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Autore: Irina_89    21/09/2008    4 recensioni
Se tu urli contro il cielo, questo non ti risponde, nemmeno lo volesse.
Parlare con lui è proprio come urlare contro il cielo: benché tu ti dimostri determinata, non ottieni risposta.
***
“Cosa?!” scattò il ragazzo, incenerendo Tom con lo sguardo. “Non ti azzardare nemmeno a dire una cosa del genere!” lo minacciò, puntandogli un dito smaltato contro.
Il rasta alzò le mani in segno di resa e sospirò ancora.
Altro che vacanza tranquilla… nemmeno riusciamo ad uscire dall’aeroporto!
“Eccone una!” esclamò il cantante, correndo verso la valigia e spingendo quei due signori che non facevano niente di male. Afferrò la valigia – praticamente più grande e pesante di lui – e cercò di trascinarla giù dal nastro, urtando in pochi secondi tutte le dodici persone lì presenti. Un record. Alla valigia precedente ne aveva colti solo cinque.
“Ora l’ultima.” Disse, appoggiando la nuova arrivata vicino alla montagna di sue simili, per poi tornare ad osservare il nastro. Nemmeno si rendeva conto degli insulti che una coppia di signori anziani gli rivolgevano sommessamente in inglese, preso com’era dalle sue valigie.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Urlando contro il cielo

Urlando contro il cielo

 

 

“Ehi, hai finito?”

“No, mancano le ultime due.” Rispose Bill, adocchiando tutte le valigie che passavano sul nastro.

“Ma quante te ne sei portato dietro?” sospirò esasperato suo fratello, lanciando un’occhiata alla montagna di borse, borsoni, borsette e tutto ciò che poteva contenere qualcosa, alle spalle del moro.

“Un po’.” Farfugliò l’altro in risposta.

“Secondo me l’hanno persa. Erano così tante che nel cambiare il volo non hanno fatto in tempo a trasportarle sull’altro aereo.” Ghignò Tom malefico, stravaccandosi su una delle sedie che c’erano in quell’enorme area ritiro bagagli.

Erano appena arrivati per passare una tranquilla vacanza in California, e già suo fratello aveva iniziato a diventare isterico per le ennesime due valigie che non arrivavano. Se fossero andate perse sul serio, ci sarebbe stato come minimo una denuncia da parte sua.

Non sia mai che Bill possa far a meno di quelle decine di magliette in più, o di quei sette paia di pantaloni che mai si metterà, o quelle giacche tutte uguali, portate praticamente solo per far loro prendere un po’ d’aria!

“Cosa?!” scattò il ragazzo, incenerendo Tom con lo sguardo. “Non ti azzardare nemmeno a dire una cosa del genere!” lo minacciò, puntandogli un dito smaltato contro.

Il rasta alzò le mani in segno di resa e sospirò ancora.

Altro che vacanza tranquilla… nemmeno riusciamo ad uscire dall’aeroporto!

“Eccone una!” esclamò il cantante, correndo verso la valigia e spingendo quei due signori che non facevano niente di male. Afferrò la valigia – praticamente più grande e pesante di lui – e cercò di trascinarla giù dal nastro, urtando in pochi secondi tutte le dodici persone lì presenti. Un record. Alla valigia precedente ne aveva colti solo cinque.

“Ora l’ultima.” Disse, appoggiando la nuova arrivata vicino alla montagna di sue simili, per poi tornare ad osservare il nastro. Nemmeno si rendeva conto degli insulti che una coppia di signori anziani gli rivolgevano sommessamente in inglese, preso com’era dalle sue valigie.

“Tomi!” si lamentò iniziando a saltellare istericamente.

Il ragazzo si passò una mano sul volto, cercando di non far capire che quel pazzo si stava rivolgendo proprio a lui, ma il suo gesto fu inutile, quando Bill gli si avvicinò e lo strattonò per un braccio, facendolo sobbalzare.

“Gesù, Bill, che vuoi?” mormorò roteando gli occhi.

“Non arriva!” piagnucolò.

“Ma sì, che arriva!” lo tranquillizzò con uno sbuffo.

“No, guarda!” ed indicò il nastro. “Io aspetto quella nera – hai presente quella grande, con il manico di pelle…?” Tom azzardò uno sguardo nella direzione della montagna vicino a sé. Di tutte le valigie – grandi e piccole che fossero – non ce n’era una che non avesse il manico di pelle e non fosse nera.

“No, non l’ho presente, ma arriverà…” e si calò la visiera del cappellino azzurro sugli occhi.

“Sei uno stronzo.” Proclamò Bill, il tono decisamente offeso.

“Il merito di questo complimento va a…?”

“Al fatto che sei uno stronzo.” Rincarò Bill, incrociando le braccia al petto e iniziando a battere nervoso un piede per terra.

“Ok, allora grazie per avermi informato.” Ed allungò i piedi, lasciando che suo fratello tornasse a controllare l’arrivo della sua ultima preziosa creatura.

Passò un quarto d’ora prima che la valigia di Bill facesse capolino e non appena il cantante la vide, iniziò ad urlare contento e soddisfatto. Ormai non c’era più nessuno in quell’enorme stanza e Bill non diede fastidio a nessuno quando tentò di recuperarla, rincorrendola per quasi tutta la lunghezza del nastro. Ma non ce la fece e la valigia venne riportata dietro il muro.

Dovettero aspettare altri dieci minuti, perché la pecorella smarrita tornasse da loro, e questa volta Bill ci si catapultò sopra, salendo sul nastro e prendendo a calci la sventurata, facendola cascare sul pavimento lucidato a dovere dell’aeroporto con un tonfo sordo.

Tom alzò gli occhi al cielo. Possibile che suo fratello fosse così imbarazzante, certe volte?

“Ma cosa cazzo ci hai messo?” farfugliò, quindi, lui.

“Tutto quello che non entrava nelle altre sei.” rispose irritato Bill. “Certo che potresti anche venire a darmi una mano! Come faccio a portarle tutte fuori da qui, ora?”

La voglia di strozzarlo era forte, ma Tom riuscì a calmarsi appena in tempo, quando il suo sguardo si posò su un grande carrello di metallo, fermo in un angolo della stanza. Lo indicò, quindi, al fratello, ma non poté opporsi dall’aiutarlo a caricarci tutti i suoi bagagli.

“Lo spingi tu, però.” brontolò, trascinando contemporaneamente tre trolley di grandezze smisurate, riuscendo pure ad inciampare sui propri piedi un paio di volte e ad arrotarsi con quegli aggeggi. Ovviamente non mancò dal recitare le migliori interpretazioni del suo ricco repertorio di imprecazioni.

“Perché io, scusa?” si fermò Bill, lasciando la presa dalla sua unica e piccola valigia – la più piccola – che stava trascinando come se pesasse quintali. “Lì sopra ci sono pure le tue!”

“Perché la matematica non è un’opinione. Tu hai sette valigie, io solo due, ergo: tu spingi.” Ed imprecò ancora per la valigia che lo colpì al tallone, facendogli quasi perdere la scarpa e l’equilibrio.

 

***

 

Erano usciti – finalmente – da quell’immensa stanza del ritiro bagagli, e ancora Tom doveva capire come si fosse ritrovato a spingere tutta quella carrellata di borse e borsoni, mentre Bill zampettava felice al suo fianco. Si ricordava solo il fratello sull’orlo di un pianto isterico.

Uscirono dal Santa Monica Airport ed aspettarono l’arrivo di un taxi, che non tardò a raggiungerli. L’autista li aiutò a mettere le borse nel bagagliaio, nei sedili accanto a loro e persino una sul sedile anteriore. Poi salirono, pronti per dirigersi all’hotel prenotato.

“Dove vi porto?” chiese l’autista in un inglese molto biascicato.

“Tom, mostragli il foglio.” Fece Bill.

Il ragazzo cercò di alzarsi per recuperare quel piccolo pezzo di carta su cui aveva annotato l’indirizzo. Era sicuro di averlo messo nel portafogli che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni, ma in tutto quel casino, erano pressati come sardine.

“Perché ce l’hai il foglio, vero?” mugolò Bill, vedendo le contorsioni del fratello.

“Certo che ce l’ho.” Ribatté acido Tom, riuscendo ad afferrare il portafoglio. Lo aprì ed estrasse il piccolo foglio piegato in quattro. “1910 Ocean Way, per favore” disse in inglese un po’ forzato e dal forte accento tedesco, rivolto all’autista. Questi annuì e partì.

Percorsero un grande viale, osservando villette e palazzi per una buona parte del tempo. Incontrarono pure un campo da baseball, ma nessuno dei due pensò minimamente di fermarsi laggiù e fare una partita nei giorni seguenti. Il baseball non faceva per loro. Preferivano di gran lunga passare tutte quelle due settimane sdraiati sulla spiaggia a non fare niente. Dopotutto se l’erano meritati!

Passarono un numero infinito di incroci, ma continuavano ad andare sempre dritto, lungo quel viale che sembrava non finire più. Incroci, incroci ed incroci. Ora un sottopassaggio. Poi tornarono gli incroci. Poi, arrivò anche il momento di girare ad uno di questi incroci e finalmente, dopo un’altra serie di incroci, arrivarono.

La Casa del Mar. Ora non avevano altro da fare che scaricare le valigie e portarle in camera loro, ma questo non era più un loro problema. O almeno, non era più un suo problema, pensò Tom appagato. Infatti, subito un facchino li raggiunse con uno dei carrelli che Tom aveva usato all’aeroporto ed iniziò a togliere tutte le valigie dalla vettura, aiutato dall’autista - molto probabilmente, impietosito per il lavoro che toccava a quel povero ragazzo di nemmeno vent’anni.

Come se io non avessi la sua età… rifletté il chitarrista.

Così, dopo aver aspettato che suo fratello avesse finito i suoi comodi e si fosse alzato, Tom uscì dall’auto e si stiracchiò, avendo come la sensazione di avere la schiena a pezzi – causa: una ruota della valigia di Bill che sarebbe diventata parte di lui, se il viaggio si fosse presentato più lungo.

Ed arrivò anche il momento di entrare, seguiti dal ragazzo che spingeva quel carrello straripante di valigie – decisamente troppe per solo due persone. E la cosa più assurda era – sogghignava Tom, che gli leggeva la perplessità sul viso – che non sapeva che solo due di tutte quelle borse erano sue.

L’arredamento era decisamente di buon gusto, per quanto Tom se ne potesse intendere. Per lui il buon gusto doveva rispecchiare solo due condizioni: essere in ordine – requisito paradossalmente a lui sconosciuto – e pulito.

Ciò che si ritrovava davanti, era decisamente pulito – quasi poteva rispecchiarsi in ogni cosa che brillava. E là tutto brillava. Sulla comodità, ancora doveva verificare, ma non sembrava promettesse male, anzi… soprattutto a cominciare dalle persone che vi alloggiavano.

Proprio in quel momento, infatti, una ragazza dai lunghi capelli castani, mossi, legati quasi di fretta sulla testa con un elastico, stava attraversando di corsa l’ingresso davanti a loro. Non era particolarmente formosa, ma ciò che aveva, era decisamente apprezzabile. Soprattutto le gambe, che teneva scoperte, sotto degli shorts di jeans. Indossava una larga maglietta di velo azzurro, sotto la quale Tom poté vedere bene il reggiseno del bikini che portava. Ai piedi dei semplici infradito neri. Non riuscì a distinguere molto bene i lineamenti del viso, preso quant’era dall’osservare tutt’altro, ma notò un paio di occhi scuri e profondi.

Era decisamente un tipo su cui fare un pensiero. Forse anche due o tre.

“TOM!” tuonò Bill alle sue spalle, distraendolo dai suoi pensieri, che erano sicuramente meglio di tutto ciò che suo fratello avesse potuto dirgli.

“Sì?” si girò verso di lui, un sorriso forzato sulle labbra.

“Stavi di nuovo facendo pensieri osceni, vero?” lo riprese.

“E anche se fosse?” ribatté lui.

“Sei incredibile. Anche all’aeroporto!” sbuffò, avvicinandosi al bancone della reception.

“Non è colpa mia, se le ragazze qui sono tutte particolarmente attraenti.” E sorrise beffardo, seguendolo.

Bill roteò gli occhi, esprimendo tutta la sua disapprovazione. Più volte, infatti, gli aveva ricordato che un giorno o l’altro si sarebbe trovato in una situazione molto spiacevole.

Certo, come se lui non se ne fosse mai portato una a letto tanto per passare una notte.

Ovviamente, altrettante volte, Tom si sorbiva quella ramanzina passivamente, lasciando la mente libera di vagare. Bastava solo annuire ogni tanto con aria colpevole. A Bill bastava. Purtroppo, sapeva che in fondo suo fratello aveva ragione, ma preferiva non pensarci. Se non ci pensava, non aveva di che preoccuparsi, no?

“La vostra camera è la 89. Secondo piano.” Annunciò loro l’addetto della reception, offrendo a Bill una tessera magnetica. “Se avete qualche problema, sarò lieto di aiutarvi.” E sorrise cordiale.

I gemelli sorrisero di rimando, ringraziarono e si diressero verso gli ascensori, sempre seguiti dal ragazzo con le loro valigie.

Arrivati nel corridoio scorsero le stanze fino ad arrivare alla loro. Bill studiò la tessera magnetica e la sovrappose su uno strano dispositivo che era stato fissato sotto la maniglia. Si accese una luce verde, ma la porta non si aprì. Il moro, quindi, girò la tessera e ripeté l’operazione.

“Che coglione.” Commentò Tom, prendendogli la tessera dalle mani.

“Guarda che non è colpa mia se non si apre!” si giustificò stizzito il cantante.

Tom sospirò. Guardò Bill quasi con compassione e girò la maniglia. La porta si aprì miracolosamente.

“Genio, se non giri la maniglia come pensi che si apra? Con il pensiero?” ed entrò, mani in tasca e aspetto distrutto. Non vedeva l’ora di stendersi su un comodo letto, dormire finché ne avesse avuta voglia e poi, andare in spiaggia.

Bill sbuffò rumorosamente, per poi seguirlo all’interno della stanza, lasciando che il ragazzo delle valigie potesse finire il suo ingrato compito cui era stato destinato.

“Lascio qui le valigie, va bene?” chiese conferma, e quando i due annuirono distrattamente, iniziò a posare per terra le innumerevoli borse, rischiando di farsi crollare addosso la montagna. Fu così che Tom represse la sua stanchezza e preferì aiutarlo.

Quando i due ebbero finito, sotto lo sguardo vigile di Bill che dirigeva i lavori, seduto su uno dei divani dell’ampia sala in cui si trovavano, il facchino si ritirò.

Tom si avvicinò, quindi, a suo fratello e si stravaccò molto diligentemente sul divano di fronte a quello su cui Bill si era già accomodato.

“Certo che potevi dare una mano…”

“E perché? In tre avremmo avuto problemi con le manovre.” Spiegò, stendendosi sul divano e sbadigliando. “Vi ho fatto un piacere.”

“Ma che piacere?” ribatté Tom. “Erano praticamente tutte tue valigie!”

Bill si rigirò sul divano, dandogli le spalle, noncurante delle accuse del fratello, il quale, sentendosi trascurato, decise di provvedere. Afferrò uno dei cuscini vicino a lui, si alzò silenziosamente – la moquette attutiva i rumori – e si avvicinò a Bill. Caricò il braccio con la sua arma e il cuscino si abbatté inesorabile sul viso rilassato del fratello, che sobbalzò impaurito.

“Brutto imbecille! Che volevi fare?” abbaiò, sedendosi d’impeto sul divano, lo sguardo minaccioso.

“Considerala una rivincita…” rispose vago, tornando sul suo divano. Ma non fece in tempo a sedersi che il solito cuscino lo colpì in pieno volto.

“Ma che cazzo…?” farfugliò Tom.

“Considerala una rivincita…” sorrise superiore Bill.

Suo fratello lo guardò truce per qualche secondo, ma poi scoppiarono a ridere entrambi.

Quello sarebbe stato l’inizio della loro vacanza.

 

***

 

Era in ritardo. Lucy l’avrebbe uccisa. No, prima l’avrebbe scuoiata viva. Sì, era certo. Conoscendola l’avrebbe fatto pure nella maniera più crudele potesse esserci… come che essere scuoiata viva non fosse già abbastanza!

Quegli infradito neri si erano rivelati una scelta decisamente stupida. Non riusciva a correre. Poco prima c’aveva provato: ne aveva perso uno nella corsa, finendo poi addosso ad un cameriere nella Hall, che per poco non versava tutto ciò che teneva sul vassoio.

La prossima volta, niente e nessuno le avrebbe impedito di infilarsi le sue scarpe da ginnastica.

Corse attraverso l’atrio ed arrivò, finalmente, fuori dall’hotel. Lucy avrebbe già dovuto essere là, incazzata nera per il ritardo, ma tutto ciò che vide, fu solo la grande strada che passava davanti all’enorme edificio. Lei non c’era. Come era possibile? Lei non era mai in ritardo, odiava essere in ritardo. Ritardo non era una parola prevista dal suo vocabolario!

Si guardò ancora un po’ intorno, ma continuò a non vedere nessuno.

Sospirò infastidita e si puntò le mani ai fianchi, leggermente scocciata. Che storia era quella? L’aveva presa per il culo? Avevano deciso da un mese quella vacanza! Possibile che l’avesse annullata di punto in bianco? Per di più senza dirle niente!

Poi un pensiero: e se le fosse successo qualcosa?

Estrasse velocemente il cellulare dalla tasca degli shorts – come ci fosse entrato era ancora un mistero – e selezionò il suo numero dalla rubrica.

Primo squillo. Secondo. Terzo.

“Pronto?” una voce allegra rispose dall’altro capo.

“Lucy! Ma dove diavolo sei?” ruggì. “Ti sei persa? Non sei nemmeno capace di prendere un taxi?”

“Ehi ehi ehi! Calmati!”

“No, che non mi calmo! Ho rischiato di rompermi l’osso del collo contro un cameriere per colpa tua! E ora esigo sapere il motivo per un tale ritardo!”

Lucy ridacchiò.

“Che cazzo hai da ridere?” chiese titubante.

“Fine come sempre, eh?” la riprese scherzosamente l’amica.

Lei sbuffò.

“Dai, dimmi dove sei, che ti vengo incontro.”

“Non credo sia possibile…” fece lei enigmatica.

“Che vuol dire?”

“Sono ancora a casa.” Rise.

Lei non rispose subito, dubitando che la propria mascella fosse ancora al suo posto e che non fosse caduta per terra.

“Sei ancora a casa?” ripeté sbalordita.

Lucy annuì in un mormorio.

“Ma tu sei pazza!”

“E dai, vedrai che ti divertirai anche senza di me!”

“Certo! Figurati che qui c’è il sovraffollamento di persone che conosco!” esclamò sarcastica, agitando quasi convulsivamente una mano in aria. “Senti, mi spieghi come è potuto accadere che da quattro amici, ora mi sono ritrovata qui da sola?”

“Bè, lo sai… Harry e Eveline sono dovuti rimanere a casa a causa della loro madre. Si è sentita male e -”

“Lo so cosa è successo alla madre di quei due. La mia era una domanda retorica per chiederti perché sei ancora in Inghilterra!”

“Oh, bè… scusa, ma ora devo andare.” E la chiamata di interruppe improvvisamente.

La ragazza rimase qualche secondo a boccheggiare con il cellulare ancora all’orecchio. Poi guardò il display, che mostrava la durata della chiamata ormai terminata.

Un attacco isterico la invase. Avrebbe voluto urlare. Cosa cazzo ci faceva, ora, lei da sola in California, in un hotel a cinque stelle, per due settimane? Cosa?

Resistette alla voglia di gettare il cellulare per terra per il solo motivo che poi non ne avrebbe più avuto uno.

Ma proprio mentre si girava per tornare – incazzata come poche volte le era capitato di essere – nella sua stanza di hotel, si sentì chiamare.

“Jennifer?”

Quella voce…

La ragazza si girò. Il cuore le batteva come non mai. O almeno, come tutte le volte che sentiva quella voce.

A qualche metro da lei, un ragazzo dai capelli castani in perenne disordine, non troppo corti, con qualche boccolo qua e là la stava fissando stupito. I suoi occhi erano scuri, uno sguardo intenso. Aveva le labbra disegnate perfettamente – nonostante fossero sottili – su quei lineamenti fini da ragazzo, ornati anche da qualche fattezza dell’età adulta. Aveva un profilo greco, sebbene il naso fosse leggermente pronunciato sul dorso.

In una parola era… Matt.

“Cosa… cosa ci fai tu qui?” balbettò Jen.

“Sinceramente vorrei saperlo anche io.” Rispose quasi fosse irritato. Aveva un borsone a tracolla e un trolley che trascinava con la mano. “Ti ripropongo la domanda. Tu che ci fai qui?”

“Io… ecco,” e si mise dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelle. “Dovevo fare una vacanza, qui, con un’amica… ma…” guardava ovunque, tranne che lui.

“Sei sola?” chiese lui, posando la tracolla a terra.

Jennifer annuì, stritolando il povero cellulare che ancora teneva in mano.

“Bè, allora siamo in due. E a questo punto, mi permetto di affermare che non siamo più soli.” Sorrise. Un sorriso meraviglioso, che sapeva colpire la ragazza proprio dritto al cuore.

“Eh, già… sembrerebbe…”

“Ehi, ma che ti prende?”

La ragazza lo guardò negli occhi solo il minimo indispensabile per mostrargli la sua espressione confusa, ma subito sentì le guance infuocarsi.

Avesse potuto, si sarebbe data volentieri un paio di schiaffi. Era incorreggibile!

“Prima stavi urlando al telefono e gesticolando come una pazza!” rise, mostrando di nuovo quel sorriso. “E ora invece sei così silenziosa…”

“Ehm, non lo so…” farfugliò.

Ok, perfetto, cara e dolce Jenny. Se prima poteva solo lontanamente pensare che tu fossi una deficiente, ora ne ha la piena certezza!

“Non lo sai?” inarcò un sopracciglio, scettico.

“Ehm, senti… ma tu hai la camera qui?” cambiò discorso, indicando l’hotel alle sue spalle con lo sguardo – un tentativo come un altro per non guardarlo. Era ovvio che lui la stesse fissando, e anche che la stesse fissando leggermente preoccupato per la sua sanità mentale, ma ormai…

“Sì, aspetta.” E tirò fuori da una tasca dei suoi pantaloni corti un cellulare. “Mi ha mandato un messaggio Harry.” Premette dei tasti, forse in cerca del messaggio. “Eccolo: ‘Ciao, ho organizzato una vacanza in California, che ne dici di venire? Siamo i soliti. Due settimane di totale relax sulle meravigliose spiagge della California, ci pensi?’ Io ho accettato e lui, quindi, mi ha detto di arrivare con il primo aereo possibile, ma – indovina un po’! – appena metto piede sul territorio americano, quel coglione mi manda un messaggio, dicendo che alla fine non è potuto venire.”

Di colpo, lo stomaco di Jen si rovesciò, aggiungendoci pure qualche acrobazia del tutto speciale per l’occasione e lasciando la ragazza in apnea.

Una volta tornata a casa, sapeva benissimo cosa avrebbe dovuto fare: massacrare Harry. E Lucy.

“Senti, mi accompagni a prendere le chiavi della stanza?” propose Matt, sistemandosi di nuovo la tracolla sulla spalla.

“Vuoi che ti aiuti?” chiese lei gentilmente, indicando la borsa con lo sguardo.

“No, no. Tranquilla.” Sorrise. “Dai, andiamo dentro, che voglio posare tutta questa roba al più presto.”

Jennifer provò la sensazione di vuoto e un dubbio immenso la invase. Se quel cretino di Harry, sua sorella e Lucy avevano organizzato tutto questo – povera la madre che si è presa pure un attacco cardiaco per reggere questa farsa, pensò ironica –, era molto probabile, dunque, che la mega stanza che avevano prenotato per stare tutti e quattro insieme, ora fosse destinata a…

Non riuscì a terminare quel pensiero.

Oh, merda…

Entrambi si diressero alla reception e Matt chiese all’uomo dietro il bancone la chiave della stanza 88. Jen dovette aggrapparsi al marmo bianco per non cadere per terra.

Merda, merda, merda e merda!

Merdissima!

“Mi dispiace, signore, ma la chiave non l'abbiamo. Non è che ha sbagliato stanza? A che nome è la prenotazione?”

“Ehm,” il ragazzo si portò una mano sugli occhi, proprio come faceva sempre per pensare. “Cazzo, la prenotazione…” borbottò. Non se la ricordava. O forse Harry non gliel’aveva proprio detta, pensò realista Jennifer.

“Non si preoccupi, è tutto sistemato.” Disse improvvisamente la ragazza, un tono quasi rassegnato.

“Come?” chiese Matt. L’uomo la guardava sospettoso.

“Sì, ho io la chiave della 88.” E mostrò la tessera magnetica che estrasse dalla tasca.

“Ah, perfetto.” Esclamò l’uomo. “Allora, il signore alloggerà nella sua stanza.”

“Già,” sorrise tirata. “Sembrerebbe.”

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel (in questo caso, direi Tom e Bill) non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Questo è solo il primo capitolo di non so quanti. E' un'idea che mi è venuta in mente in seguito ad un sogno. Ho provato a buttarne giù una bozza, ma ancora non è completa e non so quando la finirò - ergo: non so nemmeno quando aggiornerò - anche perché prima dovrei concludere 'Just A Kid'..^^"

Spero, comunque, che sia di vostro gradimento. Non vi garantisco un'originalità eccessiva, ma per il finale qualcosa di diverso ci sarà.^^ Cercherò di arrivare a scriverlo prima che tutti voi ammuffiate nell'aspettare. =P

Ringrazio già chiunque si sia sforzato di leggere questo capitolo iniziale. Lasciate pure un commentino per dirmi cosa ne pensate!!

Ora vi saluto, carissimi lettori.

_irina_

  
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