Human
Prologo
Beacon Hills, 13 Maggio del 2004
Una
dolcissima bambina dai capelli rosso fragola particolarmente
scompigliati –non
era certo colpa sua se quell’idiota
di Jackson Whittemore le aveva tirato le trecce per tutta la mattina e
lei era
stata costretta a scioglierle- camminava velocemente tra le strade di
Beacon
Hills, più affamata che altro.
Avrebbe
voluto tornare a casa subito dopo le lezioni, in modo da poter mangiare
quello
che la sua mamma le aveva preparato con tanto amore, ma le era stato
chiesto di
portare quei compiti ad Isaac Lahey e lei, beh, a dire la
verità non aveva mai
rivolto la parola al bambino dai riccioli biondi che stava sempre
seduto da
solo in fondo all’aula, ma sapeva bene dove abitava.
Attraversò
il vialetto di ghiaia, sentendola scricchiolare sotto le ballerine e si
fermò
di fronte alla porta d’ingresso, alzandosi sulle punte per
bussare
delicatamente con la mano. Un
brivido le
accarezzò la schiena al pensiero che di lì a poco
il signor Lahey avrebbe aperto
la porta.
La
piccola non sapeva spiegarlo con precisione, ma quell’uomo
emanava un qualcosa
di inquietante e fastidioso. Forse, se avesse avuto qualche anno in
più e un
vocabolario personale più ampio, lo avrebbe definito viscido; ma conosceva davvero poche
parole con accezione negativa.
Ciò,
comunque, non avvenne, ma lei aveva davvero fame e pensò che
forse avrebbe
semplicemente potuto spingere la porta, entrare, lasciare le fotocopie
sul
tavolo accompagnate da un bigliettino e andare a casa a mangiare.
Bonnie
McCullough era una gran fifona e, di norma, se non avesse avuto uno
stomaco che
brontolava terribilmente non sarebbe mai entrata in una casa vuota che
non
conosceva, soprattutto dopo il cigolio sinistro che la porta aveva
provocato
aprendosi.
Richiuse
la porta alle sue spalle, vedendo la cucina di fronte a sé,
ma inspiegabilmente
le sue gambe iniziarono a muoversi da sole verso le scale. Gradino dopo
gradino,
sentiva crescere un senso di nausea e c’era qualcosa dentro
di lei che le
urlava di uscire immediatamente da lì, ma ormai aveva
già aperto la porta di
una delle camere al piano superiore.
La
stanza era pressoché spoglia. Pareti dipinte di bianco, un
letto di una piazza
e mezza sfatto, un armadio e una scrivania. La piccola si chiese se
fosse la
camera di Isaac o, più probabilmente, quella degli ospiti:
non assomigliava di
certo a quella di un bambino di nove anni.
Il
senso di inquietudine continuava a crescere e ad amplificarsi. Non
avrebbe
dovuto essere lì, probabilmente non era nemmeno legale. Fece
per girare sui
tacchi e tornare di sotto, con tutta l’intenzione di lasciare
quegli fogli e
fuggire via da lì, quando qualcosa la fermò.
Un singhiozzo.
E
poi un altro, un
altro ancora.
La
bambina aveva i grandi occhi nocciola spalancati. Si
abbassò, poggiando le
ginocchia sul pavimento e scosto il piumone, che le impediva di vedere
al di
sotto del letto. Mise una mania sul materasso, abbassando il capo fino
a
toccare terra con i boccoletti rossi.
Quando
gli occhi azzurri di Isaac incontrarono quelli di Bonnie, le labbra
piene del
biondo si aprirono di poco, trattenendo il respiro e il bambino si
scosto
velocemente all’indietro, colto alla sprovvista e spaventato,
con il viso
ancora rigato di lacrime. Non sembrava essersi pienamente reso conto di
chi
fosse, aveva semplicemente seguito l’istinto, cercando di
mettersi al riparo.
«Hai
paura dell’uomo nero?», la voce della bambina era
uscita fuori dolce, mentre
cercava di impedire ai capelli di finirle davanti agli occhi.
«anche io ne ho»,
cercò di rassicurarlo subito, pensando non parlasse per la
vergogna; i ragazzi
avevano questa stupida abitudine di credere di doversi dimostrare forti
ad ogni
costo, «ma credo che stare lì sia peggio.
E’ più facile per lui prenderti al
buio», aggrottò appena le sopracciglia chiare,
come se stesse cercando davvero
il modo migliore per sfuggire ad un’entità
malvagia.
Isaac,
dal canto suo, non era mai stato abituato alla dolcezza e si chiese da
dove
provenisse quella di lei e se ci fosse un qualche genere di scopo
dietro le sue
parole. «I-io…», tentò d
rispondere che non era dell’uomo nero che aveva paura,
ma di qualcosa di tremendamente reale; si ricordo però che
non avrebbe di certo
potuto certo dirle cosa succedeva davvero tra quelle mura.
Deglutì e disse ciò
che gli sembrò più ovvio: «non riesce
ad entrare qui sotto».
«Non
l’avevo mai vista così», Bonnie
sembrò dargliela per buona dopo essere rimasta
qualche secondo a riflettere sulla sua affermazione, in silenzio. Poi
si piegò
sui gomiti, scivolando sotto il letto fino a raggiungere il suo
compagno di
classe. «non ti senti bene?», non vedeva altri
motivi per saltare la scuola.
Beh, Jackson, ma non era sempre così pestifero: Lydia Martin
spesso catturava
tutta la sua attenzione.
Isaac
di motivi per non voler andare a scuola, invece, ne vedeva tanti:
studiare gli
piaceva e in qualche modo era l’unica distrazione che aveva,
ma Whittemore e i
suoi amici gli rubavano sempre la merenda o i compiti o trovavano un
modo per
infastidirlo, per quanto cercasse di starsene per i fatti suoi e poi
c’erano le
domande invadenti degli insegnanti che non riuscivano assolutamente a
capire e
le sue risposte evasive.
“Sono
caduto dalla bici.”
“Mi
sono fatto male giocando.”
“Stamattina
sono scivolato dalle
scale.”
Fortunatamente
con il tempo avevano smesso di chiedere, classificandolo solo come un
bambino
goffo e consigliandogli di non entrare nella squadra di lacrosse, una
volta
cresciuto.
In
realtà, nonostante tutto, il bambino sarebbe volentieri
andato a scuola, ma suo
padre si era premurato di chiamare personalmente gli insegnanti,
parlando di un
dolore allo stomaco o qualcosa che non era riuscito a sentire -ma era
sicuro
che suo padre quella sera gliene avrebbe parlato, in modo da non
permettere ad
un figlio tanto indisciplinato di fargli fare brutte figure il giorno
dopo- che
gli avrebbe impedito di partecipare alle lezioni quel giorno.
Lo
stomaco di Isaac stava benissimo, le sue braccia piene di lividi un
po’ meno e
perfino suo padre si rendeva conto che mandarlo a scuola con una felpa
a
maniche lunghe fosse sospetto, così come inventare
l’ennesima scusa stupida.
«Isaac,
ti sei perso?», la ragazzina dai capelli ossi aveva
ridacchiato, mentre
continuava a tenere gli occhi fissi su di lui, con
un’espressione buffa sul
viso. Si sentiva più tranquilla a stare lì,
adesso che aveva incontrato lui.
«Eh?
N-no… perso? Cosa intendi?»
«Sì,
io mi perdo spesso, sai?», rotolò fino a trovarsi
con la schiena schiacciata
sul pavimento freddo, «immagino un posto dove mi piacerebbe
essere e ci passo
la giornata, solo che a volte dimentico che sono ancora qui»,
lo aveva detto
con un filo di tristezza nella voce, ma al ragazzo quella prospettiva
era
sembrata magnifica e interessante.
«Perché
sei qui?», aveva mormorato all’improvviso,
ricordandosi che doveva essere ora
di pranzo e che suo padre presto o tardi sarebbe tornato. Non voleva
che la
trovasse lì, sembrava così piccola e…
non voleva che facesse del male a qualcun
altro.
Bonnie
riportò lo sguardo su di lui, quasi offeso, «Ti ho
solo portato i compiti, ma
posso andare via subito».
Isaac
non voleva essere scortese, proprio no e aprì appena le
labbra per dirle
qualcosa di gentile, ma la richiuse subito, immaginando che fosse
meglio così.
Magari non avrebbe messo più piede lì dentro.
«Ti ringrazio», deglutì a vuoto,
«credo
che domani starò abbastanza bene da venire a
scuola».
Polaroid:
Hey!
In realtà non ho molto da dire. Avevo iniziato a scrivere questa storia per un contest (Il contest del supermarket (multifandom e originali) di Fefy_07), maaa la storia mi ha presa davvero e non sono riuscita a farla partecipare per due motivi: stava diventando una long troppo long e soprattutto non avevo abbastanza tempo per finirla scrivendo tutto ciò che volevo scrivere e mi sarebbe dispiaciuto lasciarla "incompleta", non so se mi spiego. Comunque ringrazio tantissimo Fefy_07 per l'opportunità e l'ispirazione.
Proprio per il fatto che ho alcuni capitoli pronti, credo che mi sarà abbastanza facile aggiornare ogni settimana (probabilmente di domenica). Fatemi sapere che ne pensate. Baci, Polaroid.
Hey!
In realtà non ho molto da dire. Avevo iniziato a scrivere questa storia per un contest (Il contest del supermarket (multifandom e originali) di Fefy_07), maaa la storia mi ha presa davvero e non sono riuscita a farla partecipare per due motivi: stava diventando una long troppo long e soprattutto non avevo abbastanza tempo per finirla scrivendo tutto ciò che volevo scrivere e mi sarebbe dispiaciuto lasciarla "incompleta", non so se mi spiego. Comunque ringrazio tantissimo Fefy_07 per l'opportunità e l'ispirazione.
Proprio per il fatto che ho alcuni capitoli pronti, credo che mi sarà abbastanza facile aggiornare ogni settimana (probabilmente di domenica). Fatemi sapere che ne pensate. Baci, Polaroid.