Seduto sui gradini freddi e grigi di una stazione nostalgica, Charlie osservava i treni correre e sentiva il vento rigargli il viso. Chiudeva gli occhi e immaginava di essere altrove, di scappare. E quando poi li riapriva, trovava qualche foglia autunnale caduta accanto alle sue gambe, o sulla sua spalla, o tra le sue mani. Così immaginava di essere una di quelle belle e malinconiche foglie. Così fragili da potersi spezzare da un momento all’altro. In balia dei capricci del vento, che non si sa mai dove porta.
Le persone che osservavano Charlie credevano che fosse talmente bello da essere quasi irreale. Alcuni avevano paura di avvicinarsi, per evitare che quella figura evanescente potesse sparire da un momento all’altro. Lo vedevano così irraggiungibile, così profondo. Lo vedevano infinito. E neanche la sigaretta che gli si consumava tra le dita riusciva a limitare quel senso di infinito ai loro occhi. E neanche tutti i buchi emotivi che lo perforavano ci riuscivano. Nessuno sapeva perché passasse le sue giornate alla stazione. Nessuno sapeva che si era perso e cercava di ritrovarsi. Aveva scavato così tanto dentro se stesso per trovare qualcosa che assomigliasse vagamente a lui, ma non sapeva che quando si va troppo in profondità ci si svuota del tutto e si gettano via perfino le cose belle, quelle a cui si è legati. Così, stanco di guardarsi dentro, guardava gli altri. E cercava di rivedere nei passanti alla stazione i propri occhi, bruciare con violenza sui loro visi spenti. Ma ciò che non trovava lo spingeva a tornare al solito Charlie. Vuoto, stanco.
 
 
A Thomas, che mi ha salvata di nuovo, inconsapevolmente.