Un posto nel mondo.
Cam volava indisturbato nel cielo scarlatto,
attraversando correnti d’aria e banchi di nuvole senza curarsene; non sentiva
il vento scombinare la sua chioma corvina, né i suoi occhi smeraldini
riuscivano a catturare l’immagine di quel sanguigno tramonto. Tutto ciò che i
suoi sensi avvertivano era il profondo vuoto che aveva nel petto, lì dove un
tempo avrebbe potuto percepire il possente battito del suo cuore: di
quell’organo solitario non era rimasto altro che una leggera polvere, impalpabile
ricordo dell’angelo che era stato.
L’odissea di Daniel e Lucinda si era appena
conclusa, sarebbero tornati come due comuni mortali e si sarebbero amati
un’ultima volta ancora, prima di morire definitivamente. Quella era stata la
decisione del Trono, insieme all’obbligo imposto alle altre comparse di quella
lunga storia d’amore di non interferire in alcun modo con le vite degli eterni
amanti; per nessuno di loro era stato semplice accettare quella sentenza,
eppure alla fine dovettero acconsentire.
Ciò nonostante, il demone solitario non riusciva
ad andare oltre: troppi millenni aveva vissuto in compagnia del fratello e
della sua leggendaria compagna, troppe esperienze avevano condiviso
supportandosi a vicenda al di là dei conflitti e delle divergenze d’opinioni.
Quel che gli era rimasto erano stralci di memoria, pallidi fantasmi di un
passato irripetibile; ovunque andasse c’era sempre qualcosa che lo riportava ai
vecchi tempi, trascinandolo in una spirale di solitudine e muta amarezza.
Non esisteva terra su cui avesse camminato da
solo, nel bene o nel male aveva costantemente avuto al suo fianco quel triste
angelo biondo: cosa gli restava ora? Chi
gli restava ora? Arriane, Annabelle e Roland sarebbero rimasti uniti, un
inossidabile trio che avrebbe superato quella desolazione contando l’uno
sull’altro, mentre lui avrebbe continuato a brancolare nel buio in cerca di
tutto e di niente; il suo mondo aveva cominciato a sgretolarsi tremila anni fa
con Lilith e ora stava per esplodere definitivamente, disegnando la sua orbita
finale attorno ai luoghi in cui aveva vissuto giorni tristi o felici.
Le sue ampie ali dorate lo avevano condotto in
Tibet, quell’agglomerato di rocce e gelo che acuiva la desolazione della sua
anima smarrita; si sentiva totalmente svuotato, incapace di provare emozioni
mentre il suo sguardo si perdeva tra quelle vette. Avvertì un intenso bruciore
all’altezza delle spalle, simile a un dardo infuocato che lacerava la sua
esangue epidermide: quella sgradevole sensazione era frutto dell’ennesima
reminiscenza legata a Daniel, precisamente quando questi si era gettato dalla
rupe per tentare invano di porre fine alle sue sofferenze.
Improvvisamente comprese cosa lo avesse spinto a
compiere quel gesto sconsiderato, giacché anche il demone stava patendo
quell’estrema agonia: aveva perduto ogni cosa, era totalmente annichilito dalla
condizione in cui si trovava. Davanti al Trono aveva detto che avrebbe fatto la
sua parte, ma era solo un’effimera bugia poiché il suo personaggio era divenuto
superfluo; non c’era più nulla che potesse o quantomeno volesse fare, era
arrivato alla fine.
Senza riflettere iniziò a correre verso la
scarpata, incurante di tutto il dolore che avrebbe patito in seguito: avrebbe
emulato suo fratello e si sarebbe schiantato al suolo, rompendosi tutte le ossa
e agonizzando al suolo. Sapeva che Gabbe non sarebbe mai venuta a salvarlo come
aveva fatto con l’angelo maledetto, dato che era morta e che in ogni caso non
si sarebbe prodigata per uno come lui, ma ciò non gli importava: Camriel
cercava solo una scusa per versare tutte le lacrime che aveva segregato dentro
di sé per millenni, a partire da Gerusalemme fino ad arrivare a quel
dannatissimo giorno.
Mentre precipitava verso il fondo del baratro,
ripensò all’istante in cui tutto era iniziato, quando la Caduta non era neanche
lontanamente concepibile per gli angeli; rivide l’agghiacciante aspetto di
Lucifero, colui che era il più bello e il più amato tra le schiere celesti, e
ricordò la frase che Daniel aveva sussurrato al suo fianco.
Non
esiste tenebra più oscura di una luce corrotta.
Sorrise amaramente il demone dalle iridi
smeraldine, pensando che anche lui oramai non era altro che un frammento di
quella tenebra: dell’angelo splendente che era stato non vi era più traccia,
poiché la sua luce era stata corrotta dalla sua incommensurabile solitudine e
dalla sua inconsolabile disperazione. Attese con sadico piacere il penoso
impatto col ruvido terreno e tutto l’atroce dolore che ne sarebbe derivato,
perché aveva capito che per lui non sarebbe esistito più altro: il suo posto
nel mondo era lì, nelle profondità di quell’oscuro baratro.