Era
passato un mese quando John si
svegliò nel mezzo della notte perché gli era
sembrato di sentire un rumore
familiare. Passi. Erano passi. Su per i diciassette gradini del 221B,
con quel
tredicesimo che scricchiolava così tanto da rimbombare nella
tromba. Erano
passi che conosceva, che avrebbe riconosciuto tra mille. Passi.
Si
alzò di colpo per andare a
controllare, il cuore che palpitava talmente tanto che ogni altro
rumore appariva
ovattato. C'erano soltanto lui e il suo respiro. E quell'idea. Passi.
Ma
sulle scale non c'era nessuno e
l'appartamento sottostante era miserevolmente vuoto. Ovvio, che
stupido. Era
solo il frutto della sua immaginazione. Quei passi ormai non esistevano
più.
Erano
passati due mesi quando John
si svegliò di soprassalto perché il suo telefono
squillava nell'oscurità. C'era
qualcosa di rassicurante in quella sequenza di note che proveniva dal
cellulare
sul comodino. Un trillo dopo l'altro. Un trillo dopo l'altro. E il
cuore
batteva più che mai, perché sapeva che quella
sequenza casuale di fa bemolle e
do diesis era legata ad un solo numero della sua rubrica. E lui sapeva
benissimo quale numero fosse. Per girarsi verso il comodino ci mise un
secolo,
per allungare la mano tremante ci mise un millennio. Quando lo prese in
mano
non suonava più. Non era mai suonato. Lo schermo freddo non
mostrava nessuna
chiamata. Perché quel numero non l'avrebbe disturbato
più. Era così ovvio.
Erano
passati tre mesi quando John
si addormentò davanti alla televisione accesa per
risvegliarsi alle ventitré e
quindici precise. E si arrabbiò perché il rumore
che proveniva dalla cucina era
insostenibile. Quel ticchettio costante della manopola del microscopio
che
girava, il movimento delle mani sulle pipette e i vetrini, la penna che
scorreva sul foglio. Alle ventitré e quindici, mentre lui
cercava di riposare
dopo una giornata stancante, NON si poteva fare tutto quel fracasso. E
si girò
John, il rimbrotto pronto sulla punta della lingua. Ma la cucina era
silenziosa
nella sua oscurità notturna. E nessuno avrebbe ascoltato
quel rimprovero morto
sul nascere, perché non c'era nessuno da rimproverare.
Meglio: quel qualcuno
non c'era più. Ovvio.
Dovettero
passare quattro mesi
perché John smettesse di preparare il tè per due
ogni qualvolta accendesse il
fornello.
Dovettero
passare cinque mesi
perché John finalmente si convincesse che non era
più necessario comprare il
latte.
Dovettero
passare sei mesi perché
John spostasse l'attrezzatura da laboratorio dal tavolo della cucina.
Dovettero
passare sette mesi perché
John si ricordasse che non era necessario salutare ogni volta che
entrava
nell'appartamento vuoto.
Erano
passati otto mesi quando John
decise che era ora di andare finalmente avanti.
Non
fu una decisione ponderata,
come si poteva pensare da un uomo che, nonostante tutto, era sempre
rimasto con
la testa sulle spalle (a parte quelle
volte, ovvio), ma non fu neanche una questione d'istinto.
John Watson non
improvvisava. Soprattutto non su cose di vitale importanza come quella.
Semplicemente fu. Un fu enorme, se
mai
qualcuno glielo avesse chiesto. Quella mattina si svegliò
come tutte le altre
mattine, scese nell'appartamento sottostante e salutò.
Sì, salutò. Poi si
diresse in cucina e si lamentò per la confusione che c'era
sul tavolo e per gli
esperimenti nel frigorifero. Infine si innervosì
perché il latte era finito
un'altra volta ed era costretto ad uscire di mattina presto per andare
da Tesco
a comperarlo.
E
faceva pure freddo. Eppure vi
andò. E quando tornò con la borsa della spesa con
il latte, mise il pentolino
con l'acqua sul fuoco e tirò fuori due tazze dalla credenza.
Ed aspettò in
silenzio che l'acqua bollisse. Quando le bolle apparvero, spense il
fornello e
mise in infusione le foglie di Oolong. Due minuti dopo,
perché sapeva che era
il tempo ideale per ottenere l'aroma migliore, estrasse le foglie e
versò il tè
nelle tazze. Due zollette di zucchero e un goccio di latte in una,
niente
zucchero e niente latte nell'altra. Poi poggiò quella
zuccherata sul tavolo del
soggiorno, premurandosi di ricordare ad alta voce che mangiare era
necessario
per sopravvivere.
Infine
uscì dal 221B per andare in
clinica. Lo aspettava una giornata lunga e disse chiaramente che la
sera
sarebbe uscito per una birra. Ad alta voce, cosicché si
capisse.
E
alle nove di sera era seduto al
pub dell'angolo a ingollare l'ennesima pinta. Aveva smesso di contarle
alla
decima. O forse era l'undicesima? Ma quello era il giorno. E lui doveva
andare
avanti.
Quando
tornò a Baker Street erano
le undici e, come aveva meticolosamente calcolato, era completamente
devastato
dall'alcool che gli scorreva nelle vene.
Entrò
nell'appartamento e si
diresse verso l'appendiabiti che c'era nell'angolo, quello su cui c'era
ancora
appeso il secondo cappotto di lana blu, per intenderci.
Per
otto mesi aveva rifiutato di
toccarlo, di avvicinarsi, di guardarlo. Ne aveva rifiutato l'esistenza.
E il
cappotto era rimasto lì, dimenticato, con un sottile strato
di polvere a ricoprirlo,
finché John, otto mesi dopo, non lo riprese tra le sue dita,
toccandone il
tessuto un po' ruvido, ma sempre così caldo ed accogliente.
E pazientemente,
con un po' di fatica dovuta all’ubriacatura, se lo
infilò sulle spalle,
avvolgendovisi dentro come se fosse un riparo, come se fosse
un'armatura.
E
finì per sedersi sulla sua
poltroncina. La tazza di tè fredda sul tavolo vuoto a fargli
da malinconica
compagnia.
Rise
John. Rise perché non sapeva
che altro fare in quella assurda situazione, rise perché il
tutto era ridicolo,
rise perché era l'unica soluzione.
Aveva
con sé una borsa. Quasi se la
stava dimenticando. Incespicando sui suoi passi incerti
riuscì a recuperarla e
ad estrarvi quello che cercava. Whiskey. Ovvio.
Ci
mise ben poco, con il liquido
caldo che scorreva nello stomaco, a cominciare a sognare ad occhi
aperti. E
rivide la donna in rosa stesa sul pavimento. E rivide gli occhi
spaventati di
Soo Lin. E rivide la faccia di Moriarty accanto alla sua. E rivide il
subdolo
sorriso di Irene. E rivide il mastino. E rivide l'uomo col cappotto blu
e i
capelli neri. Soprattutto rivide lui. Tra le trame delle sue
allucinazioni
c'era lui. Indissolubilmente. E non poteva essere altrimenti,
perché tutto quel
giochetto lo aveva organizzato per lui. Per trovare, otto mesi dopo, il
coraggio di dargli l'addio che meritava. Perché John sapeva
che non era un
addio normale. Perché John sapeva che c'erano cose.
Perché John sapeva.
L'allucinazione
di fronte a lui,
sfocata per il whiskey, era un ricordo particolare, uno di quelli che
preferiva. Era lo stesso del primo giorno che si erano incontrati, con
la
camicia bianca e la giacca blu scuro. Si schiarì la gola e
deglutì.
"Sherlock...se
tu fossi qui
diresti che sono uno sciocco sentimentale e che tutto questo
è un teatrino
ridicolo. Diresti che dovrei usare meglio il mio cervello e che rimango
sempre
un idiota. Ti dilungheresti sul fatto che non dovrei lasciarmi mai
trasportare
dalle emozioni e mi rimprovereresti perché mi preoccupo
troppo delle persone
che mi stanno accanto. Eppure ho l'impressione di non essermi mai preso
cura
abbastanza della...hic...persona a
cui tenevo di più."
"John..."
"No,
lo so. Non fare quella
faccia e non parlare con quella voce spezzata, anche se sei una
fottutissima
allucinazione. Non provare ad interrompermi anche così, ok?"
John
rise di una risata roca e
senza speranza.
"Avrei
dovuto dirtelo. Tanto
tempo fa. E avrei dovuto lasciare perdere tutte quelle cazzate che mi
ripetevo
incessantemente tentando di far finta di nulla. Perché,
chiariamoci una volta
per tutte, ho detto un mucchio di cazzate. Non sono interessato?
Cazzata. Non
sono attratto da te? Cazzata. Non sono geloso? Cazzata. E mi sono
mentito e ti
ho mentito, perché sono un cretino. Un'idiota, diresti tu."
"John..."
"Sì,
John, John, John! Come se
fossi davvero in grado di parlare! Davvero! Ha! Cosa stavo dicendo?"
E
John mosse le dita nell'aria,
come per cercare di recuperare fisicamente il filo del discorso che si
perdeva
nell'ennesimo goccio di rum.
"Ah,
sì. Avrei dovuto dirtelo,
Sherlock. Avrei dovuto dirti che dal momento che ti ho incontrato,
tutto è
cambiato. È cambiato il mio modo di vedere il mondo, il mio
modo di vivere
e...il mio modo di essere. È cambiato perché tu
sei riuscito a mandare in
malora le mie certezze e a risolvere i miei dubbi, perché tu
sei riuscito a
farmi stare in piedi quando quasi strisciavo. Perché tu mi
hai fatto ritrovare
la strada quando mi ero perso. E avrei dovuto dirtelo e non l'ho fatto.
E avrei
anche dovuto dirti che non importava cosa pensassero gli altri,
perché tu sei
sempre stato il migliore. Il più brillante, intelligente,
fantastico. E non te
l'ho mai ripetuto abbastanza. E avrei dovuto. E avrei dovuto dirti che
c'erano
giorni in cui non ho fatto altri che pensare a te, in cui mi era quasi
impossibile
respirare perché sembrava che ogni fibra del mio corpo fosse
concentrata su di
te. E non l'ho fatto. Perché non l'ho fatto? Eh, Sherlock,
perché? Se tu fossi
qui ora mi diresti che non l'ho fatto perché non
è vero che penso tutto questo.
Mi diresti che è solo frutto della mia elaborazione della
tua perdita. Una
specie di ammenda perché mi incolpo della tua dipartita. Mi
diresti...che altro
mi diresti?"
"John..."
"Ah,
sì. Mi diresti che ho un
cervello noioso, che sono una persona ordinaria e che non dovrei
lasciarmi
trascinare così. Ed io ti risponderei, perché
è questo il bello delle
allucinazioni, posso risponderti senza che tu mi tappi la bocca, che
non puoi
impedirmi di avere dei sentimenti, Sherlock. E avrei dovuto dirtelo.
Prima che
tutto questo accadesse, avrei dovuto dirtelo. Quando ancora potevo,
insomma.
Quando il tetto del Bart era solo il tetto del Bart, insomma. Quando tu
eri tu
e non una proiezione della mia mente ubriaca. Avrei dovuto dirtelo. E
adesso
non posso più farlo. Ho sperato, ho supplicato che fosse
solo un brutto sogno,
ma otto mesi mi hanno fatto capire che mi sbagliavo. Non è
un sogno. Avrei
dovuto dirtelo."
John
sospirò e il suo lamento
riecheggiò nell'appartamento vuoto.
"John..."
"Avrei
dovuto dirtelo,
Sherlock. Avrei dovuto dirtelo e adesso è troppo tardi.
Adesso è
fottutissimamente troppo tardi. Sherlock io ti...amo. E avrei dovuto
dirtelo.
No, non fare quella faccia scioccata. Il vero Sherlock mi avrebbe detto
'è
ovvio, John, tutto nel tuo comportamento conduceva a questo'. Sei
un'allucinazione poco credibile. Ti amo. È ovvio. Palese.
Lapalissiano.
Ovvio."
"John..."
"Ed
ora è venuto il tempo di
dirti addio. È il tempo di andare avanti. Avrei dovuto
dirtelo ed ora te l'ho
detto. Ora posso proseguire. Addio, Sherlock!"
E
John alzò la bottiglia come per
brindare.
"Ai
nostri giorni migliori.
Addio."
E
ricominciò a ridere, ma ben
presto le risate si trasformarono in singhiozzi e gemiti ed, infine, in
un
pianto incontrollabile, finché, esausto, non si
addormentò sulla poltrona.
E
John non notò che la sua
allucinazione si avvicinò a lui, abbassandosi per
accarezzargli le guance
bagnate di lacrime salate, per baciargli dolcemente la fronte e per
sussurrargli all'orecchio: "Non era così ovvio per me, John."
Sherlock
si rialzò e voltò le
spalle a John. Aveva corso un rischio a ritornare lì, ma non
avrebbe potuto mai
abbandonarlo da solo in quel giorno, non dopo quello che Mycroft gli
aveva
riferito.
Dandogli
le spalle disse
semplicemente:
"E
avrei dovuto dirtelo
anch'io, perché adesso è troppo tardi. Ti amo,
John."
E,
consapevole che John non avrebbe
ricordato quella confessione, s'incamminò verso la macchina
che lo stava già
aspettando fuori dal 221B. Si girò un'ultima volta verso la
porta blu col
batacchio dorato.
"Ed
è un arrivederci, non un
addio."
E
sparì nell'autovettura.