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Autore: NoceAlVento    01/09/2014    2 recensioni
Cosa succede a Kalos? Forze oscure agiscono nell'ombra, perseguendo i loro ignoti obiettivi ai danni di innocenti; misteriosi frammenti di una gemma celeste sono apparsi nella regione dal nulla; una ragazza, anche se non ancora non lo sa, è stata tenuta sotto segreta osservazione per tutta la sua vita. E in tutto ciò c'è Bellocchio, appena precipitato da un'aeronave in fiamme e portato a scoprire che cela un passato lontano a Kalos, anche se non l'ha mai vista in vita sua. Nuovi capitoli ogni due settimane!
 
***
 
« Ehi, non mi hai detto come ti chiami! ».
« Bellocchio ».
« Bellocchio chi? ».
« Cos’ho appena detto riguardo le domande stupide? ».
« Ma ti chiami davvero così? ».
« Ma certo che no! Chi mai si chiamerebbe Bellocchio, è un nome ridicolo! ».
Genere: Avventura, Comico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Untitled 1

presentazioni

Sì, sto inserendo la premessa alla storia nel diciottesimo capitolo. Che scrittore che sono, meriterei una recensione solo per questo.

Se c'è qualcuno che ha seguito più di un mio racconto – no, Ivan, tu non conti – si sarà accorto che questo è l'unico a cui non ho apposto un'introduzione. Come risultato, chiunque mi abbia conosciuto da LKNA (ovvero, ad oggi, tutti quelli con cui abbia parlato a riguardo – Ivan, per l'amor di Dio, smettila di alzare la mano –) non ha la minima idea di chi sia. Quindi piacere, Novecento, il nome viene dal film, laureando in Fisica, aspirante Dio, tanti saluti, vi rimando alla mia pagina personale.

Passando a cose più serie: fegatini. Passando ad altre cose ugualmente serie, perché scrivere la premessa proprio qui? Tralasciando l'ovvio “me ne ero scordato al momento della pubblicazione” (palle, non avevo semplicemente voglia), perché non aggiungerla all'inizio dell'1x01? Varie ragioni.

Punto primo: fegatini; l'ho già detto, ma repetita iuvant. Punto secondo: con l'1x17 termina una sorta di gigantesco pilota che ho anteposto al cuore della storia. Ora, nei miei passati discorsi con altre persone ho fatto finire la “sezione pilota” di LKNA ad almeno tredici punti diversi: in ordine sparso citiamo 1x01, 1x02, 1x03, 1x05, 1x10, 1x16. Ma stavolta sono abbastanza convinto di aver raggiunto il punto chiave: ho introdotto personaggi fondamentali, ne ho approfondito la personalità, ho sfoltito il gruppo iniziale delineando la coppia di cui seguiremo il viaggio, ho aperto qualcosa come tredici (uno per pilota) filoni narrativi, e fegatini (ndA: fegatini vale eccetera).

Quindi eccoci qui: diciottesimo capitolo, fine delle esercitazioni, ora si gioca per davvero. Via all'introduzione seria.

 

la struttura

Pochi eletti – buon Dio, Ivan, la smetti? – sanno già come funziona questa storia e cosa sia in realtà. Iniziamo con il genere: mi piace definire quello a cui appartiene LKNA come adventure fiction, nel senso di una fiction basata sulle avventure. Mi è stato fatto notare a più riprese come somigli alla serie sci-fi britannica Doctor Who, e vorrei specificare che non è un caso: essa, essendo il perfetto esempio di come intendo una adventure fiction (struttura episodica con trama a progressione orizzontale, o come piace dirla a me “autoconclusivi per finta”), è stata ed è di costante ispirazione per la stesura di LKNA.

Ciononostante vorrei chiarire un paio di questioni che sono sorte con il tempo. LKNA non è:

·         un piatto di risotto;

·         un crossover tra Pokémon e Doctor Who (non c'è alcun personaggio di Doctor Who);

·         una storia Pokémon con il Dottore come protagonista (pur essendoci alcuni tratti in comune tra alcuni Dottori recenti e Bellocchio dovuti all'essere tutti basati sull'archetipo del genio folle, Bellocchio non è il Dottore né mai lo sarà. Un simile discorso vale riguardo personaggi secondari di LKNA e compagni del Dottore);

·         una raccolta che rielabora episodi di Doctor Who in chiave Pokémon (questo dubbio è sorto per una buona ragione: il doppio opener Bellocchio chi?/La Dama Cremisi è un mio dichiarato rimaneggiamento di The Eleventh Hour, primo episodio della quinta stagione di Doctor Who);

·         un piatto di lasagne. In effetti posso dire in tutta sicurezza che LKNA non è un primo.

Ora posso passare a dire cosa LKNA è: una fan fiction ambientata in un otherverse con alcune evidenti modifiche temporali (in Pokémon X e Y Bellocchio ha una quarantina d'anni, Calem e Serena probabilmente sedici). Eccettuate queste ultime LKNA si configura come un prequel personale di Bellocchio, che qui è decisamente più giovane; la sua natura di prequel giustifica anche parzialmente alcuni cambi caratteriali nei personaggi, ma ho comunque apposto la dicitura OOC per chiarire che non seguirò le personalità del videogioco.

 

i ritmi

LKNA è divisa in tre stagioni che confluiranno tutte in questo file di EFP (quindi mi spiace, per i punti bonus delle recensioni ne avrete da aspettare): se qualcuno non ci fosse ancora arrivato dopo diciassette capitoli, il numerino 1 che avete a sinistra indica proprio la stagione in corso. Il break estivo da cui provenite se state leggendo in diretta segna l'inizio della Season 1 Part 2, e conto di pubblicare un episodio ogni due settimane senza pause fino a luglio, quando ci sarà il gran finale della prima stagione. Niente interruzioni natalizie (anzi, prevedo uno speciale a tema), né per eventuali altre storie da me pubblicate (tipo una certa Involutus che attende nel mio PC di essere completata): LKNA procede sempre e comunque.

 

ultime note

Giusto alcuni accorgimenti: esistono due segmenti di testo che spesso si troveranno nei capitoli a seguire. Uno è il previously, che dovreste avere già incontrato se avete letto i capitoli passati e la cui funzione è abbastanza ovvia: nel caso di avventure in più episodi riassumerà quanto successo in quelli precedenti. Devo comunque avvertire che non servirà da recap globale, indi non potrete leggere un capitolo e aspettarvi di capire tutto ciò che succede semplicemente scorrendo quella prefazione. Essa è pensata per rinfrescarvi la memoria, non per consentirvi di saltare impudentemente pezzi di storia.

La new addiction di questa seconda parte di stagione è il next time: all'episodio finale di ogni avventura a più parti seguirà un trafiletto di qualche riga, più o meno criptico a seconda dei casi, che anticiperà con moderazione cosa dovrete aspettarvi due settimane dopo.

Direi che questo è tutto. Vi auguro buona lettura.

 

cout << endl; (ah, no, quello è C++)

Novecento

 

 

 

 

 

 

Lisciati barba e baffi bianchi e sistemato l'elegante abito d'altri tempi, Mr. Moon prese un respiro profondo e spalancò la porta del Congresso. L'emiciclo quasi parve non accorgersene, continuando imperterrito nel caos che da un mese a questa parte ormai regnava sovrano al suo interno. Da un lato, asserragliati nel loro spicchio dell'aula, i Corsari lanciavano invettive e sfoderavano fogli di denuncia. Alle scorse elezioni, solo due anni prima, avevano riscosso un ottimo successo: non la maggioranza, ma comunque il primo partito di Kalos; mai però avrebbe immaginato che sarebbero stati una tale spina nel fianco. Accanto a loro sedevano gli ex-fedeli dei Diecipunti, piccola forza politica estremista confluita nei Corsari due mesi dopo le amministrative per far fronte proprio a lui, proprio a Mr. Moon. Non ci aveva dato troppo peso, al tempo: non diventi Presidente di Kalos e Grande Assessore di Luminopoli senza farti qualche nemico.

Poi erano venuti gli scandali, le inchieste di Le Monde, le raccomandazioni, le collusioni, le divisioni nel suo stesso partito. Facessero meno i santerellini, diceva sempre, i parlamentari privi di scheletri da nascondere si contavano sulle dita di una mano. E ora eccolo nella sua ultima marcia su quegli scalini a presiedere la Camera, stanco e inviperito. Ora si erano resi conto che era entrato, ognuno a modo suo: chi gridandogli frasi ingiuriose, chi chinando il capo senza osare incontrare il suo sguardo, chi avvicinandosi alla sua poltrona per offrirgli incoraggiamenti di circostanza.

Alle undici in punto varcò la soglia Lysandre Faubourg, suo amico di lunga data e, per molti versi, allievo fidato. Eppure, quando incrociò a distanza i suoi occhi, i ruoli gli parvero invertiti: era quasi egli stesso il bambino colto con le mani nella marmellata e l'Intermediario il padre immalinconito costretto ad assistere al suo fallimento. Glielo poteva leggere nell'espressione avvilita: il Consiglio dei Superquattro aveva revocato la fiducia al governo. Sarebbe uscito da quella Camera da disoccupato.

 

 

 

Episodio 1x18

Le nebbie di Castel Vanità

 

 

 

« Sarò breve e circonciso… ».

La speaker radiofonica non riuscì a trattenere un risolino all'incipit del discorso di Di Giovanni, che di certo non avrebbe messo in buona luce i Corsari culturalmente parlando. Silvia si unì all'ilarità prima di spegnere la radio integrata e uscire dall'autovettura. Respirò con piacere l'aria di Castel Vanità, una frescura stabile che permeava la cittadina infiltrandosi tra i cumuli di nebbia. Un brivido le percorse la schiena, ma non seppe che significato attribuirvi: poteva essere per la nostalgia di ritornare al suo paese natale, ma forse era solo perché una temperatura così bassa a marzo la coglieva del tutto impreparata.

Si incamminò lungo il viale alberato in cui aveva parcheggiato, giocando con la condensa che produceva con il fiato, e per diversi minuti non fece altro che aggirarsi per il luogo, percorrendo salite, discese e curve che avevano segnato la sua infanzia. Castel Vanità era un piccolo villaggio dell'entroterra di Kalos, quasi uno sputo di civiltà su una campagna così vasta come quella che si profilava a ovest di Luminopoli. La stessa capitale della regione era visibile in lontananza in giorni dai cieli più tersi di quello odierno, e Silvia era cresciuta sognandola. Eppure nessuna Torre Prisma per lei aveva lo stesso fascino della sua cara, vecchia casupola.

Eccola là, immersa nella foschia, solida nelle sue mura di mattoni e taciturna come sempre. Erano almeno tre anni che non la visitava e ciò le provocò nel cuore un'emozione non indifferente mentre bussava secondo il suo schema canonico. Ti-toc, ti-toc, toc-toc.

Dopo qualche istante le aprì una signora di mezza età, leggermente più alta di lei e dai capelli più tendenti al castano. Non era mai stata molto convinta del colore dato che il ceppo da cui proveniva vantava una tradizione di chiome bionde, ma aveva sempre dovuto fare i conti con la realtà: sua zia Tonya non era una da tinte.

Impiegò qualche istante a riconoscere sua nipote, ma l'accoglienza compensò abbondantemente per il lieve ritardo. « Silvia! » proruppe gioiosamente Tonya, stringendola a sé con una forza considerevole per una donna di quell'età.

« Ciao, zia! » ricambiò lei con un sorriso « Quanto tempo! ».

« Fideg, però, ti s’è alzata! ».

« Lo sai che ormai non cresco più » ribatté Silvia giocosamente. Quel fideg l’aveva colta alla sprovvista, ma aveva impiegato poco a entrare nella logica del parlato dialettale di Tonya.

« Oh… Allora vol dì che la tua zietta s’è abbassà, neh? Ciapa, vien dentro! ».

L'interno aveva un aspetto strano: per quanto, come succede a chi non vive in un posto per molto tempo, apparisse come un ambiente nuovo, era esattamente come la sua precedente inquilina se lo ricordava: rustico, senza ghirigori simili a quelli della nuova abitazione di sua madre, e tuttavia ospitale almeno tanto quello. In una parola, casa. Del resto era prevedibile che la zia non avrebbe mosso un dito per riparare ciò che non era rotto dopo esservisi trasferita. Non era la sua mentalità.

« Cum’è che la sta, poi, Brianna? Si fa mai vedé, chi ».

« Come? Ah, sta benissimo, non parla quasi più di papà. Non la vedevo così felice da prima dell'incidente. Scusa » domandò Silvia dopo essersi ripresa dallo shock di ritrovarsi, una volta di più, in luoghi che aveva frequentato assiduamente solo da bambina « per caso è arrivato il mio pacco? Quello che ti dicevo via telefono ».

« Chel dei tizi in rosso? Sun passà alle vot e mezzo » spiegò Tonya « Poi che ero già sveglia da due ore. Mai perdere le cattive abitudini! Ciapa, l'ho messo in sala da pranzo ».

Silvia si sorprese di quante cose avesse dimenticato in così pochi anni. Il tavolo da pranzo era una di esse: nascosto da un muro divisorio che celava la cucina, un tempo esattamente ogni primo dicembre si sedeva lì e, previo posizionamento di un cuscino sullo sgabello per arrivare al ripiano, redigeva la sua lettera a Babbo Natale. Non serve specificare che vedere sopra a quel mobile in legno levigato un oggetto di alta tecnologia come un modulatore di Gauss scatenava un'antitesi difficilmente trascurabile.

Lo esaminò dal tubo di vetro produttore di bosoni al puntatore di precisione, riscontrando che era messo meglio di quanto si aspettasse. Se fosse riuscita a trasportarlo al laboratorio del Frattale integro, e pur con la mole di imballaggi di cui si era munita non ne era certa, avrebbe potuto rivoluzionare la scienza.

« Cusa l’è? M’han dì de non lo tucar, li gh'eran tesi » commentò Zia Tonya.

Silvia sorrise pensando a come avrebbe fatto a spiegarlo a una persona completamente digiuna di fisica contemporanea. « Hai presente lo scorso Galà di Luminopoli? ».

« Alla radio parlavan solo de chelo. Non c’ho capì molto, ma ricordo che’l cielo l’è diventà viola ».

« Sì, beh, era collegato a questo, il modulatore di Gauss » proseguì la donna, certa che a breve non sarebbe stata in grado di andare oltre « Un oggetto tanto strano che non potrebbe nemmeno esistere. Colress l'aveva usato per un cannone a gravitoni, cioè… In pratica questo affare produce… particelle di gravità, diciamo, e ha intensificato localmente il campo gravitazionale per tirar giù la cometa Ikeya. Si credeva perduto nell'esplosione, e invece eccolo qua ».

« Oh, ‘ste nove tecnologie son troppo assurde per la tua zietta… Come chel cos, come se ciama, il tele-vison… ».

La risata di Silvia spezzò il suo momentaneo imbarazzo « Televisore, e sarebbe ora che te ne prendessi uno anche tu ».

« Fideg! » esclamò Tonya punta nell'orgoglio « Così finisco come Baer el bechèe! ».

« Chi? ».

« Baer! Non ti ricordi, ti portavo da piccola a ciapà le salcicce. Ora s’è preso uno di chegli smarfòn e non lo si vé mai ».

Apparentemente bechèe significava macellaio, altrimenti il resto non avrebbe avuto senso. Buono a sapersi. « Ora che ci penso… Non ho incontrato nessuno mentre venivo qui. Dove sono tutti? ».

« Oh, mi sa in casa, con ‘sto frecc… È tua la setiman che va avanti. Parola mia, mai visto un frecc così a marzo! Ma ormai con chele scie avvelenate ce stan a levar pure la primavera, che ci vuoi fà… ».

Silvia aggrottò la fronte e si accostò al vetro della finestra, dando una sbirciata fuori. Non un'anima viva in giro, esattamente come prima, ma ora che guardava meglio c'era qualcosa di strano. Al di là del silenzio, al di là del vuoto, qualcosa che le pareva innaturale.

«Nonna Carol! » sobbalzò a un tratto, divergendo completamente dalle sue considerazioni precedenti. Si voltò con uno scatto « Non sono passata a salutare la nonna! Cavolo, non la vedo da così tanto tempo… Ha ancora quella sua stanza a Fort de Vanitas, vero? ».

Zia Tonya abbassò lo sguardo al pavimento come a non trovare le parole, e ciò mise in allarme sua nipote come poco altro. « La nona ora vive chi… ».

« Come? Da quando? Credevo avesse detto che in quello stanzino ci sarebbe morta piuttosto che andarsene ». Silvia non nascose un pizzico di sollievo: aveva temuto il peggio all'espressione cupa della zia.

« Eh, da mardì, ormai… Io vuleo avvertirti, ti ho ciamata a casa ma non rispondei… E Brianna non c'è mai, l’è più ».

Martedì era il giorno in cui sua sorella Katie era caduta in coma vigile a Luminopoli; o meglio, era successo nella notte tra lunedì e martedì, e appena saputolo era accorsa all'ospedale per raggiungere sua madre. Non era rientrata alla sua casa di Novartopoli in quel periodo, il che spiegava perché non avesse saputo niente. Quanto a Brianna stessa, quando aveva tagliato i contatti con il passato aveva dato a sua sorella un falso numero, e ancora non aveva trovato il coraggio di dirglielo. « Ma continuo a non capire. Perché è venuta a vivere qui? ».

Tonya era in evidente difficoltà, come se avesse paura anche solo a parlare. Per quanto esortata un paio di volte dall'interlocutrice, uno spirito timoroso delle giustizie divine come il suo non riuscì a dire altro che « Sta al pian de hura ».

Il piano di sopra, tradusse mentalmente: un invito implicito a salire. Silvia accettò confusa. « Non vieni con me? ».

« L’è mej de no, in due la se spaventa » rispose lei « Starò chi sotto e accenderò il camino, che inizia a fà trò frecc anche per me ».

Un'affermazione senz'altro sibillina quella di prima, pensò la giovane: in due si spaventa? Ritornò in soggiorno e svoltò oltre l'angolo terminale del divisorio per giungere alle scale con apparente calma, ma dentro turbinava di dubbio. Non era un'ingenua: dalle parole di Zia Tonya si era fatta un'idea di quale dovesse essere la circostanza. Ma la bambina che era in lei non poteva accettarlo, e la fisica che era in lei non poteva accettarlo senza esserne prima testimone in prima persona.

In cima alla rampa stava una porta chiusa. Una volta era la camera da letto sua e dei suoi genitori, prima che si trasferissero a Luminopoli; poi lo era stata per sua zia, insediatasi dopo che la sua abitazione precedente era stata pignorata. Ora, a quanto pare, un altro inquilino si era aggiunto.

Bussò tre volte, senza rispettare il suo solito ritmo per decoro, e una voce anziana rispose dall'altra parte « Sono qui! ».

Silvia entrò timidamente. Tre o ventitré anni poco cambiava: la stanza era sempre rimasta uguale da quando lei e la famiglia l'avevano abbandonata. Nemmeno le lenzuola dei giacigli erano diverse: stesso motivo floreale, ma anziché un solo letto privo di polvere ora erano due. Notò tuttavia due altre aggiunte: alla parete destra era stato appeso uno specchio antico, e davanti a quello che una volta era il suo letto, probabilmente presa in prestito dal pianterreno, era stata posta una sedia di vimini addobbata con un cuscino sullo schienale. Sopra di essa una vecchia smilza dai capelli sparuti e bianchi sedeva pudicamente, stringendo tra le mani un elegante bastone da passeggio dal manico intagliato a formare la testa di un serpente.

La giovane alzò la mano per porgere i saluti, ma la vegliarda non fece altro che ripetere « Sono qui! » con un sorriso enigmatico in volto.

« Ciao, nonna! Come va? ».

Ancora una pausa spiacevole, un respiro rumoroso e « Ciao! Sono qui! ».

Silvia annuì comprensiva e si collocò sul vecchio materasso di sua madre con flemma, non celando la rassegnazione che covava dentro. La fisica dentro di sé era appagata, la bambina decisamente meno. Sua nonna non c'era più; o meglio, c'era con il corpo, ma non con la mente. Nemmeno guardava sua nipote, come se non si rendesse conto che era lì. Manteneva lo sguardo perso nel vuoto.

« È parecchio che non ci vediamo, eh? » cominciò, cercando come poteva di trattenere la tristezza all'interno. Questa volta non ottenne nemmeno una risposta.

Rammentò i pomeriggi al parco, quando quella meravigliosa donna le offriva sempre un gelato anche se i suoi non volevano. Rammentò le gite a Fort de Vanitas, che già a quattro anni conosceva a menadito, ma che aspettava sempre con trepidazione perché avrebbe trascorso una giornata intera con la nonna. Rammentò le cene natalizie, quando il suo regalo era sempre il più bello, e chissà poi dove li trovava i soldi, ma da piccoli non ci si pensa. Le scese una goccia di pianto, una singola goccia dall'occhio destro, come se anche i suoi sacchi lacrimali non volessero mancarle di rispetto mentre osservava quel guscio privo di sostanza.

« Ti ricordi quando ti venivamo a trovare? » le domandò con voce spezzata, prendendole la mano sinistra tra le sue e stringendola « Mi chiedevi se avevo già un ragazzo, e io ti dicevo che non mi interessavano. Beh, ne ho conosciuto uno, alla fine ».

« Ciao! » Nonna Carol si voltò nella sua direzione, facendole saltare un battito. Ma l'illusione durò poco: non era un lampo di coscienza, solo le sinapsi che reagivano per conto loro.

Silvia portò la mano gelida dell'anziana al viso per asciugarsi gli occhi umidi, sorridendo al pensiero dell'appuntamento del giorno prima. « Si chiama Craig, ieri ci siamo fidanzati. È così dolce… Ti–– ». Ti sarebbe piaciuto, avrebbe voluto continuare, ma le emozioni presero il sopravvento sulla ragione. Si immobilizzò e tacque, navigando nel fiume dei ricordi senza una meta, pronunciando parole sconnesse che per lei avevano tutto il senso del mondo. In nessun'altra occasione si era sentita così vecchia.

 

 

Scendendo le scale dopo circa un quarto d'ora di dialogo unilaterale, Silvia rammentò una cosa: non aveva detto a sua zia che Craig l'avrebbe raggiunta l'indomani per una vacanza insieme a Castel Vanità. Inizialmente pensava di utilizzare quella stessa casa, ma dal momento che ora sarebbero stati in quattro forse avrebbe fatto meglio ad affittare una camera d'albergo. Non aveva idea di come procurarsi i soldi, ma forse sua madre Dama Brianna avrebbe potuto pagare.

Tornata al piano terra, tuttavia, qualcos'altro la colpì: l'odore di miele che aveva trovato all'ingresso era ancora lì, quando si sarebbe attesa che venisse sostituito dall'acre profumo di falò ardente. Controllò il caminetto solo per confermare la sua intuizione: la legna era al suo posto, ma non era stata accesa. « Zia! » chiamò ad alta voce « Zia, dove sei? ».

Attese invano una risposta, quindi suppose che doveva essere uscita e non l'aveva avvertita per non mettere Nonna Carol in allerta. Varcò a sua volta la porta di casa, non preoccupandosi neanche di serrarla dato che non si vedeva nessuno in giro, e la pungente temperatura autunnale la fece tremare per un istante. Fece qualche passo in avanti e si guardò attorno, stringendosi nella sua giacca poco adatta a quel freddo. C'era qualcosa di davvero innaturale: non era solo deserto, era vuoto. Anche nei piccoli paeselli c'è sempre qualcuno che passeggia, qualche anziano che siede alle panchine, e invece nulla, non una sagoma in vista. E ciò non era per nulla naturale, persino per Castel Vanità.

Si aggirò nella bruma alla ricerca di qualcuno, vagando per minuti nell'isolato della vecchia scuola elementare adesso chiusa per taglio dei finanziamenti da parte del governo centrale, soffermandosi sullo spiazzo che rendeva macabramente visibile il cimitero sulla collina che dominava la città. Poi attraversò interamente lo storico Corso dei Negozi, dove da piccola la portavano a scegliere i regali di compleanno, ma anche qui un buco nell'acqua: era tutto chiuso. Si rese conto che le conoscenze che aveva assimilato quando ancora portava il cerchietto ai capelli non potevano aiutarla.

No, però, aspetta. Poteva essere deserto quanto voleva, ma lei una persona l'aveva vista: Zia Tonya. Stava in casa intirizzita, pronta per accendere il camino, ma era uscita: perché? C'era una sola cosa che poteva averla fermata: non aveva nulla per scatenare la prima fiamma. Doveva essere uscita per forza a comprare un accendino – o più facilmente, conoscendola, una scatola di zolfanelli. Doveva per forza essere passata dal tabaccaio; e il tabaccaio di Castel Vanità Silvia lo ricordava bene, perché suo nonno era un gran fumatore e ci faceva sempre una capatina.

Corse a passo sostenuto nel luogo dov'era un tempo, una larga via in pendenza, sperando che non si fosse spostato e, soprattutto, che fosse ancora aperto; e una volta tanto le sue preghiere furono esaudite. La gioia che provò intravedendo il grande cartello pensile a T e il vetro libero da serrande fu immensa, quasi paragonabile a quella di entrarvi e scoprire, con lo scampanellio della porta che risuonava ironico nel locale, che anche il proprietario era al suo posto.

« Mi scusi, per caso è passata di qui una donna? Sulla cinquantina, capelli scuri, alta più o meno come me… ? » domandò Silvia riprendendo il fiato che la nebbia le aveva rubato. L'uomo poco più grande di lei che le dava le spalle non rispose, proseguendo indaffarato a contare i soldi nel registratore di cassa.

« Mi ha sentito? ».

Quasi volesse prendersi gioco di lei, quello intensificò il computo delle banconote ignorandola completamente e canticchiando sottovoce un motivetto stonato.

Silvia vibrò per l'impazienza e alzò i toni « Sentimi bene, coso, sono già abbastanza seccata perché sono praticamente sola in questo buco, quindi se volessi dirmi cosa sta–– ».

Senza lasciarla finire, in un cambio completo d'atteggiamento, il signore si voltò di scatto e la fissò direttamente « Sei idonea ».

« Co–– Come dici? ». La donna non ebbe molto di che crucciarsi su quell'enigmatica affermazione, perché la sua attenzione fu catalizzata da una diversa questione: gli occhi stampati sulla faccia che le aveva rivolto la parola avevano le iridi rosso sangue.

« Sei idonea! » ripeté quello, stavolta più convinto e con una cadenza più da illuminazione che da enunciato.

È buffo come certe deduzioni ti colgano nei momenti meno indicati. Per esempio Silvia comprese solo in quell'istante cosa le aveva causato tanto turbamento guardando fuori dalla finestra non molto tempo prima. Faceva freddo, e apparentemente tutti gli abitanti erano asserragliati nei loro nidi a riscaldarsi di fronte a un minestrone bollente. Eppure, in un villaggio tanto arretrato da poter plausibilmente avere due, massimo tre stufe elettriche tra tutti i suoi residenti, non un solo camino sbuffava fumo. Non erano nelle loro case.

Lo squillante dlin-dlon della porta d'ingresso preannunciò l'entrata di un'altra persona, stavolta un vecchiardo in sedia a rotelle dalla bocca tremante. Silvia non si fece ingannare nemmeno per un secondo: anche i suoi occhi erano due rubini opachi, e ora che guardava meglio le palpebre non battevano mai. Notando che il tabaccaio aveva mosso qualche passo nella sua direzione si slanciò verso l'uscita, spiccando un salto per scavalcare l'invalido che aveva di fronte. Questi la afferrò per un piede con una glaciale stretta che poco o nulla aveva in comune con l'età che l'uomo dimostrava: troppo rapida e troppo, troppo forte. Alla fine, a furia di divincolarsi cercando al contempo di non ferire quel poveraccio, Silvia si liberò ritrovandosi dopo una capovolta in mezzo alla gelida strada obliqua della privativa.

Si alzò con un balzo dando un'occhiata in giro, e avrebbe potuto giurare che la nebbia si fosse infittita. Iniziò a correre in discesa confidando che sarebbe stato più facile, ma fu obbligata a fermarsi quasi immediatamente: dalla pallida foschia era emerso prima un singolo corpo con le braccia protese verso di lei, poi decine e decine di altri, tutti con iridi rosse, tutti più simili a cadaveri ambulanti che a esseri umani, annidati nella caligine come avvoltoi sospesi sopra una carogna.

Silvia invertì il senso di fuga con sconforto: non solo ora procedeva in salita, ma si stava anche allontanando dall'automobile, unica sua ancora di salvezza. La demoralizzazione comunque durò poco, almeno in quella versione: non aveva percorso nemmeno una ventina di metri quando, dal lato opposto della strada, altri uomini e donne erano sbucati dal fumo bianco con lei come bersaglio. Arretrò a passi lenti, ma fu costretta a lasciar perdere anche quel piano quando realizzò che non aveva dove andare con entrambe le vie di ritirata ostruite.

La folla di abitanti iniziò a convergere verso di lei fino a metterla letteralmente con le spalle al muro, virtualmente addossata contro la parete di un edificio e rigidamente circondata. La prima fila era accortamente occupata da quei pochi giovani che Castel Vanità poteva vantare; o meglio, quasi del tutto occupata da giovani. La sola intrusa in quella tattica era, con suo definitivo avvilimento, Zia Tonya, anch'ella ormai vittima di quell'incomprensibile morbo. Ipotizzò addirittura di usare quello che pareva un dileggio come falla per sfondare quel lato e fuggire, ma le sovvenne l'immagine del disabile novantenne che reagiva con la prontezza del fiore degli anni.

Dovette rassegnarsi: non c'era modo di salvarsi. Non si domandò nei suoi ultimi attimi cosa le avrebbero fatto una volta presa, se l'avrebbero torturata, uccisa, convertita o che altro; pensò solamente a Craig, a quanto avrebbe sofferto e al fatto che anche lui avrebbe probabilmente fatto la stessa fine per colpa sua dato che doveva raggiungerla quel giorno stesso.

Senza preavviso qualcuno o qualcosa afferrò la sua mano da dietro, e Silvia si sorprese del fatto di essere ancora capace, nonostante avesse taciuto fino ad allora, di emettere un grido di paura. Si voltò: un uomo in completo e cappotto dai cappelli sbarazzini aveva aperto dall'interno la porta della dimora dietro di lei, e ora le tirava il braccio.

« Corri ».

   
 
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