era toccata a Westwood non fosse una specie di presagio.
Morte.
Poteva davvero essere Morte? Uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse?
Oppure, più semplicemente, stavo solo dilagando. Forse tutto questo non aveva nulla a che fare con l’Apocalisse biblica.
Sospirai, strinsi la mano di Frank.
–  Ah, comunque… –  Fece il rosso. – Io sono Gerard. – 

 
   
 
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