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Autore: nafasa    22/09/2008    1 recensioni
Rimasi paralizzato. Ero in trappola. Tenni fissi gli occhi nel punto in cui avevo visto qualcosa, con la mente che valutava frenetica le possibilità di fuga e i muscoli rigidi, pronti a scattare. Ma feci un balzo in piedi, quando dall’ombra emerse la cosa più strana che avessi mai visto. “Quo vadis, gnat?”
Genere: Malinconico, Fantasy, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO UNO

Ci trasferimmo in periferia dopo che mio padre perse il lavoro. Sono tuttora convinto che non ci sia stato alcun taglio del personale. Semplicemente mio padre beveva, e qualche sera tornava a casa troppo ubriaco per andare al lavoro la mattina dopo. Qualche sera a casa non ci tornava affatto. Mia madre stava sveglia fino a tardi ad aspettarlo e la mattina dopo la trovavo addormentata sul tavolo della cucina, su una rivista di quelle che raccontano tutte le storie delle star. Chi va a letto con chi, chi si sposa con chi, chi si droga con chi, insomma le tipiche storie da divi. Era addormentata con gli occhiali storti e la faccia tutta schiacciata. All’inizio mi veniva da piangere a vederla così, poi mi ci sono abituato.

Per farla breve non riuscimmo più a pagare l’affitto e ci buttarono fuori. Così trovammo una sorta di topaia nella ex zona industriale che faceva al caso nostro. Non so se ci fosse un padrone, ma se c’era noi non l’abbiamo mai visto. Il nostro trasloco fu più simile a una fuga: una cosa molto silenziosa e rapida. Abbiamo preso le nostre cose e con l’aiuto di degli amici di mio fratello in poche ore era tutto finito. Gli amici di mio fratello erano delle specie di montagne umane. Mi ricordo che desideravo di avere quei muscoli un giorno. Ero un ragazzo molto magro, cosa che sembrava preoccupare mia madre in maniera che giudicavo eccessiva. Era una donna del popolo, per lei più i suoi figli erano grossi più erano belli. Io la deludevo, anche se mangiavo un sacco non mettevo su niente. Una disperazione. Per me e per lei. Mio fratello invece si divertiva un sacco a mostrarmi i suoi muscoli e sghignazzare, lo faceva sentire un vero uomo. Aveva diciannove anni, quattro più di me, e lavorava. Riparava macchinari, molto grossi e pesanti, intuivo.

Quando cambiammo casa ci lasciammo dietro mio padre. Credo che la silenziosa speranza di mia madre fosse che non ci cercasse, né lui né altre persone, gente a cui dovevamo soldi per lo più. Non credo si illudesse di scomparire nel nulla, solo di far smarrire le tracce per il tempo necessario per raggranellare un po’ di denaro o per far rimpiangere a mio padre la sua famiglia, o semplicemente di essere nato.

Durante la mia adolescenza mia madre faceva le pulizie in delle case, case di gente ricca. Portava sempre a casa una marea di avanzi di cibi raffinati che io e mio fratello divoravamo insieme alla poca spesa che facevamo noi stessi. Così sono cresciuto a caviale e patatine, popcorn e escargot. Potevo dedurre la situazione economica della famiglia dal contenuto delle vaschette che ci arrivavano. C’è stato un periodo in cui non arrivavano, e là è stata dura.

Io andavo a scuola, a casa volevano che studiassi, ma a me l’idea non piaceva per niente. Andavo male, anche se mi impegnavo, e non mi piaceva il posto. Mi sentivo a disagio. Nonostante fosse una scuola senza pretese tutti lì dentro facevano a gara per essere un po’ migliori degli altri. Il libro di matematica riparato con lo scotch, i vestiti con toppe colorate che tentavano di sembrare accessori di moda. Non li sopportavo. E non avevo voglia di incartare i miei libri solo per essere “in”. L’ho fatto per un periodo, ma ho capito che non bastava quello, bisognava essere sempre pronti a inventarsi qualcosa di nuovo, a gareggiare all’ultimo smagliante falso sorriso. E io non ne avevo voglia. Durante il mio periodo “libri incartati” ero convinto che avrei fatto colpo su qualche ragazza, attirata dai vivaci colori che uscivano dal mio zaino, ma non è stato così. Si vede che faceva un po’ contrasto con la faccia depressa e i vestiti quattro taglie troppo grandi.

Non ero eccessivamente triste comunque, semplicemente nell’incertezza tra che faccia indossare nei giorni normali sceglievo quella meno faticosa.

Ero un ragazzo solo, secondo mia madre, il che voleva dire che non portavo a casa nessun amico. In realtà un amico l’avevo avuto nella vecchia casa, ma poi non ci eravamo più visti. Ogni tanto stavo con mio fratello e i suoi di amici, ma lui non mi voleva, così con un ghigno mi diceva: “Ma tu non dovevi vederti con Julia/ Mara/Sofia/Celine?”. Ogni volta si inventava un nome di ragazza diversa, e tutti ridevano, perché sapevano che ero solo come un cane. Una ragazza. Era tutto quello che volevo. No, non è la verità. Detta così sembra quasi che volessi una relazione seria e duratura. Non era così. Io volevo solo farmi qualcuna. Non che disdegnassi le femmine e le considerassi solo oggetti, o cose simili. Mi sarebbe piaciuta una storia. Avrebbe voluto dire avere sempre una disponibile. Ma non puntavo così in alto. Non credevo che qualcuna mi volesse per più di una semplice scopata. Non avevo una grande autostima da ragazzo.

Un giorno avevo un compito per il quale non avevo aperto libro, così a scuola non ci andai affatto. Era la prima volta che marinavo e non avevo molte idee su come passare la mattinata. L’unica cosa che si poteva dire a mio vantaggio era che ero del tutto al sicuro. Mia madre era a lavoro fino a sera e avevo coperto tante di quelle volte mio fratello che non avevo di che preoccuparmi.

Ho girato per un po’ tra i capannoni, prendendo a calci qualche pietra, poi mi sono stufato e mi sono seduto per terra, con la schiena appoggiata a un muro, a disegnare nella terra battuta. C’era il sole ed era parecchio che non pioveva, così il bastoncino faceva fatica a tracciare dei segni sulla terra riarsa. Fino a pochi anni prima quella zona era abitata. Gente di tutti i tipi, che viveva nei capannoni. Ma un giorno erano spariti. Volatilizzati. La notizia era corsa fino alla città e a tutti i dintorni. Mia madre diceva che la Sparizione era stata la botta finale. Da quel momento in poi era andato tutto a farsi benedire. Il bastoncino incontrò un pietra e si spezzò tra le mie mani. Lo tirai lontano. Nel farlo alzai la testa e scorsi un movimento all’ombra di una lamiera. Mi bloccai. Poteva essere un cane randagio. Magari rabbioso. E se ce n’era uno potevano essercene altri intorno. Si muovevano spesso in tanti. Avevo sentito storie di branchi di cani famelici che erano regrediti allo stato selvaggio e cacciavano praticamente qualunque cosa si muovesse. Racconti terribili, che sembravano studiati a posta per non farci addentrare tra i capannoni, e probabilmente lo erano. Io li giudicavo storie senza senso, nate dalla fantasia malata dei miei coetanei, senza sapere che gliele avevano raccontate i genitori da piccoli. Ero un ragazzo di città, l’animale più aggressivo che avevo conosciuto in vita mia era un ratto. Non ci potevo credere. Ma in quel momento mi tornarono in mente quei racconti. Rimasi paralizzato. Ero in trappola. Tenni fissi gli occhi nel punto in cui avevo visto qualcosa, con la mente che valutava frenetica le possibilità di fuga e i muscoli rigidi, pronti a scattare. Ma feci un balzo in piedi, quando dall’ombra emerse la cosa più strana che avessi mai visto.

“Quo vadis, gnat?”

 

  
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