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Autore: Alaska__    05/09/2014    2 recensioni
{ OS • OCs • Yasha Ivanov - DISTRETTO 7 • Yasha/Phoebe • post!Mockingjay }
«Sai, Yasha, facendo un paragone matematico, direi che tu sei un numero primo».
L’undicenne inarcò un sopracciglio con fare interrogativo. «Un numero primo?» ripeté.
«Sai cos’è?»
Scosse la testa. Non aveva mai sentito parlare di numeri primi in vita sua.
L’insegnante sospirò, lanciando un’occhiata al libro di matematica che giaceva a pochi centimetri dalla sua mano.
«I numeri primi sono dei numeri speciali». Allungò una mano verso la fronte di Yasha, scostandogli il ciuffo di capelli bianchi che vi ricadeva sopra. Il ragazzino deglutì nervosamente: non gli piaceva farsi toccare da altre persone, se non da sua nonna e – un tempo – da Anya. «Sono divisibili soltanto per uno e per se stessi. Nell’infinito ordine dei numeri, sono soli, schiacciati tra altri due numeri, se non di più. Il sette – come il nostro Distretto – è un esempio di numero primo». [...] «I numeri primi sono molto solitari. Un po’ come te, non trovi?»
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sparks • Picking up the pieces. '
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Premessa: questi personaggi mi appartengono. Yasha è un mio OC che appare in altre mie storie. Per chi non sapesse chi è: Yasha Ivanov, Distretto 7, fratello del tributo femmina di questo Distretto durante i settantatreesimi Hunger Games. Orfano di entrambi i genitori, da sempre lui e la sorella vivono con la nonna paterna, che è ammalata e, per questo, Anya deve prostituirsi per portare soldi in casa. Yasha ha sette anni meno di lei, ha un quoziente intellettivo pari a 200 e ama la matematica. Ha la strana tendenza di associare numeri ed avvenimenti. Ha i capelli bianchi perché per qualche specie di strano gene, nella sua famiglia li hanno tutti biondissimi oppure bianchi.
La storia è divisa in più parti: nella prima, Yasha ha quattordici anni, la seconda è ambientata cinque anni dopo, quando lui ne ha quasi diciannove. La terza è ambientata una settimana dopo la seconda e la quarta circa quattro mesi dopo.
Buona lettura. ~




 
 « I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell’infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari.
Tra i numeri primi ce ne sono alcuni ancora più speciali. I matematici li chiamano primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero. Numeri come l’11 e il 13, come il 17 e il 19, il 41 e il 43. Se si ha la pazienza di andare avanti a contare, si scopre che queste coppie via via si diradano.
Ci si imbatte in numeri primi sempre più isolati, smarriti in quello spazio silenzioso e cadenzato fatto solo di cifre e si avverte il presentimento angosciante che le coppie incontrate fino a lì fossero un fatto accidentale, che il vero destino sia quello di rimanere soli. Poi, proprio quando ci si sta per arrendere, quando non si ha più voglia di contare, ecco che ci si imbatte in altri due gemelli, avvinghiati stretti l’uno all’altro.
Tra i matematici è convinzione comune che per quanto si possa andare avanti, ve ne saranno sempre altri due, anche se nessuno può dire dove, finché non li si scopre. »
-Paolo Giordano; “La solitudine dei numeri primi”
 
 

L’orfanotrofio era quanto di più brutto ci potesse essere. Non era null’altro che un grigio edificio, dall’aria vecchia e decadente, sulla cui facciata sinistra cresceva, indisturbata, una pianta d’edera. Passando di lì, di tanto in tanto, si potevano notare dei bambini affacciati alle finestre, con le mani premute sul vetro come a voler spingerlo via e scappare.
Dalla strada, un ragazzo dai capelli bianchi lanciò un’occhiataccia all’edificio. Yasha odiava quel posto, con tutto se stesso, sin da quando lo avevano costretto ad andare lì due anni prima, dopo la morte della nonna – l’unica famigliare rimastagli dopo che Anya era stata brutalmente uccisa durante i settantatreesimi Hunger Games.
Con i suoi quattordici anni compiuti da pochi mesi, era il più grande, lì all’orfanotrofio. Gli altri erano perlopiù bimbi i cui genitori erano vittime di guerra, deceduti durante la rivolta. Molti venivano adottati dalle famiglie che, dopo la ribellione, sentivano uno slancio di bontà nei confronti di quelle povere anime senza più né un padre né una madre.
Yasha calciò un sassolino con rabbia e quello andò a sbattere contro un cassonetto, producendo un suono che alle sue orecchie pareva sgradevole.
Si tirò il cappuccio della logora felpa nera in testa, coprendo i capelli bianchi spettinati come sempre, per proteggere il viso dal freddo pungente dell’inverno. Ficcò le mani nella tasca del vecchio giubbino che indossava – un regalo dell’orfanotrofio, probabilmente passato di ragazzo in ragazzo da tutti quelli che erano stati ospiti della grigia casa all’angolo della strada che dalla periferia conduceva in piazza.
Si incamminò, con l’aria gelata che gli pizzicava il volto. Teneva la testa bassa, come a non volersi far riconoscere. I pochi passanti, tuttavia, lo ignorarono, procedendo spediti verso le loro case o verso i boschi, per andare a tagliar legna. Molti di loro stringevano tra le mani dei ciocchi di legno pronti ad essere lavorati e trasformati in qualcosa di utile.
Si respirava aria di rinnovata speranza, da quando la rivolta era terminata. Le ferite, però, erano ancora aperte e continuavano a sanguinare, anche a due anni di distanza. Quelle di Yasha soprattutto: sembravano non volersi mai rimarginare, da quando Anya era morta. E quando poi aveva trovato anche sua nonna senza vita nel letto, erano diventate ancora più profonde. L’unica cosa che lui voleva era che diventassero – una volta per tutte – delle cicatrici. Il dolore lo perseguitava giorno e notte, senza mai lasciargli tregua. A volte si sentiva stremato, dopo una giornata passata a cercare di non pensare a sua sorella, i suoi genitori o sua nonna. Tuttavia, la notte portava con sé quei brutti ricordi e, nel buio della sua stanza, Yasha non poteva far altro se non ascoltarli, rivivere tutti i momenti passati con le persone a lui care.
Camminò fino alla piazza a testa bassa, senza mai incrociare lo sguardo di nessuno, a parte quello di una giovane dai lunghi capelli castani e gli occhi azzurri, che gli rivolse un’occhiata incuriosita. Doveva avere la sua età e teneva per mano un bambino.
Yasha – come sempre – passò oltre. Dopo la rivolta, la piazza sembrava essersi rianimata di vita nuova. In giro c’era poca gente, considerata la giornata lugubre e uggiosa, ma quei pochi sembravano diretti nei negozi che attorniavano la piazza, tornati al loro antico splendore. Non erano certo pieni di merce rara e pregiata, ma da quando i Distretti erano stati liberati, anche quello dei falegnami era diventato un po’ più ricco e la povertà che prima dilagava si era ridotta. Da qualche parte – specialmente nelle periferie – continuava a persistere, però, e molta gente pativa ancora la fame.
Al centro della piazza si ergeva un grosso monumento di pietra, messo lì dopo la rivolta, a ricordo di coloro che erano caduti a causa dell’oppressione della Capitale, durata per ben settantacinque anni. Non era nulla di che, semplicemente una grossa pietra con delle incisioni, ma Yasha ci andava quasi ogni giorno, lì o al cimitero. Si avvicinò, guardandosi intorno con aria guardinga, quasi stesse facendo qualcosa di illegale. Cercò con gli occhi la scritta che gli interessava, ma non ci mise molto. Dopo due anni, ormai sapeva bene la sua esatta ubicazione e ricordava perfettamente ogni dettaglio. Volendo, avrebbe potuto riprodurla su un foglio.
Con cautela, allungò la mano destra verso la scritta settantatreesimi Hunger Games, sotto la quale erano riportati i nomi dei caduti: Anya Nikolaevna Ivanova e Thilo Poe. Con dita tremanti, Yasha toccò il nome di sua sorella, percorrendo lentamente la ruvida superficie della pietra, quasi volesse accarezzare Anya e confortarla. Aveva come l’impressione che lei stesse lì con lui, con la mano sulla sua spalla per consolarlo, i suoi lunghi capelli bianchi in cui erano infilati i fiori che lui coglieva per lei e i grandi occhi azzurri che emanavano una luce di felicità. Ma era finta e Yasha lo sapeva: gli occhi di sua sorella tentavano di mostrare felicità. Ogni tanto, capitava che Anya iniziasse a fissare intensamente un punto della stanza in cui si trovava, rincorrendo il filo dei suoi pensieri che al fratellino risultavano inaccessibili. Yasha non poteva mai portarla indietro da quello strano status mentale. Semplicemente, aspettava che Anya si riprendesse, o l’abbracciava, nel vano tentativo di confortarla.
Fece ricadere il braccio lungo il fianco, con espressione affranta. Anya non sarebbe mai tornata da lui: doveva farsene una ragione. Era morta, sepolta, andata. Nulla sarebbe cambiato, nulla gliel’avrebbe mai portata indietro. Odiava coloro che dicevano che lei sarebbe sempre vissuta dentro di lui perché non lo riteneva vero. Sua sorella non avrebbe mai più passeggiato nei boschi con lui, mai più cantato e lui non avrebbe più colto dei fiori colorati per lei.
Eppure, quando girò i tacchi e riprese a camminare, gli parve che il fantasma di sua sorella lo seguisse. Era sempre con lui, giorno e notte, specialmente quando dormiva e lui la rivedeva nei suoi incubi che lo tormentavano da anni, gli stessi che, anni addietro, se ne andavano solo quando si intrufolava nel letto di Anya e lei lo stringeva a sé per calmarlo.
Giunto al limitare della foresta, Yasha sentì i muscoli del viso rilassarsi. Era come se stesse togliendo una maschera – e, in effetti lui conosceva bene quella sensazione. Indossava ogni giorno una maschera, da quando si svegliava fino a quando tornava a dormire. Si liberava di essa solo nel buio della sua stanza, avvolto dal finto abbraccio delle lenzuola, quando nessuno poteva vederlo – lo stesso nessuno che non sapeva quanto dolore nascondessero i suoi occhi azzurri, i sorrisi di circostanza che tirava fuori quando gli chiedevano come stesse o i calcoli matematici in cui si rifugiava quando la tristezza e l’angoscia lo assalivano. Non aveva mai detto a nessuno quanto si sentisse solo, quanto fosse perseguitato dagli incubi e dai ricordi che non gli lasciavano tregua – ricordi in cui i protagonisti erano sempre i suoi genitori che non aveva mai conosciuto se non in foto, Anya e sua nonna.
Forse – si disse – quel nessuno sarebbe stata una costante nella sua vita.
La passeggiata nel bosco parve rigenerarlo. Si sentiva a suo agio tra i suoni della foresta e gli alberi spogli delle loro foglie – che ormai formavano un tappeto colorato ed umidiccio a terra. I rami degli alberi – privi della loro coperta – si innalzavano alti verso il cielo lugubre, come braccia che invocavano l’aiuto di qualcuno. A Yasha piacevano gli alberi, in quella stagione, perché gli ricordavano se stesso e il suo bisogno di essere salvato. Anche lui aveva perso tutte le sue foglie e non rimaneva null’altro che un tronco spoglio, che cresceva troppo in fretta, con una zazzera di capelli bianchi come le neve in testa.
Oltrepassò un albero dal largo fusto, rallentando per osservarlo. Si diceva che lì vi andasse sempre un demone e si sedesse sulla sommità, osservando il mondo di sotto e cantando canzoni con la sua orribile e rauca voce. In realtà, quella misteriosa figura – tutti ne erano a conoscenza – era Elias Black, un ragazzo perito alcuni anni prima durante gli Hunger Games. Non c’era persona che non lo conoscesse, al Distretto 7. Tutti lo ritenevano strano – pazzo, addirittura. In effetti, non era raro vederlo camminare per le vie con l’aria stranita, gli occhi sbarrati e un sorriso misterioso in volto. Da piccolo, Yasha aveva paura di lui, ma ormai provava empatia, nei suoi confronti. Era considerato strano esattamente come lui.
Scosse la testa, liberando la mente dal ricordo dello strano sguardo di Elias, continuando a camminare a passo sostenuto. Non sapeva di preciso dove andare. Di solito, camminava e camminava finché non trovava un nuovo posto in cui sedersi e stare solo, senza che nessuno interrompesse le sue riflessioni. Era bello vedere quanto fossero grandi i boschi del Distretto 7.
Giunse dopo circa un’ora in una radura non molto grande, circondata da spettrali alberi privi di foglie. Yasha non era mai stato lì e la cosa che più lo colpì fu una casetta in legno che si stagliava esattamente al centro dello spazio erboso. Timoroso, iniziò ad avvicinandosi, con la paura che qualcuno – magari il proprietario – potesse uscire da lì. Man mano che procedeva in direzione della misteriosa abitazione, però, i dubbi di Yasha venivano meno. La casa aveva un’aria decadente, come se da anni non vi entrasse più nessuno. Un tempo doveva essere stata dipinta, perché le assi di legno mostravano ancora dei residui di vernice ormai scolorita.
Si posizionò davanti alla porta d’ingresso, appoggiando la mano sinistra su quella superficie lignea e ruvida. Bastò una semplice spintarella per farla aprire, accompagnata dallo stridore dei cardini ormai arrugginiti. Guardandosi attorno con circospezione, Yasha mise un piede in casa – che, scoprì, null’altro era se non un’enorme e unica stanza. Dinnanzi a lui vi era un tavolo piccolo, intagliato per far sedere una persona, massimo due. Il legno di cui era costituito era tutto tarlato e una delle gambe era spezzata esattamente a metà, così che il piano fosse inclinato verso il pavimento. Le mensole avevano la medesima aria di abbandono. Una, addirittura, era caduta per terra e giaceva lì, con il legno ormai marcito.
Il quattordicenne voltò la testa verso il lato destro della stanza, dove era presente un letto. Si levò il cappuccio dalla testa, camminando in direzione del materasso che – a differenza del resto della stanza – sembrava in condizioni buone. Non presentava la stessa aria il lenzuolo azzurro con cui era coperto, che ormai era logoro e sgualcito.
Il ragazzo andò vicino all’unica finestra del posto, il cui vetro era rotto e ciò che rimaneva di esso erano alcune schegge a terra. Il panorama non era nulla di troppo emozionante: il bosco. Ma a Yasha quel posto piaceva eccome. Era fuori del mondo, un luogo in cui nessuno avrebbe potuto andare a disturbarlo. Aveva sempre avuto una malsana passione per le cose vecchie, rotte, decadenti e ignorate da tutto e da tutti perché gli ricordavano la sua condizione. Era come un giocattolo rotto all’interno, come se un meccanismo mal funzionante gli impedisse di vivere come voleva.
 Quella era un’abitazione adatta ad un numero primo come lui.
 
I suoi compagni stavano parlando di un qualche gioco stupido da fare durante la ricreazione. Yasha li ignorò, continuando a tenere il capo chino sul foglio dove erano riportati – in grafia pressoché perfetta – i suoi calcoli. Era semplice, quell’espressione, tanto che Yasha era riuscito a risolverla in pochi minuti.
«Non vai a giocare, tu?» La voce della maestra lo distrasse dai compiti, irritandolo non poco. Odiava quando qualcuno gli parlava mentre era impegnato a fare qualcosa di importante o che gli piacesse.
Levò il capo dal banco, scuotendolo in segno di dissenso, prima di tornare ai suoi tanto amati calcoli.
«Come mai?»
Si trattenne dallo sbuffare, stringendo forte la matita tra le mani. Da quando sua sorella era morta l’anno prima, le insegnanti continuavano a stargli addosso, riempiendolo di domande come se fosse stato un caso raro, un bambino che sarebbe potuto crollare da un momento all’altro. Ma non era così: Yasha aveva ormai undici anni e aveva imparato che non poteva arrendersi, se voleva continuare a vivere.
«Non mi va» rispose semplicemente. “Come non mi va che continui a parlarmi” avrebbe voluto aggiungere, ma si morse il labbro inferiore, lasciando che la sua rabbia restasse lì dov’era – lì dove era sempre rimasta per tutto quel tempo. Non voleva rischiare di prendere una nota di demerito.
L’insegnante prese una sedia, mettendola di fronte al banco di Yasha. Si sedette, allungando le braccia sul tavolo e osservando con un sorrisino i suoi alunni che uscivano dalla classe con un urlo di guerra. Giocavano ai ribelli, come sempre. E prima o poi – Yasha lo sapeva – qualcuno li avrebbe puniti. Ricordava bene come, qualche anno prima, un ragazzino era stato frustato per aver osato dire alcune cose contro la Capitale.
«Ti piace proprio la matematica, eh?»
Il ragazzino annuì, posando la matita sul quaderno. Se proprio la maestra doveva parlargli, non sarebbe più riuscito a fare i compiti in pace.
«È bello vedere che qualcuno si interessa anche alla mia materia, di tanto in tanto». Yasha abbozzò un sorriso, vedendo l’espressione compiaciuta della donna. Era l’unico della classe a non lamentarsi mai dei compiti, perché lui amava i numeri. Non sapeva nemmeno perché, forse – si diceva – gli piaceva il loro ordine così infinito, così diverso dal caos della sua vita, che a soli undici anni era già costellata di brutti avvenimenti e tristi avventure.
«Sai, Yasha, facendo un paragone matematico, direi che tu sei un numero primo».
L’undicenne inarcò un sopracciglio con fare interrogativo. «Un numero primo?» ripeté.
«Sai cos’è?»
Scosse la testa. Non aveva mai sentito parlare di numeri primi in vita sua.
L’insegnante sospirò, lanciando un’occhiata al libro di matematica che giaceva a pochi centimetri dalla sua mano.
«I numeri primi sono dei numeri speciali». Allungò una mano verso la fronte di Yasha, scostandogli il ciuffo di capelli bianchi che vi ricadeva sopra. Il ragazzino deglutì nervosamente: non gli piaceva farsi toccare da altre persone, se non da sua nonna e – un tempo – da Anya. «Sono divisibili soltanto per uno e per se stessi. Nell’infinito ordine dei numeri, sono soli, schiacciati tra altri due numeri, se non di più. Il sette – come il nostro Distretto – è un esempio di numero primo».
«Tutti i Distretti sono numeri primi». La frase sfuggì di bocca a Yasha senza che se ne rendesse conto e la maestra gli lanciò un’occhiata interrogativa. L’undicenne si sbrigò a scuotere la testa, mordicchiandosi il labbro inferiore. Era pericoloso dire certe cose davanti ad altra gente, ma a lui i Distretti parevano questo: dei numeri primi, schiacciati dall’oppressione della Capitale.
«I numeri primi sono molto solitari. Un po’ come te, non trovi?»
Yasha fece un sorrisetto, giocherellando con la matita mordicchiata all’estremità. Vista la sua passione per i numeri, gli piaceva quell’essere paragonato ad uno di essi.
«E non è finita» proseguì l’insegnante. «Esistono dei numeri primi ancora più speciali, chiamati primi gemelli. Sono vicini, ma tra di loro c’è sempre un altro numero. L’undici e il tredici sono un ottimo esempio».
Yasha rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole. Gli venne quasi automatico paragonare anche Anya ad un numero primo, ricordando tutte le volte che stava sola, senza l’apparente bisogno di nessuno. Era speciale, sua sorella, speciale come un numero primo. Ed ora che era morta, Yasha si ritrovò a pensare che forse lei era il suo primo gemello, quel numero a cui lui non si sarebbe mai avvicinato perché tra di loro c’era un muro – quello degli Hunger Games, della morte di Anya, la fredda pietra che costituiva la lapide della sua tomba.
«Sembra interessante» commentò, disegnando uno scarabocchio sul foglio e cancellandolo subito dopo con la gomma.
«Non è ancora finita. I numeri primi gemelli esistono, ma più si va in là con l’ordine dei numeri, più sono rari. Esistono all’infinito, ma trovarli è difficile. Sembra che il destino dei numeri primi sia stare soli, a volte». Gli lanciò uno sguardo carico di compassione e Yasha si sentì avvampare. Se era un tentativo di consolarlo, quello era pessimo. «Ecco perché mi piacerebbe vederti con qualcuno, con degli amici. Non diventare in tutto e per tutto un numero primo, Yasha».
Detto questo, se ne andò, lasciando l’undicenne con i suoi mille problemi.
 
 

 
 
Passeggiare per il Distretto alla sera era quasi più piacevole che farlo di giorno. La notte, in giro c’era pochissima gente e lui poteva passare inosservato, senza che nessuno indicasse i suoi capelli bianchi o parlasse di lui alle sue spalle, etichettandolo come quello che viveva nel bosco.
Si scostò il ciuffo di capelli ondulati dalla fronte, lasciando scivolare la mano sulla guancia e grattandola con fare stanco. Era tardi, ormai, e l’ora di tornare nella sua casa nel bosco si stava avvicinando.
Dopo aver trovato quell’abitazione decadente, Yasha si era dato da fare. Ogni giorno, andava via dall’orfanotrofio, si metteva lì e la osservava, decidendo come sistemarla. Con il passare degli anni, i difetti della casa erano stati sistemati. Il ragazzo aveva ridipinto le assi di legno, sostituendo quelle malandate, aveva aggiustato la finestra e sistemato tutto ciò che potesse aiutarlo a rendere quel piccolo angolo di mondo un po’ più confortevole.
A diciotto anni aveva finito gli studi e – raggiunta la maggiore età – l’orfanotrofio non aveva più posto per lui. Ma lui un posto dove andare l’aveva e, trovato un lavoro come taglialegna, si era spostato nella sua nuova casa nel bosco, che forse non era il massimo per abitarci, ma a lui piaceva molto. Adorava addormentarsi cullato dai mille rumori della foresta, svegliarsi al mattino con il canto degli uccelli e osservare le foglie che cadevano in autunno.
Era passato un anno dal giorno in cui si era trasferito lì e, ogni giorno di più, era consapevole di aver fatto la scelta giusta.
Camminò a passo spedito nel buio della notte, lasciando che l’aria fresca gli solleticasse il viso, facendogli dimenticare la calura di un giorno passato a lavorare sotto il cocente sole estivo. Non aveva mai amato l’estate e, con il suo lavoro, aveva capito che non era la stagione per lui.
Delle voci provenienti da un vicolo cieco lo costrinsero a fermarsi. Non lo avrebbe fatto in altri casi, ma lì sembrava che stesse succedendo qualcosa di grave. Una delle persone che stavano parlando era una femmina. L’altra voce, invece, si sentiva poco, ma doveva appartenere ad un uomo.
Un urlo squarciò il silenzio della notte.
«Lasciami!»
Senza pensarci due volte, Yasha si gettò nel vicolo, correndo verso la fonte dei rumori. Si era ormai abituato al buio e li vide subito: una ragazza era con le spalle al muro, mentre un uomo – ben più vecchio di lei – le stava alzando la gonna.
Uno stupro.
Il suo braccio si mosse quasi automaticamente in avanti, colpendo con forza la mascella dell’aggressore. L’uomo emise un gemito soffocato, piegandosi in due e portando la mano laddove Yasha lo aveva colpito. La ragazza gli rivolse uno sguardo di puro terrore , con le spalle ancora al muro.
«Stronzo» sibilò l’aggressore. Si alzò, andandogli addosso, ma Yasha fu più veloce e il suo piede andò a finire con violenza contro lo stomaco dell’uomo. Questi cadde carponi, con una mano premuta sulla ferita.
Yasha afferrò la mano della ragazza. «Corri» urlò, prima di iniziare a muoversi verso l’uscita del vicolo. L’uomo a terra continuò a lanciargli improperi, ma lui non si fermò. Doveva stare attento a non farsi beccare e non si era mai ritrovato in una situazione simile – o meglio, era dalla rivolta che non scappava via a quel modo.
La ragazza lo seguiva spedita, senza mai lasciare la sua mano. Yasha non sapeva dove andare. Voltò il capo indietro, cercando di vedere se l’uomo li stava seguendo, ma la strada – fiocamente illuminata da un lampione – era vuota. Tuttavia, continuò a correre, senza mai fermarsi, deciso a raggiungere casa sua.
Qualche minuto dopo, lui e la ragazza si ritrovarono, stremati, nell’abitazione nel bosco. Yasha chiuse la porta dietro di sé, ansimando in cerca d’aria. Erano anni che non correva così velocemente e, nonostante fosse ancora giovane e in forma, sentiva la necessità di un allenamento.
Cercò a tentoni l’interruttore vicino all’ingresso. Premette e l’appartamento si illuminò. La ragazza che aveva salvato era in piedi, appoggiata al tavolo e respirava affannosamente, con il petto che si alzava e si abbassava ad una velocità incredibile.
«Stai bene?»
Sotto la luce del piccolo lampadario, Yasha poté osservarla meglio. Non doveva avere più di diciotto anni, ma il suo aspetto sembrava tutto fuorché quello di una bambina. I suoi vestiti erano completamente neri e lasciavano grandi porzioni di pelle scoperta.
Abiti da prostituta.
Yasha sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Ecco cosa ci faceva in un vicolo buio, da sola, di notte. Faceva lo stesso lavoro di sua sorella.
«Sì» ansimò la giovane, staccando le mani dalla superficie del tavolo e rimettendosi in piedi. «Grazie». Un sorriso incurvò le sue labbra screpolate.
«Di niente». Yasha si allontanò dalla porta, avvicinandosi alla giovane. «Come ti chiami?»
«Phoebe. Tu sei Yasha». Il ragazzo sgranò gli occhi, stupito dal fatto che lei lo conoscesse. Anche lui aveva l’impressione di averla già vista da qualche parte, ma non ricordava dove.
«Io» ammise, con un’alzata di spalle.
«È casa tua, questa?» Phoebe si guardò intorno con aria curiosa, e i capelli castano scuro parvero frustrarle il volto.
Passeggiava con un bambino per mano, in un freddo pomeriggio invernale.
Improvvisamente, vedendo quegli occhi blu, Yasha ricordò dove l’aveva già notata. Era la ragazza che teneva per mano un bambino quel giorno in cui lui aveva scoperto la casa.
«Casa mia. Esatto» replicò.
«Non male». Phoebe fece spallucce, tornando a rivolgere la sua attenzione a Yasha. «Al Distretto si parla spesso di te, lo sai?»
Il ragazzo scosse la testa in segno di diniego. Lo sapeva – certo – ma non pensava che fossero in molti a conoscerlo.
«Dicono tutti che sei un fantasma, o qualcosa del genere. Penso sia per via dei capelli» proseguì la ragazza, indicando la zazzera arruffata del diciottenne. Yasha passò una mano tra la sua folta capigliatura, spostando i capelli dagli occhi. «In effetti, passeggi la notte, come un fantasma. Devo dire che è un bene, però. Mi hai salvata». Gli occhi di Phoebe sembravano quasi ridere, illuminando ancora di più il suo volto, ma Yasha vide altro in quelle iridi blu. Rivide sua sorella e i suoi tormenti, Anya che fissava un punto nel vuoto e sembrava estraniarsi dal mondo.
«Dovere» tagliò corto il ragazzo, ficcando le mani nelle tasche dei pantaloni. Lanciò uno sguardo all’orologio appeso sulla parete, che indicava mezzanotte e mezza. Phoebe si girò, seguendo la traiettoria dello sguardo di Yasha.
«È tardi» sussurrò.
Il ragazzo rimase zitto per un attimo, pensando se fosse il caso di mandarla via o meno. Ogni opzione comportava un rischio: mandarla via, significava che Phoebe avrebbe potuto rincontrare l’uomo di poco prima e anche lui – se l’avesse accompagnata – avrebbe rischiato di farsi pestare. Tenerla lì, però, lo metteva in agitazione. I pochi contatti umani che aveva erano con i suoi colleghi di lavoro e anche in quei momenti, Yasha non era uno particolarmente loquace. Lavorava spesso solo, senza badare agli altri.
«Puoi restare qui, se vuoi» propose a voce bassa. Tra il rischiare che quella ragazza venisse stuprata e farla restare lì, era meglio la seconda.
Phoebe sbarrò gli occhi. «Dici davvero?»
Yasha annuì. «Andando, potresti rincontrare quell’uomo. Dormi pure sul mio letto». Indicò il materasso con un gesto del capo. «No, non disturbi» aggiunse, vedendo che Phoebe aveva aperto la bocca per replicare.
«Sicuro?»
«Sicurissimo».
«Grazie». Yasha abbozzò un sorriso, avvicinandosi all’armadio, mentre Phoebe si dirigeva verso il letto.
«Tu dove dormi?»
Il diciottenne si voltò verso la giovane, proprio mentre stava per tirare fuori una coperta. Indicò il pavimento con un dito.
«Qua».
Phoebe inarcò un sopracciglio. «Guarda che possiamo dormire nello stesso letto».
Yasha sentì uno strano calore invadergli il volto, e si affrettò ad abbassare lo sguardo. L’unica persona con cui aveva mai dormito era stata Anya – che per di più era sua sorella. Non aveva mai condiviso il letto con estranei, non amava il contatto umano.
Phoebe fece roteare gli occhi con aria stressata. «Non mangio. E poi non mi dai fastidio».
«Sicura?»
«Faccio la puttana, Yasha!» esclamò, mettendo una strana enfasi sul nome del suo lavoro, sputandolo fuori dalle labbra in maniera arrabbiata. «Non mi infastidisce dormire con gli uomini».
Riluttante, il giovane rimise a posto le coperte. Chiuse le ante lentamente, mentre Phoebe si stendeva nel letto, con la schiena al muro e si copriva con la trapunta. Yasha la imitò, sempre intimidito dall’idea di dormire con un’altra persona – con una femmina che non fosse Anya.
«Buonanotte, insomma» disse dopo un minuto, affondando con la testa nel cuscino. Phoebe non rispose e, voltandosi, Yasha appurò che si era già addormentata.
 
 
 
 
Dopo quel giorno, Yasha non rivide Phoebe per circa una settimana, finché – inaspettatamente – la ragazza non bussò alla sua porta, una domenica mattina. Aprendola, Yasha fu sorpreso di vederla perché non credeva che lei potesse tornare da lui. Di solito, lui era abituato a perdere le persone, ma non a riottenerle.
«Ciao» esclamò sorpreso, sgranando gli occhi azzurri. Phoebe non indossava i suoi vestiti da lavoro, ma aveva addosso una semplice maglietta bianca e dei pantaloncini. I suoi capelli castano scuro erano legati in una pratica coda di cavallo. Yasha arrossì, pensando a quanto fosse molto bella, molto più che quando indossava gli abiti da prostituta.
«Ciao». Phoebe fece un cenno di saluto con la mano, sorridendo radiosa. «Spero di non disturbare».
«No». Yasha scosse la testa, rispondendo al sorriso. «Non disturbi affatto, tranquilla. Vuoi entrare?» Si girò di lato, indicando l’interno della casa con una mano.
Phoebe si morse il labbro inferiore, con le mani intrecciate dietro la schiena. Era alzata leggermente in punta di piedi e dondolava un po’, come se dovesse prendere il volo. Yasha si accorse in quel momento di quanto fosse molto più bassa di lui.
«Pensavo di fare una passeggiata nel bosco. Ti va?» propose la ragazza, osservando Yasha di sottecchi come se temesse un rifiuto. Il ragazzo fece un sorrisino, uscendo di casa e chiudendo la porta dietro di sé.
«Mi va» assentì.
I due iniziarono a camminare fianco a fianco, diretti verso il folto del bosco. Erano anni che Yasha non camminava così, con una persona, oltretutto con una ragazza. Non aveva mai avuto un vero appuntamento in vita sua. L’unica che aveva provato ad uscire con lui era stata una sua compagna di classe, qualche anno prima, ma si era ritrovato a rifiutarla – come, del resto, rifiutava tutte le persone. Era più un problema suo, che un problema degli altri. Aveva perso la voglia di affezionarsi a chiunque, da quando anche sua nonna era morta. Sembrava che tutti coloro che lo circondassero ed entrassero in contatto con lui dovessero morire.
«Sono venuta a trovarti per ringraziarti dell’altra volta». La voce sottile di Phoebe ruppe il muro di silenzio, timidamente. Yasha si voltò verso di lei. «Mi hai praticamente salvata e poi per una settimana non mi sono fatta vedere, mi sento un’ingrata».
Il ragazzo ridacchiò, grattandosi la nuca con fare imbarazzato. «Non avrei potuto lasciarti lì, nelle mani di quell’uomo».
«Sei stato davvero gentile. Ma perché vivi così, fuori dal mondo? Non sarebbe meglio stare in mezzo alla gente?»
La domanda della ragazza lo prese in contropiede. Ogni tanto si era chiesto se fosse meglio allontanarsi così, da tutto e da tutti, ma si era altresì risposto che la sua vita ormai era quella: una vita in totale solitudine, da numero primo. Perché quello era la fine che facevano quelli come lui.
«Non amo particolarmente la compagnia delle persone» fu la sua laconica risposta. Phoebe abbassò lo sguardo, torturandosi un’unghia.
«Nemmeno io, in realtà» sussurrò. «Dipende dalle persone. Tu, ad esempio, mi piaci».
Yasha avvampò e si sbrigò ad abbassare lo sguardo per non far vedere le sue guance rosse. «Grazie».
«E di che? Se sei una bella persona, te lo devo dire. E poi stai zitto, non fai domande e non giudichi: mi piace questa cosa».
Yasha fece un sorrisino compiaciuto. Non la giudicava perché giudicare Phoebe sarebbe stato come giudicare Anya – e lui sapeva che, nonostante i loro lavori poco raccomandabili, entrambe potevano essere migliori di molte altre persone.
«Sei arrossito». Phoebe gli toccò la guancia con l’indice della mano destra. Il diciottenne sorrise divertito e, con suo sommo stupore, quel semplice contatto non gli diede fastidio. Di solito, non gli piaceva farsi toccare da gente estranea, che non fosse sua nonna o sua sorella.
«Davvero, sei una brava persona. Una normale non mi avrebbe nemmeno salvato, con la scusa che faccio la prostituta e che me la sono cercata». Phoebe fece ricadere il braccio lungo il fianco, stringendo le labbra in un’espressione amareggiata.
«Non mi dà fastidio che tu sia una prostituta perché-». Si bloccò a metà frase, portando una mano davanti alla bocca. Non gli andava di parlare di Anya, non in quel momento. Non voleva rivelare il segreto di sua sorella davanti ad una persona estranea.
«Perché?» Phoebe inarcò un sopracciglio, incuriosita. Yasha stette zitto, senza sapere cosa dirle.
«Una persona a cui volevo bene… faceva il tuo stesso lavoro». Deglutì, passandosi una mano tra i capelli.
«Capisco. Tua sorella?»
Yasha si bloccò in mezzo al sentiero, avendo l’impressione che lo avessero preso a pugni. Phoebe fece lo stesso, preoccupata. Si avvicinò a Yasha, con le guance rosse dalla vergogna.
«Scusa. Dovevo immaginare che ti facesse ancora male…»
«Tranquilla». Il diciottenne fece un gesto con la mano, agitandola davanti al volto come a voler scacciare una mosca. «Sì, mia sorella» aggiunse.
I due ripresero a camminare, andando sempre più nel folto del bosco. Ormai gli unici rumori che li circondavano erano quello dei loro passi e il cinguettio degli uccellini che avevano i loro nidi sugli alberi.
«Me la ricordo». La voce di Phoebe era poco più che un sussurro. «L’ho vista in televisione, durante gli Hunger Games. Mi dispiace per lei».
Yasha fece spallucce, scuotendo la testa. «Sono passati nove anni, ormai. La ferita si sta rimarginando». Calciò un sassolino che giaceva accanto al suo piede e quello andò a sbattere contro il tronco di un albero.
«Lo so che dici una bugia. Non si rimargina mai. Io soffro ancora per la perdita di mia madre e mio padre, nonostante siano passati anni».
«Io i miei genitori non li ho nemmeno conosciuti».
Yasha si stupì della scioltezza che aveva preso nel parlare con quella giovane. Le parole gli uscivano di bocca quasi senza che se ne accorgesse, come se lui si fidasse ciecamente di quella ragazza che aveva accanto. Forse perché dalle sue parole traspariva tutta la sua solitudine – quella che lui conosceva anche troppo bene.
«Orfani tutti e due, eh?» Phoebe scosse la testa, portando le mani in alto per stringere la coda di cavallo. «E ora che fai per vivere?»
Yasha fu ben lieto che la conversazione avesse preso un’altra direzione. «Il boscaiolo» rispose semplicemente, proprio nel momento in cui giungevano vicino ad una discesa. Sotto, scorreva un fiumiciattolo. Senza neanche mettersi d’accordo, i due si diressero verso l’acqua. Sulla riva c’era un grosso masso, grande abbastanza perché tutti e due si sedessero. Così fecero.
«Io ho provato a cercare lavoro, ma mi accontento di qualche impiego saltuario. Non è facile, per una ragazza di appena diciotto anni». Phoebe portò le ginocchia al petto, appoggiandovisi il mento. «Solo il boscaiolo? Ho sentito dire che sei una specie di essere umano altamente intelligente».
Yasha scoppiò a ridere, gettando un sassolino in acqua. Tutti gli dicevano che lui era intelligente, ma non ci aveva mai creduto troppo. Gli piaceva la matematica, certo, ma aveva sempre pensato che fosse una passione e basta – anche se, doveva ammetterlo, era piuttosto portato.
«No, non sono così tanto intelligente» replicò, abbassandosi verso terra. Prese un altro sassolino e lo lanciò in acqua.
«L’altra sera sul tavolo erano sparsi dei fogli con sopra dei calcoli. E su un altro c’erano delle scritte in uno strano alfabeto».
«Mi piace la matematica e lo strano alfabeto si chiama cirillico. Lo usano quelli che parlano il russo». Yasha si voltò verso Phoebe, incrociando le gambe sul masso.
«E tu la parli, questa strana lingua?»
Il diciottenne annuì, giocherellando con un laccio delle scarpe da ginnastica che un tempo erano state bianche, ma in quel momento erano più sul marrone.
«Dimmi qualcosa». La ragazza gli lanciò uno sguardo divertito, avvicinandosi a lui.
Yasha ci pensò su un attimo, cercando la parola più adatta da dirle. «Mignà savut Yasha» rispose poi, schiarendosi la voce.
«E che significa?» Phoebe afferrò un sassolino, giocherellandoci un po’.
«Significa mi chiamo Yasha».
La diciottenne riafferrò l’oggetto del suo divertimento, dopo averlo lanciato in aria. «Quindi, io dovrei dire mignà savut Phoebe?»
«Esattamente».
«Sei così intelligente, tu». La diciottenne sbuffò, lanciando il sassolino nel fiume, che scorreva placido dinnanzi ai loro occhi. «Io a scuola avevo dei problemi, sai?»
«Problemi?» Yasha le rivolse uno sguardo interrogativo, stringendo i lacci delle scarpe.
«Credo che non saper praticamente leggere sia un problema. O almeno, so leggere, ma faccio fatica. È come se le lettere si scambiassero di posto dinnanzi ai miei occhi» spiegò Phoebe, mimando con le mani il concetto che intendeva esporre.
«Dislessia».
La diciottenne sbarrò gli occhi, guardando il suo interlocutore quasi con astio. «Disle… cosa?»
«Dislessia» scandì il ragazzo. «Significa che fai fatica a leggere perché sei dislessica. È un problema dell’apprendimento».
Phoebe pareva più tranquilla, dopo quella spiegazione. «E tu come fai a saperlo?»
«L’ho letto in un libro» fu la sbrigativa risposta del diciottenne.
Phoebe si sdraiò sul masso, portando le braccia dietro alla nuca e chiudendo gli occhi. La maglietta che indossava si alzò un poco – quel tanto che bastava per mettere in mostra un lembo di pelle pallida. Yasha si scoprì ad osservarlo con insistenza, come se non avesse mai visto la pelle di una donna in vita sua. Distolse lo sguardo, arrossendo visibilmente.
«Sei davvero troppo intelligente. Con questo cervello, potresti conquistare qualunque ragazza, ti basterebbe scrivere una poesia». Phoebe riaprì gli occhi, fissando intensamente il ragazzo. «Sei fidanzato?» chiese infine, sorridendo con aria curiosa.
«No» rispose il giovane, stendendosi accanto a lei. «Tu?»
«No». Phoebe ridacchiò come se la risposta fosse stata ovvia. «Ti pare? Faccio la prostituta, non mi sembra il caso. E poi, te l’ho detto, la gente di solito non mi piace. A parte te, forse. Non sei male».
Il ragazzo sorrise. «Anche tu non sei male» ammise, passandosi le mani sul volto. «Forse è perché siamo due numeri primi tutti e due».
«Due che?» Phoebe si girò su un fianco, guardandolo con aria interrogativa.
«Numeri primi. Sono divisibili solo per uno e per se stessi. Sono schiacciati tra tanti numeri, quindi sono molto solitari e speciali».
«Ah, ne ho già sentito parlare. A scuola, credo». Phoebe portò una mano dietro la testa, slegandosi i capelli che le ricaddero lungo la schiena. «Interessante questa roba. Dici cose profonde. Sul serio, potresti avere tutte le donne che vuoi».
«L’amore non fa per me». Yasha si girò su un fianco, così da poter guardare la sua interlocutrice negli occhi. Le iridi blu della ragazza erano a poca distanza dal suo viso, ma, al contrario delle altre volte, il giovane non sentiva il bisogno di allontanarsi. Gli piaceva averla a pochi centimetri di distanza.
«Come mai?»
La domanda di Phoebe lo fece stare zitto per un istante. Non sapeva bene come rispondere – le domande di quel genere lo avevano sempre messo in soggezione.
«Tutto ciò che tocco muore» rispose in un sussurro, abbassando lo sguardo. «E poi, non lo so, non mi piace l’idea di essere innamorato» aggiunse sbrigativamente, per portare il discorso su altri lidi.
«Sarai anche un genio, Yasha Ivanov, ma dell’amore non capisci un cazzo, mi sa».
«Ehi!» Il ragazzo gli lanciò uno sguardo arrabbiato, ma vide che Phoebe stava ridacchiando di gusto.
«Sei un po’ permaloso, eh?» Lo prese in giro, dandogli una spintarella all’altezza della spalla. Yasha ricambiò la spinta, sorridendo. Ben presto, i due finirono di nuovo seduti, facendosi il solletico a vicenda.
«Basta, basta». Il diciottenne alzò le mani in segno di resa, con il fiatone. Phoebe rise, gettando indietro la testa e Yasha pensò, solo per un istante, che quando rideva diventava un essere inumano, da quanto era bella.
«Devo andare, ora». Phoebe si alzò, tendendogli la mano. Yasha la prese e lei lo tirò su.
Si incamminarono in silenzio, uno accanto all’altra, accompagnati solo dal silenzio dei boschi. Yasha non si era neanche reso conto dello scorrere del tempo. Erano anni che non si sentiva così in pace, così bene con un’altra persona. Si accorse di avere fame di certi sentimenti. Voleva ridere, parlare con Phoebe, stare con lei qualche ora in più. Ma le cose belle finiscono in fretta, così come quel pomeriggio, che terminò dinnanzi ad una casa nella periferia del Distretto 7.
«Ci rivediamo?» Phoebe lo guardò quasi con aria supplichevole, davanti alla porta della sua piccola abitazione. Il ragazzo annuì.
«Certo. Alla prossima». Fece per girarsi, ma la ragazza lo bloccò, afferrandolo per un braccio. Poi, inaspettatamente, si alzò sulle punte dei piedi e avvicinò le labbra alla guancia di Yasha, posandovi un timido bacio.
«Ciao ciao, Yasha Ivanov. Ti passerò a trovare».
Mentre si incamminava, il giovane sentì una strana sensazione all’altezza dello stomaco.
Forse – si disse – aveva capito cosa significava essere innamorati.
 

 

 
 
Da quel giorno, i due iniziarono a vedersi più spesso. Non erano veri appuntamenti, in cui si mettevano d’accordo. Il più delle volte, Phoebe si presentava fuori da casa sua, trascinandolo nel bosco e obbligandolo a passeggiare con lei.
Con il passare dei mesi, Yasha imparò a conoscerla meglio. Si rese conto di quanto fossero in simbiosi, tutti e due con i loro problemi. Forse era per quello che Phoebe gli piaceva tanto: si assomigliavano. Oltre a questo, gli ricordava sua sorella, non tanto per il suo lavoro, quanto per la sua forza d’animo, quella che metteva ogni giorno per curare il suo fratellino – l’unico membro della sua famiglia rimastole, dopo che suo padre era morto nel bel mezzo della rivolta.
Yasha non sapeva spiegare bene le sensazioni che gli provocava la vicinanza con quella ragazza. Lui – che di solito trovava sempre una ragione logica o una spiegazione precisa – non capiva cosa sentisse. Un giorno provò anche a scrivere tutti i sintomi: strane sensazioni all’altezza dello stomaco, brividi lungo la schiena quando lei gli era troppo vicina, continuo pensare al suo volto, i suoi occhi blu e il suo profumo. La diagnosi, alla fine, era sempre quella. Volente o nolente, Yasha Ivanov si era innamorato e aveva trovato una persona a cui voler bene, dopo tanti anni.
Tuttavia, c’era sempre qualcosa che lo bloccava. Paura, disprezzo per se stesso. Ogni volta che pensava a quanto si fosse affezionato a Phoebe, i volti di coloro che aveva amato e non c’erano più facevano capolino nella sua mente, ricordandogli che lui non avrebbe mai potuto avere qualcuno con cui stare. Tutti coloro che aveva amato erano morti, uno dietro l’altro. Prima i suoi genitori, poi Anya, infine sua nonna. Sembrava che ogni cosa che Yasha toccasse fosse destinata a morire e dissolversi nel nulla. Doveva essere una condizione del suo essere un numero primo. Gliel’aveva detto, la maestra: «Sembra che i numeri primi siano destinati alla solitudine».
E la solitudine, ormai, era una vecchia amica.
Una sera di dicembre, la neve cadeva placidamente sui boschi del Distretto 7, coprendoli di un soffice e candido manto – quello che Yasha amava tanto perché gli ricordava il colore dei suoi capelli, di quelli di Anya e suo padre. Il ragazzo aveva ormai compiuto diciannove anni e stava seduto alla finestra, leggendo, e, di tanto in tanto, i suoi occhi si posavano su ciò che accadeva fuori dalla finestra.
All’improvviso, qualcuno bussò alla porta. Yasha si alzò di soprassalto, chiedendosi chi potesse essere a quell’ora della sera, con il tempo che era a dir poco pessimo, per uscire. Chiuse il libro con un gesto secco, alzandosi dalla vecchia, ma comoda poltrona che aveva recuperato mentre rimetteva in sesto l’abitazione. Appoggiò il volume sul tavolo in legno, prima di avviarsi verso la porta, sistemandosi la felpa pesante che indossava.
Allungò la mano verso la maniglia della porta, aprendola. Fuori c’era Phoebe, con la neve impigliata tra i capelli e lo sguardo perso. Yasha restò piuttosto sorpreso dinnanzi alle condizioni dell’amica. La sua faccia non suggeriva nulla di buono e, per un istante, al ragazzo venne in mente Anya e tutte le volte che si chiudeva in se stessa.
«Phoebe…» sussurrò, facendosi da parte per farla entrare. La diciottenne mise piede nella stanza, timidamente, guardandosi attorno. Indossava i soliti abiti da lavoro – anche se questa volta erano decisamente più pesanti, nonostante dessero l’impressione di non coprirla a sufficienza.
«Scusa il disturbo» mormorò la ragazza, mentre Yasha si arrabattava per cercare qualcosa di pesante da farle indossare. Aprì l’armadio cigolante, guardando un attimo i suoi vestiti. Dopodiché, prese un maglione nero e lo porse a Phoebe. La diciottenne rimase a guardarlo per un istante, come intimidita, ma dopo pochi secondi lo prese.
«Grazie». Lo infilò. Le andava piuttosto largo, tanto che le arrivava quasi alle ginocchia.
«È successo qualcosa?» Yasha si avvicinò a lei, preoccupato da tanto mistero. Per essersi avventurata nel bosco con quel tempaccio – si disse – doveva essere successo qualcosa di davvero grave.
La ragazza tirò su con il naso e Yasha si accorse che aveva gli occhi rossi. Si affrettò a offrirle un fazzoletto, che lei prese, asciugandosi le guance.
«Non posso più farlo» disse infine Phoebe, appoggiandosi al tavolo e guardando intensamente il suo interlocutore.
Il diciannovenne inarcò un sopracciglio. «Non puoi più fare cosa?»
«Il mio… lavoro». Phoebe aveva la voce rotta dal pianto, mentre spiegava. «Sono scappata via da un cliente, e ultimamente non riesco più a lavorare come si deve. Ma io ne ho bisogno, cavolo, devo farlo per mio fratello!»
Si prese la testa tra le mani, passandole tra i capelli bagnati. Yasha si avvicinò, posando le sue palme sulla testa della ragazza e spostandole le mani dal capo.
«Hai paura per quello che è successo l’altra volta? Intendo, quella storia dell’uomo che stava per stuprarti». Phoebe scosse la testa in segno di diniego, grattandosi il naso.
«No». Stette zitta un attimo, sospirando. «È per te. Da quando ti ho conosciuto non riesco più a fare il mio lavoro. Mi sembra di tradirti».
Accadde tutto in un attimo. Phoebe si alzò in punta di piedi, avvicinando il suo volto a quello del ragazzo e portando le sue braccia dietro al collo di Yasha. Il diciannovenne sentì i battiti cardiaci aumentare, mentre Phoebe appoggiava le sue labbra sulle sue. Yasha chiuse gli occhi, sentendo che era la cosa più giusta da fare e circondò la vita della diciottenne con le braccia.
Quel contatto gli piacque. Si scoprì affamato di certe cose, capì che quel contatto umano che tanto aveva evitato negli anni gli piaceva, lo voleva, lo bramava. Desiderava sentire le labbra di Phoebe sulle sue, il suo profumo inebriargli le narici, i suoi capelli castani solleticargli il volto. Voleva che non finisse mai, che potesse restare lì per sempre, aggrappato a lei come se fosse la sua salvezza – perché, Yasha lo sapeva, Phoebe lo aveva salvato dal baratro di oscura solitudine in cui era piombato dopo la morte di sua sorella e sua nonna, gli aveva preso la mano mostrandogli un nuovo mondo.
Mentre approfondivano quel bacio che entrambi avevano voluto, Yasha si disse che, dopotutto, la sua esistenza non sarebbe stata quella di un numero primo solitario.
L’ultima cosa a cui pensò fu che presto un nuovo numero si sarebbe inserito nella sua stramba lista – quella in cui ad ogni numero affiancava un avvenimento importante della sua vita.
Diciannove: come l’età in cui si era innamorato per la prima volta. 



 

 


Alaska's corner

Pace, amore e biscotti.
Ritorno a rompere le scatole con i miei OC perché era da un po' che volevo scrivere questa storia, dato che a Yasha tengo parecchio e mi ispira continuamente nuove storie. 
Non ho molto da dire su questa storia, le cose più importanti le ho dette all'inizio. Ho paura che sia venuta fuori una roba troppo zuccherosa e non mi gusta perché io adoro le storie angst. >.<
Btw, il titolo l'ho preso da La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano che - detto tra noi - non mi è piaciuto nemmeno troppo, però la frase sui numeri primi mi faceva pensare a Yasha. Diciamo che la base della storia è carina, ma proprio non mi piace come scrive Giordano, il suo stile non mi entusiasma.
Phoebe è dislessica perché ho scoperto che lo era anche Kaya Scodelario [ la sua pv, nda ], quindi ho trasferito questa sua caratteristica al personaggio. 
Spero vi sia piaciuta!
Alla prossima,
Alaska. ~ 
   
 
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