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Autore: _Frame_    01/09/2014    9 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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Il Miele sul Bicchiere


 



La guerra è bellissima solo per coloro che non l’hanno vissuta.”

(Erasmo da Rotterdam)




 

Diari di Germania

 

Mi sembra quasi strano che ancora oggi si continui a cercare un motivo per spiegare quello che è successo. Ho visto molte volte gli indici puntati sullo shock da spartizione dopo i trattati di Versailles, oppure sulla crisi economica generale. La situazione mia e di mio fratello in realtà non era un caso particolare. Tutta Europa stava male, e ognuno di noi cercava di aggrapparsi a qualcun altro, o per sostenersi reciprocamente o per trascinarlo insieme a lui. Io e Prussia non abbiamo avuto nessuno a tenderci la mano e, se mio fratello non ha mai digerito il fatto, io all’inizio sapevo che non potevamo farci niente. Lo avevo accettato, ma forse era più che altro perché non avevo ancora pienamente realizzato di aver perso la guerra in così poco tempo.

Solo in un secondo momento gli accordi si sono fatti più stretti, le tasse sempre più difficili da pagare e la nazione sempre più faticosa da sostenere. Se prima mi ero visto distruggere da fuori, in quell’istante sentivo che era come se mi stessi erodendo da solo, dall’interno, come una cellula che si disintegra a partire dal nucleo. Se dopo Versailles c’era stato da parte mia un atteggiamento di quasi annichilimento, dopo è subentrata la rabbia.

Stringevo i denti, andavo avanti, ma mi sentivo ogni giorno di più il fantoccio d’Europa, il salvadanaio da cui attingere fino a che non si crepa. Allora ho iniziato anche io a cercare un colpevole per tutto quello che mi era successo e per quello che mi stava ancora capitando. Prima ho pensato alla brutta situazione dettata dagli accordi, così sono andato a cercarne l’origine, e i colpevoli sono diventati le nazioni che me li avevano imposti. Poi ho addirittura incolpato nuovamente Italia che si era ritirato all’ultimo dall’alleanza. Solo dopo ho capito che io stesso consideravo me come unico e solo responsabile.

Da lì, poi, è scaturito tutto. La voglia di rifarmi, di riacquistare le forze, di far capire nuovamente che ero molto più della cassaforte d’Europa. Anche ora, ogni tanto, ci ripenso, e dico a me stesso che sarei potuto uscirne lo stesso, senza far nascere quello che poi ci ha travolti tutti in quella maniera.

Siamo stati ingenui. Io, mio fratello, Italia e Giappone. Ma nemmeno io avrei pensato che sarebbe finita così, perché la cosa non sarebbe dovuta durare nemmeno un anno. Volevamo una svolta veloce, rapida ed efficace. Nulla di paragonabile al logoramento che ci era capitato nel corso della prima delle due guerre. A quel tempo però non potevamo nemmeno immaginare quello a cui stavamo andando incontro. Il primo conflitto, a confronto, lo ricordo ancora oggi come un brutto sogno ad occhi aperti. Il secondo... quello è stato il vero incubo.

 



1. Versailles e Gomitate

 

28 giugno 1919, Versailles

 

“... gli altri rispettivi territori a Polonia, Belgio, Danimarca, e in particolare l’Alsazia e la Lorena a Francia.”

America girò la pagina e impilò il foglio sulla scrivania, sugli altri fascicoli ammassati. Premette una nocca sulla montatura degli occhiali e li spinse fino alla radice del naso. La punta della penna tappata correva tra le righe della pagina. Gli occhi azzurri erano bassi.

“Riguardo a Polonia, ci preoccuperemo di mettere su un corridoio che lo separi da Prussia.”

Germania ebbe un fremito. Le mani giunte dietro la schiena si strinsero le dita si inumidirono di sudore. Germania sollevò il mento e gonfiò il petto. Gli occhi di America non lo guardavano, erano ancora abbassati.

“Corridoio di separazione?” chiese Germania. La voce ferma, secca. Solo le mani tremavano. Tutto il suo corpo era un blocco di granito.

America annuì. Premette un gomito sul tavolo e poggiò la guancia sul pugno chiuso. Sbatté le palpebre senza smettere di fissare il foglio.

“Uhm, sì, una specie di divisione di territori minori, una roba così.” Sollevò la penna dal foglio e la posò sulla tempia. La punta sfregò tra i capelli fulvi. “Polonia è già stato avvisato. Magari parla tu con tuo fratello.”

“Ma...” Germania fece un passo in avanti. Sciolse le dita da dietro la schiena e strinse le mani sulla sbarra di legno orizzontale che lo separava dal tavolo degli Alleati. Germania aggrottò la fronte, i denti stridettero. “E cosa dovrei dirgli riguardo alla separazione? Che avete intenzione di tenerlo in gabbia?”

“Non è una gabbia,” rispose Inghilterra.

Germania allentò la presa attorno alla sbarra, senza staccare le mani. Inghilterra si sporse di lato, verso America, e gli prese il foglio dalle dita. Posò la pagina sotto i suoi occhi, le unghie tamburellarono sulla scrivania.

“Chiamiamolo cordone sanitario,” disse Inghilterra. “Nulla di realmente invadente, non vi stiamo portando via niente di più del dovuto.” Senza muovere il capo, gli occhi saettarono verso Russia, all’altra estremità della tavolata. “Se tuo fratello avrà qualcosa da obiettare, se la sbrigherà con Russia. Quei territori non sono di nostra competenza.”

Russia sorrise. Strinse le spalle fino a che la sciarpa non gli coprì le labbra. Gli occhi chiusi sorridevano ancora. Si sporse in avanti, premendo i gomiti sul tavolo, e si prese il capo tra i pugni stretti sulle guance.

“Non diventeranno nemmeno competenza di Germania, questo è certo,” disse con un risolino.

Un brivido di rabbia scosse le spalle di Germania. Mantenne il viso rigido come una maschera, gli occhi tremavano, il viso pallido e sciupato era piegato dalla stanchezza. Germania prese un respiro dalle narici e trattenne il fiato nel petto.

America sfogliò un’altra pagina. Arricciò le labbra, le palpebre si socchiusero e gli occhi divennero opachi.

“Quindi la questione dei baltici è sistemata, bla bla bla, Prussia orientale fatta, bla bla – ahia!”

La gomitata di Inghilterra gli fece strizzare gli occhi. America si massaggiò la spalla e gonfiò le guance come un bambino capriccioso. Gli occhi imbronciati si spostarono su Inghilterra.

“Mi hai fatto male.”

“Prendila seriamente,” disse Inghilterra, tra i denti.

America strinse le dita sulla spalla e ruotò gli occhi al cielo. Fece un piccolo sospiro e riprese i fogli in mano. Li batté sul banco, lo sguardo sempre in alto.

“Con Francia la questione è sistemata.” America spostò lo sguardo alla sua sinistra. Un sopracciglio si inarcò. “Giusto?”

Francia gettò il capo all’indietro, i capelli scivolarono sullo schienale imbottito della sedia. Snodò le braccia dal petto e prese una ciocca bionda, sistemandosela dietro l’orecchio.

“Io e lui ci eravamo già accordati qualche mese fa riguardo all’armistizio. Ora mi basta solo che mi restituisca i territori.”

Francia piegò le labbra in un sottile sorriso. Sbatté le palpebre e scoccò un’occhiata maliziosa a Germania. “Quella storiella possiamo dimenticarla entrambi, oui?”

Le mani di Germania tornarono a stringersi sulla sbarra. Le nocche divennero bianche, le vene s’ingrossarono sui dorsi. Mandò giù una boccata di saliva amara. La bocca era asciutta, le labbra secche e screpolate. Profonde occhiaie nere solcavano gli occhi, affondando nelle guance.

Germania buttò fuori l’aria. “Sì.” Il corpo freddo e fermo come ghiaccio.

“Bene.” America batté la penna sul foglio sollevato. Aggiustò gli occhiali sulla fronte e voltò il capo a sinistra, guardando oltre Inghilterra.

“Qualche richiesta, Cina?”

Anche Inghilterra ruotò il capo. Cina sollevò le spalle. Tenne gli occhi chiusi e appoggiò la guancia sul dorso della mano, come se ci stesse pensando. La stoffa della maglia gli copriva le mani fino alla punta delle dita. Cina fece un piccolo sospiro.

“I miei grattacapi con Giappone sono abbastanza.” Riaprì le palpebre. Gli occhi scuri come corteccia d’ebano fissarono Germania. L’unico sguardo adulto della tavolata. “Non ho bisogno di infierire ulteriormente, poi i territori occidentali non mi interessano.”

I capelli legati gli scivolarono davanti alla spalla, le punte delle ciocche toccarono il tavolo.

America annuì. La sua voce tornò alta come uno squillo. “Bene.” Batté le carte sul tavolo, pareggiando i fogli. “E anche questa è fatta. Rimane solo...” Fermò le mani. Il rumore secco della carta sul legno si bloccò di colpo. America aggrottò di poco le sopracciglia, il tono si abbassò. “La questione pagamenti.”

Germania prese un respiro e non disse niente.

America fissò Inghilterra, e abbassò una palpebra. “A quanto eravamo arrivati?”

Inghilterra sollevò gli occhi al soffitto, posò due dita sopra un orecchio e si grattò tra i capelli. “I marchi d’oro erano saliti a cinque miliardi, ma dobbiamo tenere conto anche delle spese di artiglieria, legname, carbone e attrezzature navali.”

La vista di Germania si offuscò. Lui scosse piano la testa e si massaggiò le palpebre tenendo le dita premute sotto la fronte aggrottata. Il mondo smise di girare.

“Se il debito non verrà sanato subito, c’è comunque la possibilità che si alzi ulteriormente,” continuò Inghilterra. “Tenendo conto dell’inflazione, e del fatto che la crisi si sta espandendo in tutta Europa...”

“Va bene, va bene, basta burocrazia,” si lamentò America. Si abbandonò sullo schienale e incrociò le mani dietro la nuca. Ruotò gli occhi al cielo. “Questi discorsi sono troppo noiosi, preferisco quando si parla di m –”

Un’altra gomitata di Inghilterra lo mise a tacere. America tornò a mettere il broncio, la mano sfregò il braccio con più forza. Inghilterra gli tenne incollato addosso lo sguardo di disapprovazione.

“Qualche obiezione?” Gli occhi di America si accesero, il broncio si ribaltò in un sorrisetto. Una piccola risata gli uscì dalle labbra, scuotendogli le spalle. “Be’, anche se l’avessi, non potremmo farci nulla, per cui...”

America raddrizzò le gambe, facendo strisciare all’indietro la sedia. Poggiò entrambe le mani sul tavolo, in mezzo ai fogli, e tese il collo verso Germania. Lo sguardo grigio, serio. Non più quello di un bambino.

“Questo è tutto. Dichiaro definitivamente chiusi i trattati di Versailles.”

Germania piegò il capo per la prima volta. Le palpebre stanche e pesanti si abbassarono davanti agli occhi, le dita si schiusero dalla presa attorno alla sbarra.

“D’accordo.” Un piccolo sospiro. Germania si appoggiò alla spranga, ma le braccia erano rigide, non tremavano.

Un’altra sedia scivolò all’indietro.

“Bene.” La voce di Inghilterra. Anche il suo tono si era alzato. “Detto questo, impegniamoci a rimetterci tutti in piedi, contando su pacifiche relazioni e...”

Germania sollevò lo sguardo. Gli occhi di Inghilterra lo fissavano dalla penombra come due lampi verdi. La fronte leggermente aggrottata, il viso scuro, le iridi scintillanti. Inghilterra prese un altro respiro.

“E facciamo in modo che non capiti più nulla del genere.”

La porta della sala si socchiuse, i cardini cigolarono nel silenzio. Sottili dita si appigliarono allo stipite, un occhio lucido e gonfio spiò dallo spazio che si era aperto.

 

♦♦♦

 

Italia fece un passo più vicino alla porta. Premette la fronte sul legno, stringendo le dita attorno lo stipite. Le mani tremavano insieme a tutto il corpo. L’ombra della tavolata si allungava sulla figura di Germania, tenendolo al nel buio della stanza. Era girato di schiena. Una piccola sagoma nera, immobile, irradiata dalle due lampade ai lati del tavolo. Voci soffuse si perdevano prima di arrivare alle orecchie di Italia, le pareti assorbivano tutto.

Italia si morse un labbro e soffocò un singhiozzo in gola. Lo stomaco annodato dalla tensione. Le ginocchia si piegarono, la fronte scivolò sulla superficie del legno insieme ai palmi aperti.

“Veneziano.”

Una mano lo agguantò per la spalla. Italia s’irrigidì come se gli avesse passato la scossa elettrica. Si voltò di scatto sbarrando gli occhi. Le mani ancora tra lo spazio aperto della porta.

“Fra-fratellone...”

“Che fai qua?”

Romano strinse la presa attorno la spalla del fratello. Gli occhi scuri, di fuoco, gli trapassarono lo sguardo. Italia non si tolse dalla presa. Si fece piccolo, stringendosi nelle spalle, e abbassò il tono.

“Sono...” Un piccolo squittio. “Sono solo venuto a vedere come...”

“Dai, vieni via.”

La stretta di Romano scivolò giù dalla spalla e gli afferrò la mano. Le dita dei due si intrecciarono. La mano di Italia era fredda, la pelle bagnata dal sudore.

“Non possiamo stare ancora qui.”

“Un momento.” Italia afferrò la porta con l’altra mano.

Piantò i piedi a terra e fece resistenza, le suole delle scarpe singhiozzarono sul pavimento. La stretta di Romano si indurì. Il palmo rovente stringeva attorno a quello di Italia, come a volergli strozzare il polso. Romano gli diede uno strattone, e Italia barcollò.

“Andiamo, non è affare nostro.”

“N-no, aspetta, io...”

Italia schiacciò la fronte contro la porta. Strizzò gli occhi, iniziando a tremare dalla testa ai piedi. Le spalle si piegarono in avanti, le ginocchia ballarono come gelatina.

“Solo un attimo, ti prego. Aspetto solo che esca.”

“Smettila!”

Romano lo agguantò per le spalle. Lo spinse all’indietro, schiacciandolo sul muro, e continuò a premere sul suo corpicino tremante. Italia batté la nuca sulla porta e si morse un labbro per non urlare. Le dita di Romano strinsero sulla maglia, i muscoli delle braccia si ingrossarono, le spalle si arricciarono. Le vibrazioni dei suoi tremiti passavano dalle braccia al corpo di Italia. Romano aggrottò al fronte e digrignò i denti. Gli occhi di fuoco fissavano Italia, il fiato caldo e pesante gli fasciava la gola.

“Non è colpa nostra, chiaro? Tu non gli devi niente.”

Italia gettò il capo di lato. I capelli gli nascosero lo sguardo. I denti affondati nel labbro fecero diventare bianca la pelle.

“Ma io... io...”

La prima lacrima rotolò giù per la guancia, grossa e lucida come una perla. Romano ebbe un sussulto. Sciolse le dita e lasciò andare il fratello. I lineamenti del suo viso si rilassarono e gli occhi si spensero, come intimoriti da quel piccolo segno di pianto.

Italia tremò. Chinò le spalle in avanti come se si stesse spezzando sotto un soffio di vento. Tuffò il viso tra le mani e le lacrime sgorgarono tra gli spazi delle dita.

“Io volevo solo...” Singhiozzo. La voce si indebolì come un disco rotto. “Chiedergli scusa.”

Si piegò di più sulla pancia. I gemiti si ingrossarono, le lacrime gocciolavano dalle mani e cadevano a terra, aprendo sul pavimento dischi scuri grandi quanto una moneta. Romano socchiuse le palpebre. Fece un sospiro e si avvicinò a Italia. Gli cinse il collo con un braccio e gli fece appoggiare il mento sulla sua spalla. Le tiepide lacrime di Italia gli annaffiarono la maglia. Romano gli fece correre la mano tra i capelli e gli carezzò la nuca.

“Scemo.”

 

 

   
 
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