presentazioni
Sì, sto inserendo la premessa alla
storia nel diciottesimo capitolo. Che scrittore che sono, meriterei una
recensione solo per questo.
Se c'è qualcuno che ha seguito più
di un mio racconto – no, Ivan, tu non conti – si sarà accorto che questo è
l'unico a cui non ho apposto un'introduzione. Come risultato, chiunque mi abbia
conosciuto da LKNA (ovvero, ad
oggi, tutti quelli con cui abbia parlato a riguardo – Ivan, per l'amor di Dio,
smettila di alzare la mano –) non ha la minima idea di chi sia. Quindi piacere,
Novecento, il nome viene dal film, laureando in Fisica, aspirante Dio, tanti
saluti, vi rimando alla mia pagina personale.
Passando a cose più serie:
fegatini. Passando ad altre cose ugualmente serie, perché scrivere la premessa
proprio qui? Tralasciando l'ovvio “me ne ero scordato al momento della
pubblicazione” (palle, non avevo semplicemente voglia), perché non aggiungerla
all'inizio dell'1x01? Varie ragioni.
Punto primo: fegatini; l'ho già
detto, ma repetita iuvant. Punto secondo: con l'1x17 termina una sorta di
gigantesco pilota che ho anteposto al cuore della storia. Ora, nei miei passati
discorsi con altre persone ho fatto finire la “sezione pilota” di
LKNA ad almeno tredici punti
diversi: in ordine sparso citiamo 1x01, 1x02, 1x03, 1x05, 1x10, 1x16. Ma
stavolta sono abbastanza convinto di aver raggiunto il punto chiave: ho
introdotto personaggi fondamentali, ne ho approfondito la personalità, ho
sfoltito il gruppo iniziale delineando la coppia di cui seguiremo il viaggio, ho
aperto qualcosa come tredici (uno per pilota) filoni narrativi, e fegatini (ndA: fegatini vale eccetera).
Quindi eccoci qui: diciottesimo
capitolo, fine delle esercitazioni, ora si gioca per davvero. Via
all'introduzione seria.
la struttura
Pochi eletti – buon Dio, Ivan, la
smetti? – sanno già come funziona questa storia e cosa sia in realtà. Iniziamo
con il genere: mi piace definire quello a cui appartiene LKNA come
adventure fiction, nel senso di
una fiction basata sulle avventure. Mi è stato fatto notare a più riprese come
somigli alla serie sci-fi britannica
Doctor Who, e vorrei specificare che
non è un caso: essa, essendo il perfetto esempio di come intendo una
adventure fiction (struttura
episodica con trama a progressione orizzontale, o come piace dirla a me
“autoconclusivi per finta”), è stata ed è di costante ispirazione per la stesura
di LKNA.
Ciononostante vorrei chiarire un
paio di questioni che sono sorte con il tempo. LKNA
non è:
·
un piatto di risotto;
·
un crossover tra Pokémon e
Doctor Who
(non c'è alcun personaggio di
Doctor Who);
·
una storia Pokémon con il Dottore
come protagonista (pur essendoci alcuni tratti in comune tra alcuni Dottori
recenti e Bellocchio dovuti all'essere tutti basati sull'archetipo del genio
folle, Bellocchio non è il Dottore né mai lo sarà. Un simile discorso vale
riguardo personaggi secondari di LKNA e compagni del Dottore);
·
una raccolta che rielabora episodi
di
Doctor
Who
in chiave Pokémon (questo dubbio è sorto
per una buona ragione: il doppio opener
Bellocchio chi?/La Dama Cremisi
è un mio dichiarato rimaneggiamento di
The Eleventh Hour, primo episodio della quinta stagione di
Doctor Who);
·
un piatto di lasagne. In effetti
posso dire in tutta sicurezza che LKNA non è un primo.
Ora posso passare a dire cosa LKNA
è: una fan fiction ambientata in
un otherverse con alcune evidenti modifiche temporali (in
Pokémon X e Y Bellocchio ha una quarantina d'anni, Calem e Serena
probabilmente sedici). Eccettuate queste ultime LKNA si configura come un
prequel personale di Bellocchio, che qui è decisamente più giovane; la sua
natura di prequel giustifica anche parzialmente alcuni cambi caratteriali nei
personaggi, ma ho comunque apposto la dicitura OOC per chiarire che non seguirò
le personalità del videogioco.
i ritmi
LKNA è divisa in tre stagioni che
confluiranno tutte in questo file di EFP (quindi mi spiace, per i punti bonus
delle recensioni ne avrete da aspettare): se qualcuno non ci fosse ancora
arrivato dopo diciassette capitoli, il numerino 1 che avete a sinistra indica
proprio la stagione in corso. Il break estivo da cui provenite se state leggendo
in diretta segna l'inizio della Season 1 Part 2, e conto di pubblicare un
episodio ogni due settimane senza pause fino a luglio, quando ci sarà il
gran finale della prima stagione. Niente interruzioni natalizie (anzi, prevedo
uno speciale a tema), né per eventuali altre storie da me pubblicate (tipo una
certa Involutus che attende nel
mio PC di essere completata): LKNA procede sempre e comunque.
ultime note
Giusto alcuni accorgimenti:
esistono due segmenti di testo che spesso si troveranno nei capitoli a seguire.
Uno è il previously, che
dovreste avere già incontrato se avete letto i capitoli passati e la cui
funzione è abbastanza ovvia: nel caso di avventure in più episodi riassumerà
quanto successo in quelli precedenti. Devo comunque avvertire che
non servirà da recap globale, indi non potrete leggere un
capitolo e aspettarvi di capire tutto ciò che succede semplicemente scorrendo
quella prefazione. Essa è pensata per rinfrescarvi la memoria, non per
consentirvi di saltare impudentemente pezzi di storia.
La new addiction di questa seconda
parte di stagione è il next time:
all'episodio finale di ogni avventura a più parti seguirà un trafiletto di
qualche riga, più o meno criptico a seconda dei casi, che anticiperà con
moderazione cosa dovrete aspettarvi due settimane dopo.
Direi che questo è tutto. Vi auguro
buona lettura.
cout << endl; (ah, no,
quello è C++)
Novecento
Lisciati barba e baffi bianchi e sistemato l'elegante abito d'altri tempi, Mr.
Moon prese un respiro profondo e spalancò la porta del Congresso. L'emiciclo
quasi parve non accorgersene, continuando imperterrito nel caos che da un mese a
questa parte ormai regnava sovrano al suo interno. Da un lato, asserragliati nel
loro spicchio dell'aula, i Corsari lanciavano invettive e sfoderavano fogli di
denuncia. Alle scorse elezioni, solo due anni prima, avevano riscosso un ottimo
successo: non la maggioranza, ma comunque il primo partito di Kalos; mai però
avrebbe immaginato che sarebbero stati una tale spina nel fianco. Accanto a loro
sedevano gli ex-fedeli dei Diecipunti, piccola forza politica estremista
confluita nei Corsari due mesi dopo le amministrative per far fronte proprio a
lui, proprio a Mr. Moon. Non ci aveva dato troppo peso, al tempo: non diventi
Presidente di Kalos e Grande Assessore di Luminopoli senza farti qualche nemico.
Poi
erano venuti gli scandali, le inchieste di Le Monde, le raccomandazioni,
le collusioni, le divisioni nel suo stesso partito. Facessero meno i
santerellini, diceva sempre, i parlamentari privi di scheletri da nascondere si
contavano sulle dita di una mano. E ora eccolo nella sua ultima marcia su quegli
scalini a presiedere la Camera, stanco e inviperito. Ora si erano resi conto che
era entrato, ognuno a modo suo: chi gridandogli frasi ingiuriose, chi chinando
il capo senza osare incontrare il suo sguardo, chi avvicinandosi alla sua
poltrona per offrirgli incoraggiamenti di circostanza.
Alle
undici in punto varcò la soglia Lysandre Faubourg, suo amico di lunga data e,
per molti versi, allievo fidato. Eppure, quando incrociò a distanza i suoi
occhi, i ruoli gli parvero invertiti: era quasi egli stesso il bambino colto con
le mani nella marmellata e l'Intermediario il padre immalinconito costretto ad
assistere al suo fallimento. Glielo poteva leggere nell'espressione avvilita: il
Consiglio dei Superquattro aveva revocato la fiducia al governo. Sarebbe uscito
da quella Camera da disoccupato.
Episodio 1x18
Le nebbie di
Castel Vanità
«
Sarò breve e circonciso… ».
La
speaker radiofonica non riuscì a trattenere un risolino all'incipit del discorso
di Di Giovanni, che di certo non avrebbe messo in buona luce i Corsari
culturalmente parlando. Silvia si unì all'ilarità prima di spegnere la radio
integrata e uscire dall'autovettura. Respirò con piacere l'aria di Castel
Vanità, una frescura stabile che permeava la cittadina infiltrandosi tra i
cumuli di nebbia. Un brivido le percorse la schiena, ma non seppe che
significato attribuirvi: poteva essere per la nostalgia di ritornare al suo
paese natale, ma forse era solo perché una temperatura così bassa a marzo la
coglieva del tutto impreparata.
Si
incamminò lungo il viale alberato in cui aveva parcheggiato, giocando con la
condensa che produceva con il fiato, e per diversi minuti non fece altro che
aggirarsi per il luogo, percorrendo salite, discese e curve che avevano segnato
la sua infanzia. Castel Vanità era un piccolo villaggio dell'entroterra di
Kalos, quasi uno sputo di civiltà su una campagna così vasta come quella che si
profilava a ovest di Luminopoli. La stessa capitale della regione era visibile
in lontananza in giorni dai cieli più tersi di quello odierno, e Silvia era
cresciuta sognandola. Eppure nessuna Torre Prisma per lei aveva lo stesso
fascino della sua cara, vecchia casupola.
Eccola
là, immersa nella foschia, solida nelle sue mura di mattoni e taciturna come
sempre. Erano almeno tre anni che non la visitava e ciò le provocò nel cuore
un'emozione non indifferente mentre bussava secondo il suo schema canonico.
Ti-toc, ti-toc, toc-toc.
Dopo
qualche istante le aprì una signora di mezza età, leggermente più alta di lei e
dai capelli più tendenti al castano. Non era mai stata molto convinta del colore
dato che il ceppo da cui proveniva vantava una tradizione di chiome bionde, ma
aveva sempre dovuto fare i conti con la realtà: sua zia Tonya non era una da
tinte.
Impiegò
qualche istante a riconoscere sua nipote, ma l'accoglienza compensò
abbondantemente per il lieve ritardo. « Silvia! » proruppe gioiosamente
Tonya, stringendola a sé con una forza considerevole per una donna di quell'età.
« Ciao,
zia! » ricambiò lei con un sorriso « Quanto tempo! ».
«
Fideg, però, ti s’è alzata! ».
« Lo
sai che ormai non cresco più » ribatté Silvia giocosamente. Quel
fideg l’aveva colta alla sprovvista,
ma aveva impiegato poco a entrare nella logica del parlato dialettale di Tonya.
« Oh…
Allora vol dì che la tua zietta s’è abbassà, neh?
Ciapa, vien dentro! ».
L'interno aveva un aspetto strano: per quanto, come succede a chi non vive in un
posto per molto tempo, apparisse come un ambiente nuovo, era esattamente come la
sua precedente inquilina se lo ricordava: rustico, senza ghirigori simili a
quelli della nuova abitazione di sua madre, e tuttavia ospitale almeno tanto
quello. In una parola, casa. Del resto era prevedibile che la zia non avrebbe
mosso un dito per riparare ciò che non era rotto dopo esservisi trasferita. Non
era la sua mentalità.
« Cum’è
che la sta, poi, Brianna? Si fa mai vedé, chi ».
« Come?
Ah, sta benissimo, non parla quasi più di papà. Non la vedevo così felice da
prima dell'incidente. Scusa » domandò Silvia dopo essersi ripresa dallo shock di
ritrovarsi, una volta di più, in luoghi che aveva frequentato assiduamente solo
da bambina « per caso è arrivato il mio pacco? Quello che ti dicevo via telefono
».
«
Chel dei tizi in rosso? Sun passà alle vot e mezzo » spiegò Tonya « Poi che
ero già sveglia da due ore. Mai perdere le cattive abitudini! Ciapa, l'ho messo
in sala da pranzo ».
Silvia
si sorprese di quante cose avesse dimenticato in così pochi anni. Il tavolo da
pranzo era una di esse: nascosto da un muro divisorio che celava la cucina, un
tempo esattamente ogni primo dicembre si sedeva lì e, previo posizionamento di
un cuscino sullo sgabello per arrivare al ripiano, redigeva la sua lettera a
Babbo Natale. Non serve specificare che vedere sopra a quel mobile in legno
levigato un oggetto di alta tecnologia come un modulatore di Gauss scatenava
un'antitesi difficilmente trascurabile.
Lo
esaminò dal tubo di vetro produttore di bosoni al puntatore di precisione,
riscontrando che era messo meglio di quanto si aspettasse. Se fosse riuscita a
trasportarlo al laboratorio del Frattale integro, e pur con la mole di
imballaggi di cui si era munita non ne era certa, avrebbe potuto rivoluzionare
la scienza.
« Cusa
l’è? M’han dì de non lo tucar, li gh'eran tesi » commentò Zia Tonya.
Silvia
sorrise pensando a come avrebbe fatto a spiegarlo a una persona completamente
digiuna di fisica contemporanea. « Hai presente lo scorso Galà di Luminopoli? ».
« Alla
radio parlavan solo de chelo. Non c’ho capì molto, ma ricordo che’l cielo l’è
diventà viola ».
« Sì,
beh, era collegato a questo, il modulatore di Gauss » proseguì la donna, certa
che a breve non sarebbe stata in grado di andare oltre « Un oggetto tanto strano
che non potrebbe nemmeno esistere. Colress l'aveva usato per un cannone a
gravitoni, cioè… In pratica questo affare produce… particelle di gravità,
diciamo, e ha intensificato localmente il campo gravitazionale per tirar giù la
cometa Ikeya. Si credeva perduto nell'esplosione, e invece eccolo qua ».
« Oh,
‘ste nove tecnologie son troppo assurde per la tua zietta… Come chel cos, come
se ciama, il tele-vison… ».
La
risata di Silvia spezzò il suo momentaneo imbarazzo « Televisore, e sarebbe ora
che te ne prendessi uno anche tu ».
«
Fideg! » esclamò Tonya punta
nell'orgoglio « Così finisco come Baer el bechèe! ».
« Chi?
».
« Baer!
Non ti ricordi, ti portavo da piccola a ciapà le salcicce. Ora s’è preso uno di
chegli smarfòn e non lo si vé mai ».
Apparentemente bechèe significava
macellaio, altrimenti il resto non avrebbe avuto senso. Buono a sapersi. « Ora
che ci penso… Non ho incontrato nessuno mentre venivo qui. Dove sono tutti? ».
« Oh,
mi sa in casa, con ‘sto frecc… È tua la setiman che va avanti. Parola mia, mai
visto un frecc così a marzo! Ma ormai con chele scie avvelenate ce stan a levar
pure la primavera, che ci vuoi fà… ».
Silvia
aggrottò la fronte e si accostò al vetro della finestra, dando una sbirciata
fuori. Non un'anima viva in giro, esattamente come prima, ma ora che guardava
meglio c'era qualcosa di strano. Al di là del silenzio, al di là del vuoto,
qualcosa che le pareva innaturale.
«Nonna
Carol! » sobbalzò a un tratto, divergendo completamente dalle sue
considerazioni precedenti. Si voltò con uno scatto « Non sono passata a salutare
la nonna! Cavolo, non la vedo da così tanto tempo… Ha ancora quella sua stanza a
Fort de Vanitas, vero? ».
Zia
Tonya abbassò lo sguardo al pavimento come a non trovare le parole, e ciò mise
in allarme sua nipote come poco altro. « La nona ora vive chi… ».
« Come?
Da quando? Credevo avesse detto che in quello stanzino ci sarebbe morta
piuttosto che andarsene ». Silvia non nascose un pizzico di sollievo: aveva
temuto il peggio all'espressione cupa della zia.
« Eh,
da mardì, ormai… Io vuleo avvertirti, ti ho ciamata a casa ma non rispondei… E
Brianna non c'è mai, l’è più ».
Martedì
era il giorno in cui sua sorella Katie era caduta in coma vigile a Luminopoli; o
meglio, era successo nella notte tra lunedì e martedì, e appena saputolo era
accorsa all'ospedale per raggiungere sua madre. Non era rientrata alla sua casa
di Novartopoli in quel periodo, il che spiegava perché non avesse saputo niente.
Quanto a Brianna stessa, quando aveva tagliato i contatti con il passato aveva
dato a sua sorella un falso numero, e ancora non aveva trovato il coraggio di
dirglielo. « Ma continuo a non capire. Perché è venuta a vivere qui? ».
Tonya
era in evidente difficoltà, come se avesse paura anche solo a parlare. Per
quanto esortata un paio di volte dall'interlocutrice, uno spirito timoroso delle
giustizie divine come il suo non riuscì a dire altro che « Sta al pian de hura
».
Il
piano di sopra, tradusse mentalmente: un invito implicito a salire. Silvia
accettò confusa. « Non vieni con me? ».
« L’è
mej de no, in due la se spaventa » rispose lei « Starò chi sotto e accenderò il
camino, che inizia a fà trò frecc anche per me ».
Un'affermazione senz'altro sibillina quella di prima, pensò la giovane:
in due si spaventa? Ritornò in soggiorno e svoltò oltre l'angolo
terminale del divisorio per giungere alle scale con apparente calma, ma dentro
turbinava di dubbio. Non era un'ingenua: dalle parole di Zia Tonya si era fatta
un'idea di quale dovesse essere la circostanza. Ma la bambina che era in lei non
poteva accettarlo, e la fisica che era in lei non poteva accettarlo senza
esserne prima testimone in prima persona.
In cima
alla rampa stava una porta chiusa. Una volta era la camera da letto sua e dei
suoi genitori, prima che si trasferissero a Luminopoli; poi lo era stata per sua
zia, insediatasi dopo che la sua abitazione precedente era stata pignorata. Ora,
a quanto pare, un altro inquilino si era aggiunto.
Bussò
tre volte, senza rispettare il suo solito ritmo per decoro, e una voce anziana
rispose dall'altra parte « Sono qui! ».
Silvia
entrò timidamente. Tre o ventitré anni poco cambiava: la stanza era sempre
rimasta uguale da quando lei e la famiglia l'avevano abbandonata. Nemmeno le
lenzuola dei giacigli erano diverse: stesso motivo floreale, ma anziché un solo
letto privo di polvere ora erano due. Notò tuttavia due altre aggiunte: alla
parete destra era stato appeso uno specchio antico, e davanti a quello che una
volta era il suo letto, probabilmente presa in prestito dal pianterreno, era
stata posta una sedia di vimini addobbata con un cuscino sullo schienale. Sopra
di essa una vecchia smilza dai capelli sparuti e bianchi sedeva pudicamente,
stringendo tra le mani un elegante bastone da passeggio dal manico intagliato a
formare la testa di un serpente.
La
giovane alzò la mano per porgere i saluti, ma la vegliarda non fece altro che
ripetere « Sono qui! » con un sorriso enigmatico in volto.
« Ciao,
nonna! Come va? ».
Ancora
una pausa spiacevole, un respiro rumoroso e « Ciao! Sono qui! ».
Silvia
annuì comprensiva e si collocò sul vecchio materasso di sua madre con flemma,
non celando la rassegnazione che covava dentro. La fisica dentro di sé era
appagata, la bambina decisamente meno. Sua nonna non c'era più; o meglio, c'era
con il corpo, ma non con la mente. Nemmeno guardava sua nipote, come se non si
rendesse conto che era lì. Manteneva lo sguardo perso nel vuoto.
« È
parecchio che non ci vediamo, eh? » cominciò, cercando come poteva di trattenere
la tristezza all'interno. Questa volta non ottenne nemmeno una risposta.
Rammentò i pomeriggi al parco, quando quella meravigliosa donna le offriva
sempre un gelato anche se i suoi non volevano. Rammentò le gite a Fort de
Vanitas, che già a quattro anni conosceva a menadito, ma che aspettava sempre
con trepidazione perché avrebbe trascorso una giornata intera con la nonna.
Rammentò le cene natalizie, quando il suo regalo era sempre il più bello, e
chissà poi dove li trovava i soldi, ma da piccoli non ci si pensa. Le scese una
goccia di pianto, una singola goccia dall'occhio destro, come se anche i suoi
sacchi lacrimali non volessero mancarle di rispetto mentre osservava quel guscio
privo di sostanza.
« Ti
ricordi quando ti venivamo a trovare? » le domandò con voce spezzata,
prendendole la mano sinistra tra le sue e stringendola « Mi chiedevi se avevo
già un ragazzo, e io ti dicevo che non mi interessavano. Beh, ne ho conosciuto
uno, alla fine ».
« Ciao!
» Nonna Carol si voltò nella sua direzione, facendole saltare un battito. Ma
l'illusione durò poco: non era un lampo di coscienza, solo le sinapsi che
reagivano per conto loro.
Silvia
portò la mano gelida dell'anziana al viso per asciugarsi gli occhi umidi,
sorridendo al pensiero dell'appuntamento del giorno prima. « Si chiama Craig,
ieri ci siamo fidanzati. È così dolce… Ti–– ». Ti sarebbe piaciuto,
avrebbe voluto continuare, ma le emozioni presero il sopravvento sulla ragione.
Si immobilizzò e tacque, navigando nel fiume dei ricordi senza una meta,
pronunciando parole sconnesse che per lei avevano tutto il senso del mondo. In
nessun'altra occasione si era sentita così vecchia.
Scendendo le scale dopo circa un quarto d'ora di dialogo unilaterale, Silvia
rammentò una cosa: non aveva detto a sua zia che Craig l'avrebbe raggiunta
l'indomani per una vacanza insieme a Castel Vanità. Inizialmente pensava di
utilizzare quella stessa casa, ma dal momento che ora sarebbero stati in quattro
forse avrebbe fatto meglio ad affittare una camera d'albergo. Non aveva idea di
come procurarsi i soldi, ma forse sua madre Dama Brianna avrebbe potuto pagare.
Tornata
al piano terra, tuttavia, qualcos'altro la colpì: l'odore di miele che aveva
trovato all'ingresso era ancora lì, quando si sarebbe attesa che venisse
sostituito dall'acre profumo di falò ardente. Controllò il caminetto solo per
confermare la sua intuizione: la legna era al suo posto, ma non era stata
accesa. « Zia! » chiamò ad alta voce « Zia, dove sei? ».
Attese
invano una risposta, quindi suppose che doveva essere uscita e non l'aveva
avvertita per non mettere Nonna Carol in allerta. Varcò a sua volta la porta di
casa, non preoccupandosi neanche di serrarla dato che non si vedeva nessuno in
giro, e la pungente temperatura autunnale la fece tremare per un istante. Fece
qualche passo in avanti e si guardò attorno, stringendosi nella sua giacca poco
adatta a quel freddo. C'era qualcosa di davvero innaturale: non era solo
deserto, era vuoto. Anche nei piccoli paeselli c'è sempre qualcuno che
passeggia, qualche anziano che siede alle panchine, e invece nulla, non una
sagoma in vista. E ciò non era per nulla naturale, persino per Castel Vanità.
Si
aggirò nella bruma alla ricerca di qualcuno, vagando per minuti nell'isolato
della vecchia scuola elementare adesso chiusa per taglio dei finanziamenti da
parte del governo centrale, soffermandosi sullo spiazzo che rendeva macabramente
visibile il cimitero sulla collina che dominava la città. Poi attraversò
interamente lo storico Corso dei Negozi, dove da piccola la portavano a
scegliere i regali di compleanno, ma anche qui un buco nell'acqua: era tutto
chiuso. Si rese conto che le conoscenze che aveva assimilato quando ancora
portava il cerchietto ai capelli non potevano aiutarla.
No,
però, aspetta. Poteva essere deserto quanto voleva, ma lei una persona
l'aveva vista: Zia Tonya. Stava in casa intirizzita, pronta per accendere il
camino, ma era uscita: perché? C'era una sola cosa che poteva averla fermata:
non aveva nulla per scatenare la prima fiamma. Doveva essere uscita per forza a
comprare un accendino – o più facilmente, conoscendola, una scatola di
zolfanelli. Doveva per forza essere passata dal tabaccaio; e il tabaccaio di
Castel Vanità Silvia lo ricordava bene, perché suo nonno era un gran fumatore e
ci faceva sempre una capatina.
Corse a
passo sostenuto nel luogo dov'era un tempo, una larga via in pendenza, sperando
che non si fosse spostato e, soprattutto, che fosse ancora aperto; e una volta
tanto le sue preghiere furono esaudite. La gioia che provò intravedendo il
grande cartello pensile a T e il vetro libero da serrande fu immensa, quasi
paragonabile a quella di entrarvi e scoprire, con lo scampanellio della porta
che risuonava ironico nel locale, che anche il proprietario era al suo posto.
« Mi
scusi, per caso è passata di qui una donna? Sulla cinquantina, capelli scuri,
alta più o meno come me… ? » domandò Silvia riprendendo il fiato che la nebbia
le aveva rubato. L'uomo poco più grande di lei che le dava le spalle non
rispose, proseguendo indaffarato a contare i soldi nel registratore di cassa.
« Mi ha
sentito? ».
Quasi
volesse prendersi gioco di lei, quello intensificò il computo delle banconote
ignorandola completamente e canticchiando sottovoce un motivetto stonato.
Silvia
vibrò per l'impazienza e alzò i toni « Sentimi bene, coso, sono già
abbastanza seccata perché sono praticamente sola in questo buco, quindi se
volessi dirmi cosa sta–– ».
Senza
lasciarla finire, in un cambio completo d'atteggiamento, il signore si voltò di
scatto e la fissò direttamente « Sei idonea ».
« Co––
Come dici? ». La donna non ebbe molto di che crucciarsi su quell'enigmatica
affermazione, perché la sua attenzione fu catalizzata da una diversa questione:
gli occhi stampati sulla faccia che le aveva rivolto la parola avevano le iridi
rosso sangue.
«
Sei idonea! » ripeté quello, stavolta più convinto e con una cadenza più da
illuminazione che da enunciato.
È buffo
come certe deduzioni ti colgano nei momenti meno indicati. Per esempio Silvia
comprese solo in quell'istante cosa le aveva causato tanto turbamento guardando
fuori dalla finestra non molto tempo prima. Faceva freddo, e apparentemente
tutti gli abitanti erano asserragliati nei loro nidi a riscaldarsi di fronte a
un minestrone bollente. Eppure, in un villaggio tanto arretrato da poter
plausibilmente avere due, massimo tre stufe elettriche tra tutti i suoi
residenti, non un solo camino sbuffava fumo. Non erano nelle loro case.
Lo
squillante dlin-dlon della porta d'ingresso preannunciò l'entrata di
un'altra persona, stavolta un vecchiardo in sedia a rotelle dalla bocca
tremante. Silvia non si fece ingannare nemmeno per un secondo: anche i suoi
occhi erano due rubini opachi, e ora che guardava meglio le palpebre non
battevano mai. Notando che il tabaccaio aveva mosso qualche passo nella sua
direzione si slanciò verso l'uscita, spiccando un salto per scavalcare
l'invalido che aveva di fronte. Questi la afferrò per un piede con una glaciale
stretta che poco o nulla aveva in comune con l'età che l'uomo dimostrava: troppo
rapida e troppo, troppo forte. Alla fine, a furia di divincolarsi cercando al
contempo di non ferire quel poveraccio, Silvia si liberò ritrovandosi dopo una
capovolta in mezzo alla gelida strada obliqua della privativa.
Si alzò
con un balzo dando un'occhiata in giro, e avrebbe potuto giurare che la nebbia
si fosse infittita. Iniziò a correre in discesa confidando che sarebbe stato più
facile, ma fu obbligata a fermarsi quasi immediatamente: dalla pallida foschia
era emerso prima un singolo corpo con le braccia protese verso di lei, poi
decine e decine di altri, tutti con iridi rosse, tutti più simili a cadaveri
ambulanti che a esseri umani, annidati nella caligine come avvoltoi sospesi
sopra una carogna.
Silvia
invertì il senso di fuga con sconforto: non solo ora procedeva in salita, ma si
stava anche allontanando dall'automobile, unica sua ancora di salvezza. La
demoralizzazione comunque durò poco, almeno in quella versione: non aveva
percorso nemmeno una ventina di metri quando, dal lato opposto della strada,
altri uomini e donne erano sbucati dal fumo bianco con lei come bersaglio.
Arretrò a passi lenti, ma fu costretta a lasciar perdere anche quel piano quando
realizzò che non aveva dove andare con entrambe le vie di ritirata ostruite.
La
folla di abitanti iniziò a convergere verso di lei fino a metterla letteralmente
con le spalle al muro, virtualmente addossata contro la parete di un edificio e
rigidamente circondata. La prima fila era accortamente occupata da quei pochi
giovani che Castel Vanità poteva vantare; o meglio, quasi del tutto occupata da
giovani. La sola intrusa in quella tattica era, con suo definitivo avvilimento,
Zia Tonya, anch'ella ormai vittima di quell'incomprensibile morbo. Ipotizzò
addirittura di usare quello che pareva un dileggio come falla per sfondare quel
lato e fuggire, ma le sovvenne l'immagine del disabile novantenne che reagiva
con la prontezza del fiore degli anni.
Dovette
rassegnarsi: non c'era modo di salvarsi. Non si domandò nei suoi ultimi attimi
cosa le avrebbero fatto una volta presa, se l'avrebbero torturata, uccisa,
convertita o che altro; pensò solamente a Craig, a quanto avrebbe sofferto e al
fatto che anche lui avrebbe probabilmente fatto la stessa fine per colpa sua
dato che doveva raggiungerla quel giorno stesso.
Senza
preavviso qualcuno o qualcosa afferrò la sua mano da dietro, e Silvia si
sorprese del fatto di essere ancora capace, nonostante avesse taciuto fino ad
allora, di emettere un grido di paura. Si voltò: un uomo in completo e cappotto
dai cappelli sbarazzini aveva aperto dall'interno la porta della dimora dietro
di lei, e ora le tirava il braccio.
« Corri
».