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Autore: _YouKnowWho_    01/09/2014    2 recensioni
Aislynn ha sempre amato le leggende celtiche che rendono misteriosa e magica la sua terra natia, l'Irlanda. Ne è sempre stata affascinata e nel suo cuore non ha mai smesso di sperare che si rivelassero come cose reali. E quando ha dovuto scegliere a quale mondo appartenere, il suo cuore l'ha guidata.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hola! :) 
Ho scritto questo racconto per un concorso, "Continua tu", dove appunto dato un incipit bisognava continuare a piacere con una storia.
Il concorso è stato indetto dalla pagina di gadget "Graphic Lab And La petite Maison" (https://www.facebook.com/ITuoiRegaliPersonalizzati?fref=ts).
Spero vi piaccia, non ho voluto farlo esageratamente lungo, ma rileggendolo mi è parso andasse un po' troppo veloce. 
Chi lo sa, potrei riprendere l'idea per qualcosa di più complesso. 
Fatemi sapere che ve ne pare. Siate spietati, le vostre critiche mi fanno solo migliorare :) 
Alla prossima,
Fefè



 




Mi ritrovavo sulla soglia di quella foresta. Si raccontavano storie di canti lontani udibili solo nelle prime notti del solstizio d'estate. Canti arcani, provenienti da epoche lontane.

Mossi qualche passo, mentre l’ombra di me proiettata dalla luna diventava un tutt’uno con quelle degli alberi che iniziarono a circondarmi. Rari raggi lunari passavano tra le cime frondose e avrei fatto fatica a camminare se non avessi portato con me una torcia. L’accesi e un fascio di luce tenue risplendé nell’oscurità. Sapevo che da lì non sarei mai stata vista.
Mi piaceva credere nelle leggende. Una volta avevo corso a perdifiato per un campo, solo per raggiungere il punto in cui credevo iniziasse l’arcobaleno, solo per poter trovare la pentola lasciata dai Lepricauni. Ogni tanto lasciavo un bicchiere di latte sul davanzale per queste piccole creature, ma avevo visto mio padre berlo sempre prima di andare a letto, in modo da farmelo trovare vuoto il giorno dopo. Mi ero arrabbiata, perché non dava il tempo ai Lepricauni di trovarlo, così qualche volta ritornavo in cucina a riempirlo ancora, ma il mattino seguente non riuscivo mai ad alzarmi prima dei miei genitori per controllare che non l’avessero toccato.
Nella mia stanza un intero scaffale della libreria, che riempiva un’intera parete, era occupato da libri di mitologia celtica, di leggende e tradizioni. Accanto al mio stereo stavano dischi di musica popolare e una cláirsach, che avevo imparato a suonare sin da piccola quando l’avevamo presa ad una fiera. L’avevo vista ed ero rimasta affascinata dalla forma e dai suoi suoni, ricordando poi che ne era descritta una simile in un racconto che papà amava raccontarmi. L’avevo vista e non mi ero più allontanata da quella bancarella, dove un gentile signore mi aveva fatto passare una mano sulle corde e poi mi aveva regalato anche un pennywhistle di legno quando i miei genitori avevano comprato l’arpa.
Entrare nella mia camera sembrava l’ingresso ad un altro mondo, un mondo fatto di creature magiche e avventure da sogno.
Non che avessi mai viso una fata, un folletto o un elfo, ma quella realtà mi affascinava così tanto che una parte di me credeva fermamente nella loro esistenza. I miei genitori e mia sorella pensavano fosse solo una fissazione passeggera, una passione, un passatempo. Non potevano sapere che sognavo di poter volare come una fata, di poter consolare una Bean Sidhe, di fare scherzi insieme ad un folletto. E a loro poco interessava conoscermi davvero, così presi dai loro problemi, dai loro litigi e dalle loro vite. Non che non mi volessero bene, ma semplicemente c’erano cose più importanti di me. Molte cose lo erano.
Così era sempre bello incontrare turisti a cui raccontare storie su quelle creature, persone interessate alle leggende che riempivano quei luoghi. Quando non dovevo studiare giravo per la città in costume e iniziavo a raccontare, suonare la sua cláirsach o cantare canzoni della tradizione, ricevendo applausi e ovazioni.
Il periodo del solstizio d’estate aveva le proprie leggende. Alcuni dicevano che i Folletti venissero a infestare le fattorie, che i Gancanagh arrivassero per accoppiarsi con donne umane, altri parlavano di feste e cerimonie fatte al chiaro di luna.
Casa mia stava alla fine di una via di villette di tutti i colori. Quella della mia famiglia aveva i muri verdi, del colore della speranza e dell’Irlanda, e aveva accanto un gran pezzo di terreno in cui mia madre coltivava alcune verdure. Alla fine della nostra proprietà c’era un fiumiciattolo che spesso non conteneva altro che un filino d’acqua, ma che separava la nostra terra da quella del signor O’Byrne. Al di là di quella proprietà, invece, iniziava un bosco. Sin da quando eravamo piccoli ci parlavano della foresta come di un posto pericoloso, ma questo non faceva che affascinarmi ancora di più. Così c’ero stata diverse volte con i miei amici, ma sempre alla luce del sole. Era stato il giorno del solstizio d’estate che trovammo delle tracce. Non era niente di che, foglie spostate in maniera strana, qualche residuo di un fuoco che non aveva lasciato altra traccia nell’odore o nel terreno. Io, però, mi ero sentita inondare da un calore che sembrava provenire dal cuore. I miei amici si divertirono ad immaginare di organizzare lì una festa, ma io sentivo che quel luogo fosse sacro in qualche modo e che qualcosa di importante fosse lì accaduta. Quella stupida sensazione mi accompagnò per un anno, quando, la notte tra il venti e il ventuno giugno, uscii di casa per cercare delle risposte. Nell’anno che era passato avevo fatto ricerche, parlato con gli anziani del paese, ma per una volta volevo trovare le risposte con i miei occhi.
Qualche giorno prima ero stata nella radura di nuovo con i miei amici e avevo segnato la via che mi ci avrebbe portato. Così cercando di non fare rumore e di non dare nell’occhio, iniziai ad illuminare i tronchi alla ricerca dei segni che vi avevo lasciato.
Ed erano lì, così mi misi a seguirli, procedendo con cautela e con una stretta al cuore che aumentava ad ogni passo.
Cosa mai avrei potuto trovare?
Sentivo che avrei trovato qualcosa. Erano la stessa sensazione di calore che avevo provato un anno prima e la consapevolezza che quel luogo avesse una qualche importanza a tenere viva la speranza. Tuttavia non riuscivo a scacciare del tutto la paura che non avessi trovato nulla, la prova che ero solo io ad alimentare le mie idee e che in realtà erano tutte fantasie.
Avevo camminato per una decina di minuti, quando cominciai ad accorgermi che la luce della torcia iniziava ad essere inutile e che un bagliore rossastro raggiungeva la terra attorno a me. Spensi la torcia, mettendola in tasca e procedetti nascondendomi dietro gli alberi. Dopo qualche passo mi accorsi anche di un’altra cosa.
Il suono di un’arpa arrivò alle mie orecchie, e poco dopo un’intera melodia che sembrava uscire dall’aria stessa.
Proseguii ancora, mentre alla musica si univano risolini e parole confuse. Mi resi subito conto che non era inglese, ma colsi parole in gaelico. Vista la mia passione, avevo studiato il gaelico e ogni tanto l’anziana Fearghal si intratteneva con me nella lingua della tradizione celtica irlandese.
Più procedevo e più riuscivo a capire scorci di parole. Dovevo avvicinarmi ancora, ma avevo paura di essere vista. Avevo iniziato a notare figure che si muovevano a ritmo di musica attorno a un fuoco che riempiva con la sua luce la radura. Nonostante il falò raggiungesse piante e alberi, questi non venivano bruciati, anzi sembrava che si stessero rinvigorendo grazie al calore e all’energia delle fiamme.
Mi avvicinai ancora, nascondendomi dietro un cespuglio, oltre il quale non c’era altro che la radura. Con molta lentezza iniziai a spostare i rami, in modo da poter vedere cosa le foglie stessero celando.
Quando ci fui riuscita non riuscivo a credere i miei occhi.
Le figure davanti a me si differenziavano una dall’altra per dimensioni, modo di muoversi e aspetto, ma avevano una cosa in comune. Attorno a loro aleggiava una nebbiolina dei colori dell’arcobaleno che brillava quando si muovevano.
Iniziai ad osservarle una ad una.
Più vicina a me stava la figura di una donna, con un abito che sembrava fatto di tulle e che ricadeva morbido fino a terra. Nonostante questo continuava a volteggiare senza inciampare, mentre davanti a lei passavano degli ometti che, saltellando, pretendevano di ballare con lei. Lei rideva e continuava a ballare, mentre ogni tanto si univa al canto.
Più in là un gruppo di ragazzi e ragazze, che parevano senza età, stava fermo e cantava. Notai sui loro volti espressioni cariche di sofferenza e i sorrisi che spargevano attorno erano carichi di malinconia.
Cercai di far attenzione alle parole che stavano cantando.
Erano storie.
Storie che io non conoscevo di quel mondo da cui ero sempre stata affascinata. E allora mi resi davvero conto che davanti a me c’erano davvero quelle creature che avevo studiato con tanta passione. Quella più vicina a me doveva essere una Fata, gli ometti dovevano essere Folletti e Lepricauni, i ragazzi dei Banshee.
Sentii che le mie guance iniziarono a bagnarsi, mentre delle lacrime sgorgarono dai miei occhi. Mi tirai un pizzicotto, per essere sicura di non star dormendo, ma il dolore arrivò veloce e reale.
Non era un sogno, era la realtà.
Chiusi gli occhi e stetti ad ascoltare quelle storie, cullata da una musica che entrava nel cuore, e mi faceva sentire parte di quella realtà.
Realtà era il termine adatto, ne avevo la prova.
Quello davanti a me era reale, proprio come lo era sempre stato nel mio cuore. La realtà non è altro che ciò per cui viviamo e io avevo vissuto sempre per questo. Se anche fossero state solo leggende, per me sarebbe rimasto tutto reale, perché avrebbero continuato a far parte comunque nella mia vita. Avrei continuato a studiarle, a riportare i miei racconti agli altri, per renderli un po’ reali anche per loro.
Ma quello che vidi quella notte del solstizio d’estate era diverso.
Un’esplosione di energia e di potere, che andava al di là di quello che mi sarei mai aspettata.
Riaprii gli occhi, per ammirare nei minimi dettagli quelle creature. Notai le ali delle fate, quasi trasparenti se non usate per volare. Vidi degli occhi ardenti, che dovevano essere di un Dukko.
Occhi ardenti che mi fissavano.
Sobbalzai e arretrai, provocando anche un forte fruscio e tutti nella radura si fermarono. Anche il fuoco si indebolì, come se si stesse nutrendo della musica e del canto.
Sentii delle urla in gaelico, ma ero così spaventata di essere stata scoperta da non riuscire a concentrarmi attentamente. Nelle leggende queste creature non erano sempre buone, amorevoli e gentili con gli umani. Potevano essere dispettose e persino spietate e sicuramente non sarebbero state felici di essere state spiate.
Pensai di scappare, ma prima che potessi muovermi due creature furono su di me e mi afferrarono.
“Lasciatemi” dissi, in inglese, sperando potessero capirmi. “Non volevo fare niente di male, solo ascoltare la vostra musica…” tentai, ma nessuno disse nulla.
Mi trascinarono fino ad una figura di un uomo. Aveva l’aria autoritaria e mi chiesi se fosse lui a comandare tutte le creature. Secondo le mie conoscenze era probabile fosse un elfo. Aveva i lineamenti duri e allungati e la serietà dell’espressione si riduceva a un cipiglio arrabbiato.
“Vi prego, lasciatemi andare” provai di nuovo.
Lui rimase impassibile.
All’improvviso fece un cenno col capo a un ragazzo (un Fear Sidhe probabilmente) che mi aveva afferrata e questi mi mise davanti al viso un fiore. Le tenebre mi coprirono gli occhi e svenni, sostenuta dalle due creature.
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in una capanna. Ci misi un po’ a capire dove potessi essere, ma immaginai che le creature mi avessero portato con loro. L’ultima cosa che ricordavo era il fiore che mi avevano messo davanti il viso. Doveva essere stato quello a farmi perdere i sensi. Avevo letto di molte erbe e fiori magici, ma in quel momento riuscivo a ricordare soltanto il nome della Fear Gortac, quindi niente di utile.
Con la testa che pulsava mi sentivo ancora un po’ stordita, ma provai a mettermi seduta. Niente mi legava e nessuno era lì con me. Mi mossi quindi verso l’apertura della capanna e notai qualcuno seduto lì davanti.
“Ciao” sussurrai.
Poi ripensai alla sera prima e al fatto che avessero parlato tutto il tempo gaelico, senza rispondere al mio inglese.
Dia dhuit” dissi a voce più alta.
Il Fear Sidhe che mi aveva presa scattò in piedi e si voltò, sorridendomi tristemente. Potei guardarlo attentamente. I capelli castani erano lunghi e alcune ciocche gli ricadevano sugli occhi chiari che sembravano aver visto troppe tragedie. La pelle era di un pallore spettrale, ma il portamento era deciso.
Dia’s muire dhuit” rispose lui.
Un ciao in risposta.
“Dove mi trovo?” chiesi, continuando a parlare in gaelico.
Lui mi porse la mano e mi aiutò ad alzarmi e a uscire dalla capanna. Ci trovavamo in un bosco, ma non era quello che si trovava vicino casa mia. Gli alberi erano molto più alti e grandi e i lunghi rami che si intrecciavano lasciavano molto spazio alla luce del sole affinché penetrasse e, infatti, il terreno era perfettamente illuminato.
“Sei nella terra dei Daoine Maithe” mi spiegò. Il buon popolo.
Rimasi in silenzio ad ammirare la maestosità del luogo e le creature che, lentamente, si avvicinavano incuriosite.
“Si trova in Irlanda?” mi ritrovai a chiedere.
Lui rise, ma anche la sua risata era piena di tristezza.
Alcune leggende che avevo letto descrivevano i Fear Sidhe come creature buone, ma che avevano dovuto affrontare troppe sofferenze e piangere sui letti dei morenti. Forse era vero ed era per questo che questo ragazzo come gli altri suoi simili che avevo notato sembravano sempre tristi.
“Il nostro popolo è su tutta l’Irlanda. E l’uomo non vive più qui da tempo ormai”.
Notai con gratitudine che parlava lentamente, permettendomi di capire.
Però non compresi le sue parole. Io stessa ero umana e vivevo in Irlanda in un paese abitato da umani e c’erano umani in tutte le città in cui ero stata.
“Dove siamo davvero?” chiesi allora.
“Perché parli la nostra lingua?” ribatté, però, lui.
Mi voltai a guardarlo, visto che lui mi stava seguendo ovunque. Forse era la mia guardia.
“Mi è sempre piaciuto il gaelico e ho deciso di impararlo” dissi con sincerità.
“Lo parli molto bene” si complimentò lui.
Poi scrollò le spalle e si indicò attorno.
“L’uomo ci ha mandato via anni fa. Siamo diventati leggende, storie e trovavamo ovunque distruzione. Con la nostra magia abbiamo ricreato la nostra terra in una dimensione in cui l’uomo non può entrare…”
“Ma io sono qui” lo interruppi.
“Ormai ci avevi visti, non potevamo lasciarti andare” disse.
Poi si avvicinò ad un albero e accarezzò il tronco.
“Qui la natura non viene distrutta, noi non veniamo maltrattati e sfruttati. L’uomo non può più ferirci” continuò a spiegare.
Annuii, avendo capito il concetto.
“Ora sono vostra prigioniera?” chiesi, sentendomi sempre più osservata.
Vidi alcuni folletti tra i più diversi, nascondersi dietro tronchi, rocce e cespugli.
Il Fear Sidhe sorrise ancora.
“Sei la nostra ospite” rispose. “Venite fuori!” aggiunse, alzando la voce in modo che tutti i presenti potessero sentirlo.
Pian piano diverse creature uscirono allo scoperto. Alcune fate volarono verso di me e rimasi ammaliata dai giochi di colore delle loro ali e della nebbiolina che continuava ad avvolgere tutti.
“E’ così tanto tempo che un umano non mette piede qui” spiegò una fata, che sembrava elettrizzata.
“Deve parlare con Senan” disse un’altra.
“Andremo subito” rispose il Fear Sidhe. “Come posso chiamarti?” aggiunse, rivolto a me.
“Aislynn. Aislynn Maonaigh is ainm dom”.
Fàilte Aislynn. Delaine is ainm dom” Benvenuta Aislynn. Delaine è il mio nome, rispose il Fear Sidhe.
Delaine mi fece strada per il bosco e dietro di noi si creò una vera e propria processione, raggiungendo in fine una radura immensa e coperta da una cupola di rami intrecciati da mani esperte. Mentre Delaine mi portava verso un trono intagliato in un tronco, le creature che ci avevano seguito iniziarono a prendere posto sedendosi per terra.
Sul trono stava seduto l’Elfo che aveva dato l’ordine di addormentarmi. Sedeva con la sua espressione austera che aveva mantenuto anche quella che doveva essere stata la sera precedente. Non aveva idea di quanto tempo avevano impiegato per arrivare lì e quanto aveva dormito.
“Chi sei?” domandò l’Elfo, in inglese.
Decisi di tentare di far colpo parlando in gaelico, così mi presentai come avevo fatto poco prima con Delaine.
Senan rimase visibilmente colpito e parlò ancora in gaelico.
“Perché ci stavi spiando?” mi domandò.
Con calma mi misi a parlargli della mia passione, delle mie sensazioni e dalla meraviglia che stava provando in quel momento nel poter ammirare quel mondo. Lui sembrava compiaciuto.
“E’ bello vedere che qualcuno crede ancora in noi” mormorò quando ebbi finito. “Enya!” chiamò poi.
Una fata si fece largo tra la folla e ci raggiunse. Aveva un lungo abito che partiva dal blu e arrivava fino a terra, passando da tutte le sfumature del blu e dell’azzurro fino al bianco. Le ali erano grandi e frenetiche e brillavano riflettendo la luce che le colpiva. Aveva un viso gentile e gli occhi sembravano avere le stesse gradazioni dell’abito che indossava.
“Aislynn” Senan richiamò la mia attenzione e mi misi a guardarlo negli occhi, ansiosa di sapere cosa mi sarebbe successo.
“Dovrai rimanere con noi un anno. Questo posto ti cambierà e ti trasformerà. A seconda della tua inclinazione potresti diventare una di noi. Potresti diventare un’Elfa, una Fata, una Banshee, un folletto… ma tra un anno, durante la notte del Solstizio d’estate potrai decidere se tornartene nel tuo mondo. Dimenticherai tutto quello che hai vissuto qui e ritornerai quella che sei ora, ma noi non ti fermeremo. Enya ti mostrerà dove starai fino ad allora”.
Rimasi per qualche istante immobile, incapace di credere alle sue parole. Ci vollero giorni per capire che non stessi sognando, che tutto stesse accadendo davvero.
Nei mesi che seguirono mi interessai a diverse cose. Mi presi cura degli animali con i folletti, raccolsi pietanze che la comunità avrebbe poi consumato e andai a conoscere anche altre comunità con Senan. Rimasi con i banshee, mentre piangevano per la morte di qualcuno e spesso andai in giro con il Dukko che mi aveva visto la notte del solstizio di estate a raccontare storie del mondo degli umani ai più piccoli.
Non mi accorsi subito dei cambiamenti che stavo subendo. I miei capelli rossi diventarono se possibile più accesi. Il mio corpo si allungò di molti centimetri in pochi mesi e i miei sensi si affinarono. Tuttavia fu quando mi ferii su una roccia che capii veramente quello che mi stava succedendo. Invece di uscire sangue, dal mio corpo fuoriusciva linfa.
Tutti capirono che mi stavo trasformando in una fata degli alberi. Mi diedero un vestito con diverse sfumature di verde, come quelle dei miei occhi, e mi aiutarono a imparare a volare quando le ali che mi erano apparse diventarono completamente sviluppate. Mi parve di perdere il senso del tempo, ma i preparativi per il Solstizio d’estate mossero tutta la comunità e mi ricordarono la scelta che avrei dovuto fare.
Quando il fatidico giorno arrivò, mi unii alla fila che si preparava ad attraversare il portale tra i due mondi. Era stato acceso un fuoco e la gente si immergeva tra le fiamme, per rispuntare nel mondo degli umani, in quello che era stato il mio mondo.
Mi domandai se fosse ancora il mio mondo, nonostante la mia trasformazione fisica.
Alla fine dei festeggiamenti per il Solstizio avrei dovuto dare una risposta definitiva.
Ripensai ai miei genitori e a mia sorella. Ero stata via un anno ormai, forse mi stavano ancora cercando. Mi voltai nella direzione in cui sapevo fosse casa mia e rimasi a guardare gli alberi come se mi rivelassero cosa stesse succedendo oltre il terreno del signore O’Byrne.
“Vai” sentii dire dopo un poco a Senan, che mi posò una mano sulla spalla. “Delaine verrà con te, tornerete prima della fine della cerimonia. Va’ se ti serve a decidere”.
Io annuii e lo ringraziai e poi iniziai a muovermi col mio nuovo corpo più agile nel bosco.
La luce del soggiorno era ancora accesa. Sul divano stavano seduti i miei genitori, vicini e abbracciati. Nascosta dietro la persiana notai che le mie foto che erano state sul camino insieme a quelle di mia sorella, non c’erano più. Senza fare rumore volai fino alla mia stanza e vidi che era stata riarredata. I muri erano stati dipinti di azzurro e il letto era stato spostato verso un muro per fare spazio ad una culla e ad altri oggetti utilizzati per il neonato che stava lì dormendo.
Mi si strinse il cuore nel vedere quello che capii essere il mio fratellino.
Titubante lo presi tra le braccia e lui si svegliò, ma non iniziò a piangere. Giocò con i miei capelli e mi sorrise quando gli canticchiai qualcosa. Poi Delaine mi chiamò, dovevamo tornare alla radura, così posai il bambino nella culla e gli diedi un bacio sulla fronte, con cui gli lasciai una benedizione.
Senza fare rumore raggiunsi Delaine e rimasi in silenzio mentre tornavamo dagli altri. Anche Delaine non disse nulla, rispettando il mio silenzio, e aspettando con tutti gli altri che rendessi pubblica la mia decisione.
Poco prima che il sole iniziasse a sorgere Senan fermò i festeggiamenti e si mise di fronte a me.
“Aislynn, cosa hai deciso?”
Mi guardai attorno e vidi Enya che mi sorrideva con tenerezza e Delaine era ancora accanto a me. Così presi la sua mano e poi andai a prendere quella di Enya.
“La mia partenza ha riavvicinato i miei genitori. Ora hanno un altro bambino e sembrano felici. Sono sicura che siano tristi per la mia perdita, ma non voglio che cambino le cose. Io non mi sento più parte di questo mondo” dissi a voce alta, affinché tutti potessero sentirmi.
Mossi le ali, senza, però, alzarmi da terra.
“Ormai sono una fata e in fondo ho sempre saputo quello che volevo” continuai. “Voglio rimanere con voi” conclusi.
Fu come se dei fili che mi legassero a quella terra si spezzassero e persi l’equilibrio. Delaine mi sorresse prima che toccassi terra e mi rimisi in piedi. Riguardai ancora una volta verso casa mia e non riuscii a fermare una lacrima che sgorgò solitaria sul mio volto.
Ma ormai avevo preso una decisione.
Scoprii dopo anni che una nuova leggenda aveva iniziato a diffondersi nel mio paese. La storia della ragazza che era andata alla ricerca dei folletti e delle fate e non era più tornata. Qualcuno diceva persino che fosse diventata lei stessa una fata e si fosse unita al popolo magico che ancora viveva quelle terre. E sulla soglia di quel bosco si raccontavano ancora storie di canti lontani udibili solo nelle prime notti del solstizio d'estate.
 

 
FINE
  
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