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Autore: avalon9    23/09/2008    6 recensioni
Quando una persona ci lascia, quando non è più qui e non possiamo più toccarla, o sentire la sua voce… sembra scomparsa per sempre. E il dolore è simile all'onda che sovrasta, avvolge e trascina giù, nel fondo. Maledici di non poter tornare indietro, riavvolgere il nastro e cambiare.
Milo deve decidersi: affrontare quella perdita, la perdita, che lo sta trascinando in fondo al mare. Ricordando Camus e tutto quello che gli ha dato, gli ha insegnato e lasciato o forse solo affidato.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aquarius Camus, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camus adorava quella canzone

Suite du corail blue

 

 

 

Tu m'hai gettato nell'abisso,

nel cuore del mare;

la corrente mi ha circondato

e tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti

mi son passati sopra.

Giona, 2, 4

 

 

 

 

 

 

1. Une vieux chanson

 

 

Perché io sostavo ancora dentro

quell’ombra del muro,

per questo il mare non

mi aveva ancora veduto.

 

Massimo Bontempelli

 

 

 

 

Camus adorava quella canzone.

La canzone del prima. Quando c’era il mare, i pattini lungo il canale e la maman con la sua voce alla sera, in una cameretta vicino al porto. La canzone di quando la Siberia non esisteva ancora, dei racconti di Artù e dei suoi cavalieri.

Maman la cantava la sera, quella canzone. Mentre squamava il pesce e Camus rimescolava il cucchiaio nella minestra e si strofinava un occhio. E protestava e batteva i piedi per terra perché a letto non ci voleva andare. Anche se non riusciva a restare sveglio e ascoltare le storie della nonna. E la canzone di maman.

 

Tiens bon la vague tiens bon le vent.

Hisse et ho, Santiano !

Si Dieu veut toujours droit devant,

Nous irons jusqu'à San Francisco.

 

Camus adorava quella canzone.

E la urlava lungo il molo quando suo padre agitava il berretto dal ponte del peschereccio e lo prendeva in spalla e lo faceva girare. Sopra l’acqua scura e marcia. Sopra il mare freddo e bianco e nero.

Prima che l’acqua diventasse ghiaccio; prima che il bianco fosse ovunque e fosse freddo. Pericoloso e bello. Troppo bello per non restarne scottati.

Prima.

E Camus non era Camus; Camus era solo il suo secondo nome. Dato per capriccio. Perché sua madre, durante la gravidanza, si era innamorata. Completamente smarrita nei libri di Albert Camus. E aveva deciso: anche suo figlio si sarebbe chiamato Camus.

Prima. In un mondo molto lontano.

Un paesino in Bretagna. Sull’Armor. Si sedeva sulla vera della fontana, nelle fresche sere d’estate, con il mare che mormorava giù, in fondo alla discesa del paese. Una bella discesa da fare in una corsa sola, con l’aria che senti dentro fino alle ossa e ti sembra troppa. E devi fare attenzione a girare, quando arrivi in fondo. C’è l’osteria, in fondo alla discesa. Il cadetto di Guascogna con la birra fresca nei barilotti in cantina.

Camus non ha mai bevuto birra. Sei troppo piccolo ancora rideva suo padre e vuotava il bicchiere dopo averlo alzato in alto. Camus non ha mai bevuto la birra scura e fredda e forte dell’osteria, ma ci è entrato alcune volte. Ed era tutto legno e reti da pesca e aringhe salate sott’olio; con il bancone scuro e alto. Tanto alto che lui doveva mettersi in punta di piedi per toccarlo e restare in equilibrio. E Moris vedeva quella cascata disordinata di capelli spuntare e gli occhi impertinenti. E allora rideva e gli allungava un krampouezh e gli strizzava l’occhio.

Si deve stare attenti, in fondo alla discesa. Perché se continui dritto c’è il molo. Quello vecchio e malandato, che i marinai dicono fosse lì quando Riccardo Cuor di Leone parti per la Terra Santa; e quando il re di Francia aveva messo l’assedio a Roazhon, perché diceva che la Bretagna era sua.

Camus ci credeva.

Come credeva che da qualche parte, nell’Argoat, ci fossero i resti di Camelot. E che oltre la nebbia che saliva dal mare, nelle mattine d’autunno, ci fosse Annwyn con il suo re addormentato.

 

Je pars pour de longs mois en laissant Margot.

Hisse et ho, Santiano !

D'y penser j'avais le cur gros

En doublant les feux de Saint-Malo.

 

Camus adorava quella canzone.

Quando il suo nome era ancora Louan, e tutti gli dicevano di esserne orgoglioso. Perché era uno degli ultimi bretoni e il suo nome era bretone. E poco importava che suo padre fosse un marinaio trapiantato da Languedoc. La maman era nata lì; e i suoi nonni anche.

E Camus era bretone e francese.

Non era ancora greco (non lo sarebbe mai diventato); non era ancora russo (anche se avrebbe imparato ad amarla, la fredda Siberia).

Camus era solo Louan, e aveva quattro anni, le belle fiabe della sua terra e gli occhi troppo grandi per ricordarsi che si può anche piangere.

E adorava quella canzone.

 

On prétend que -bas l'argent coule à flots.

Hisse et ho, Santiano !

On trouve l'or au fond des ruisseaux.

J'en ramènerai plusieurs lingots.

 

E c’era la pancia grossa di maman, mentre cantava.

La sua pancia che cresceva ogni mese un po’ di più, e Camus che guardava, che ascoltava e annusava. C’era la sua sorellina (perché doveva essere una sorellina. Un altro maschio non lo voleva, per casa) nella pancia di maman. E dava calci e si muoveva; Camus restava con la bocca aperta e la mano ferma e pensava. Pensava che le avrebbe insegnato a restare dritta sui pattini in mezzo al canale; le avrebbe raccontato del re e della sua bella spada (senza sapere che un giorno l’avrebbe vista, quella spada). E le avrebbe insegnato a correre bene lungo la discesa. Perché bisogna girare, in fondo alla discesa o si prende il molo e ci si tuffa in mare, dove l’acqua è alta e nera e fredda e sa di marcio.

C’era la pancia di maman quando Camus aveva sei anni e del prima ricordava solo le storie, la discesa e l’infanzia in riva al mare di Bretagna.

E quella canzone.

 

Un jour, je reviendrai chargé de cadeaux.

Hisse et ho, Santiano !

Au pays, j'irai voir Margot.

A son doigt, je passerai l'anneau.

 

Camus era salito sulla nave di suo padre.

Suo padre che era nostromo e aveva un cappello di lana nera sempre in testa, quando prendeva il largo. E lui correva fino in fondo al molo e agitava la mano e urlava di tornare, perché la sorellina (doveva essere una sorellina) sarebbe nata presto.

E glielo diceva perché maman lo diceva sempre.

Ma la nave della canzone tornava con il suo capitano, ogni volta. Perché père non sarebbe dovuto tornare? La nave della canzone tornava, e anche il re che dorme sull’isola nella nebbia sarebbe tornato, un giorno.

Camus gli urlava di tornare, e non sapeva che una notte la tempesta avrebbe fatto schiantare il peschereccio sugli scogli. E la chiglia squarciata avrebbe mangiato acqua e ghiaccio e anche il suo papà. Perché la chiglia era un mostro che gli diceva: hai perso, e io ti posso mangiare.

Ma Camus non lo sapeva. Come non sapeva che avrebbe raccolto un bambino dagli occhi grandi e tristi, anni dopo; un bambino senza la mama, perché la chiglia (che è un mostro) aveva mangiato anche lei. Come il suo papà.

Camus non lo sapeva. E agitava la mano e urlava forte per farsi sentire, perché le folaghe fischiavano tanto nell’alba umida e ovattata.

Quando Camus era ancora Louan, e diceva a suo padre di tornare.

Perché anche la nave della canzone torna sempre.

 

Tiens bon la vague tiens bon le vent.

{Tiens bon le cap tiens bon le flot.}

Hisse et ho, Santiano !

Sur la mer qui fait le gros dos,

Nous irons jusqu'à San Francisco

 

Ma la nave di suo padre non era tornata, una sera.

Era venuta la capitaneria di porto, invece. Un mezzogiorno un po’ pallido di fine aprile; e Camus era stato mandato in camera sua, perché i bambini non devono sentire le brutte notizie. Ma Camus aveva sentito lo stesso, perché non era salito in camera ma era rimasto a sbirciare dalla toppa della porta. E maman era caduta lungo lo stipite della porta, senza un lamento.

Maman era caduta e lui aveva sentito le lacrime scendere una ad una, il labbro tremare e freddo. Anche se era un mezzogiorno pallido di fine aprile.

La nave della canzone tornava sempre; ma quella di père non era tornata.

E Camus aveva capito.

Capito che suo père, il suo papà venuto da un mare caldo e luminoso, con gli occhi allegri e la barba sempre di due giorni dormiva. Dormiva assieme al vecchio re delle re delle storie. E lui non lo avrebbe potuto salutare.

Capito perché l’Achab era finito alla fonda e lo fissava con quella grande bocca nera piena di denti. Non c’erano più le reti lungo i fianchi dell’Achab e in quei giorni nemmeno Moris all’osteria aveva voglio di raccontare le sue storie di mare.

Camus lo sapeva.

Suo padre non tornava, e maman non mangiava e piangeva. Piangeva di notte, perché il suo petit Louan non la sentisse. Ma la notte del mare è silenziosa e le pareti sottili e Camsu sentiva i singhiozzi e sapeva che père non sarebbe tornato. Come torna sempre invece la nave della canzone.

Non c’era stata più, quella canzone.

E non c’era stata nemmeno la sorellina - perché un fratellino in casa, Louan, non ce lo voleva.

C’era stato il dottore, invece. Maman pallida su una barella e la macchia rossa nel letto, sulle lenzuola di flanella blu. Anche se era giugno e faceva caldo; ma maman aveva sempre freddo, tanto freddo.

 

C'est un fameux trois-mâts fin comme un oiseau.

Hisse et ho, Santiano !

Dix huit n?uds, quatre cent tonneaux :

Je suis fier d'y être matelot.

 

Camus adorava quella canzone.

Milo lo sapeva bene. E l’aveva ascoltata tante volte. Perché quando Camus era triste (ma non lo lasciava mai capire), sussurrava quella canzone.

L’aveva mormorata quando si erano incontrati la prima volta, sotto gli ulivi. E l’aveva ripetuta ancora. Ancora e ancora. Sbuffando quando Milo gli faceva il verso e rideva della sua erre un inghiottita e dell’accento che cadeva sempre lì, alla fine della parola. Anche quando il greco lo parlava bene, l’accento francese di Camus restava fisso. E a Milo piaceva.

Come a Camus piaceva quella canzone.

Canticchiarla sul filo delle labbra, alla sera. Perché Milo insisteva e lo assillava e provava a ricordare le parole. E non ci riusciva mai. Milo non sapeva cantare la canzone della nave che torna sempre. Ma Camus sì.

E lo faceva con una voce diversa.

Perchè Camus aveva un’altra voce. Diversa dall’accento che gli sentito quando cantavano assieme il ditirambo; diversa dall’accento con cui sarebbe tornato dalla Siberia (sei anni lascia comunque il segno).

Camus aveva la sua voce, con la erre arrotolata e l’accento alla fine. E la concedeva poche volte, quando cantava quella canzone perché Milo smettesse di insistere e lo lasciasse in pace (anche se in pace, davvero, non ci voleva stare).

E allora Milo si sedeva suo gradini ed ascoltava. Nell’Undicesima casa che era fresca quando era troppo caldo e troppo fredda d’inverno quando era fresco.

Perché Camus adorava quella canzone.

E Milo lo sapeva bene.

E non riusciva a smettere di ascoltarla e riascoltarla. Anche se il CD non era la voce di Camsu.

Ma Camus non gliela avrebbe cantata più, quella canzone, per fargli smettere di assillarlo. E Milo non riusciva a rassegnarsi. Non poteva rassegnarsi.

E continuava ad ascoltarla; mentre il sole scottava la pelle e gli scogli bruciavano la schiena nuda. E Milo continuava con la stessa canzone nelle orecchie. Ma non era più Camus a cantarla.

Perché Camus non c’era più.

E Milo lo sapeva bene.

Perché Camus non sarebbe tornato; ma la nave della canzone torna sempre.

 

C'est un fameux trois-mâts fin comme un oiseau.

Hisse et ho, Santiano !

Dix huit n?uds, quatre cent tonneaux :

Je suis fier d'y être matelot.

 

Camus adorava quella canzone.

E Milo voleva solo continuare ad ascoltarla.

Perché Camus la cantava quando era triste (anche se non lo mostrava mai). Perché Camus la cantava per ricordare un paesino con la strada da fare in una corsa, ma bisogna fare attenzione, in fondo.

Milo la ascoltava.

Perché era Camus.

E Camus adorava quella canzone.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ricominciando

 

 

Ho ripreso in mano i miei ragazzi.

E ancora non ci posso credere. Devono essere passati cinque anni dall’ultima storia che ho completato su di loro. Anche se non li ho mai veramente abbandonati.

E adesso, non so.

Sarà perché finalmente potrò vedere la serie di Hades in italiano; sarà perché tutto si rincorre e prima o dopo dovevo tornarci, a questo fandom. Sarà perché Un soffio di vita mi sta creando più problemi di quanti non avevo mai immaginato (e su un capitolo relativamente neutro, perdi più).

Saranno tante cose.

E alla fine mi sono decisa: riprendo in mano i ragazzi.

E cambio personaggi. Completamente: Milo e Camus.

In verità, anche se ho iniziato adesso a scribacchiare la storia, sono sette anni che ci lavoro. E alla fine mi sono stufata di fare e disfare e mi sono decisa: mettiamo giù la stesura definitiva (tanto si può sempre riprendere in mano dopo, no?).

 

Suite du corail bleu è l’elaborazione di un lutto.

Perché, cronologicamente, si pone dopo la battaglia alle Dodici Case; prima di Asgard, prima delle armature da riparare. Prima che la storia proceda, insomma.

Il lutto di Milo per Camus.

Perché mi sono sempre chiesta come ha reagito Milo alla perdita di Camus, soprattutto considerando il pesa che la sua decisione di lasciar passare Hyoga ha avuto nei fatti.

Ecco. Questa breve storia è il prodotto di quelle riflessioni.

Sono partita in modo un po’…come dire?...Confusionale, credo. Perché l’infanzia di Camus è nella mente di Milo, ed è un po’ ripetitiva, lo so. Ho cercato di rendere un flusso di coscienza in terza persona. E non so se è venuto.

Per quanto riguarda il titolo, invece: suite, in musica, definisce una raccolta di pezzi legati da elementi comuni, benché ne possa variare il motivo. Il corallo blu, invece, è il corallo connesso al simbolo dell’Acquario, ma poiché nella convenzione il corallo è rosso, si potrebbe dire che il titolo suona così: raccolta [di riflessioni] di Milo su Camus. I

Il suo lutto, appunto.

Per meglio chiarire, vi rimando a questo sito (http://www.arcobaleno.net/curiosita/PIETRE/corallo-segni.htm), molto esauriente in materia di corallo e sua simbologia.

Un’ultima nota per le informazioni biografiche di Camus.

Ho volutamente evitato si specificare il colore dei capelli, perché per quanto ricordi benissimo che nel manga Camus è rosso, non riesco a rinunciare all’immagine che l’anime mi ha impresso nella testa. Ma non ho potuto ignorare del tutto. Così, ho dato a Camus un’origine bretone da parte di madre. E anche il nome, il primo, è bretone.

 

Vi ringrazio per l’attenzione che mi avete concesso e, in anticipo, per gli eventuali commenti.

 

Alla vostra gentilezza.

  
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