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Autore: Hermione Weasley    07/09/2014    4 recensioni
Lei è in fuga da se stessa. A lui sono stati offerti due milioni di dollari per ucciderla. Ma le mire di qualcun altro, deciso a riunire sei persone che non hanno più niente da perdere, manderanno all'aria i loro piani.
-
“Chi cazzo è questo idiota?” Blaterò qualcuno.
“Un forestiere!” Decise un altro.
“Che razza di accento era quello?” Indagò un terzo.
Si sentì spingere bruscamente verso l'arena, senza poter far granché a riguardo. Quando le fu ad un misero metro di distanza, tra le grida che si alzavano dal gruppo, fu la voce bassa e pacata della donna a sovrastare tutte le altre.
“E' l'uomo che mi ucciderà.”

[Clint x Natasha + Avengers] [Dark!AU] [Completa]
Genere: Azione, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Qualche coordinata su questa storia: si tratta di un AU "umanizzato" (dettaglio che non vale per Clint e Natasha in particolare, ma per altri personaggi sì) in cui i nostri eroi non sono eroici e non se la passano granché bene. I protagonisti sono sempre Clint e Natasha (che si scambiano i punti di vista), ma più o meno tutti i sei del gruppo averanno il loro spazio e la storia riguarda tutti loro. Sono 20 capitoli in tutto, già scritti... quindi a meno che non mi prenda una tegola in capo, si concluderà (prima o poi). (Ah e, sì, ultimamente sto vivendo la mia fase Avengers + AC/DC, in perfetto stile Tony Stark :P)
Altre note in fondo al capitolo insieme ad una sorpresa :D
Buona lettura!


Disclaimer: nessuno di questi personaggi mi appartiene, ma sono di proprietà di Marvel & Disney. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.


Ride On

 

Ride on, one of these days I'm gonna
Ride on, change my evil ways
Till then I'll just keep ridin' on
But I ain't too young to realize
That I ain't too old to try
Try to get back to the start
And it's another redlight nightmare
Another redlight street
And I ain't too old to hurry
Cause I ain't too old to die
But I sure am hard to beat

(AC/DC – Ride On)

 

 

- Capitolo 1 -

 

 

San Paolo, Brasile

 

Se chiudeva gli occhi riusciva ancora ad immaginarsi il rogo... le fiamme che si levavano fino al cielo a lambire alte nubi di fumo nero. L'aria pesante, densa ed irrespirabile. Non c'erano solo resti di letti, muri, macchinari, a sollevarsi insieme ai turbinii del fuoco. Oh, no. C'erano anche e soprattutto ceneri umane.

Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire le urla risuonarle nelle orecchie. Acute e strazianti, le erano scese lungo l'esofago, quasi le avesse bevute, un amaro sorso dopo l'altro.

Se chiudeva gli occhi poteva ancora vedere le sagome di fuoco dei disperati che si lanciavano giù dalle finestre, desiderosi di trovare una via d'uscita, una qualsiasi via d'uscita al tumulo di fiamme e macerie che sarebbe ben presto diventato la loro tomba.

Ma non aveva bisogno di chiudere gli occhi per ricordarsi come si era sentita, come l'odore di carne bruciata le avesse improvvisamente restituito lucidità: la consapevolezza di aver appena ucciso in un unico colpo tutta quella gente, le si depositò sul petto come un macigno.

Non aveva voluto farlo, ma Ivan non le aveva lasciato altra scelta: non c'era mai nessuna alternativa possibile quando si trattava dei suoi ordini. Andavano eseguiti alla perfezione, mai contestati e di certo mai sovvertiti, per nessuna ragione al mondo. Ivan aveva un modo tutto suo di convincerla a fare ciò che c'era da fare: sapeva essere dannatamente persuasivo quando ci si metteva. Natasha non riusciva mai a dirgli di no: era suo padre, l'uomo che l'aveva cresciuta, la persona grazie alla quale non era mai affamata, mai sola, ma in preda al bisogno di qualcosa di irraggiungibile. Ivan era tutto per lei... o almeno così le aveva insegnato a credere.

Le mancavano i tempi in cui si si erano occupati di piccoli furtarelli e semplici raggiri, giusto per andare avanti, assicurarsi di avere lo stomaco pieno almeno fino all'alba successiva. Erano stati quelli la prima, vera parte del suo addestramento. Innocue inezie. Ma da quelle irrilevanti rapine, era passata a lavori un po' più complicati: recupero di informazioni, di segreti, opere di convincimento estremamente persuasive... non erano passati che cinque anni da quando Ivan l'aveva ritenuta pronta a lavori di ben altro tipo. Mesi e mesi in cui non aveva fatto altro che inseguire, raggirare, uccidere. Sconosciuti. Per conto di chi o perché, non lo sapeva. All'inizio aveva creduto che Ivan lo facesse per sé, per regolare chissà che conto in sospeso. Ma poi, col passare del tempo, aveva capito che si trattava di mandanti esterni: uomini e donne che lo pagavano affinché mettesse sua figlia all'opera. Un vero talento, una bambina prodigio cresciuta per essere un'arma a tutti gli effetti: lui, l'unico capace di maneggiarla. Dopotutto non era stato forse lui a temprarla, plasmarla, forgiarla nel fuoco di tanti e tali peccati?

Ma adesso... il disagio che le stava crescendo nello stomaco non sembrava volerle dare tregua. Un dolore sordo che pulsava lentamente, ingrandendosi con ogni secondo che passava. Aveva provato sensi di colpa anche prima di quel giorno, ma mai così violentemente, mai tanto chiaramente. Mai era stata sul punto di sentirsi sull'orlo di un baratro così profondo: l'acqua alla gola, il respiro a mozzarlesi in petto, come se un mare nero – rosso – la stesse sommergendo, rischiando di farla annegare una volta per tutte. Stavolta, convincersi che non c'era alcun motivo per cui non avrebbe dovuto porre fine alla vita di una persona, che nessuna forza divina sarebbe arrivata ad abbattersi su di lei, era stato praticamente impossibile. L'illusione non funzionava più.

Neanche riusciva a respirare per bene: per un attimo, mentre era rimasta ad osservare il rogo che aveva concluso la sua ennesima missione, aveva seriamente creduto che sarebbe morta soffocata insieme a tutte le sue vittime. Una parte di lei, quella che odiava Ivan con tutta se stessa, che recalcitrava ogni qual volta l'uomo le assegnava un nuovo compito, ci tenne a ricordarle che se lo meritava. Credeva seriamente di poter seminare morte e distruzione solo perché suo padre le aveva detto di farlo?

Ma qualcosa di più forte l'aveva aiutata a trascinarsi lontano da quel caos: si era fatta strada tra folle di curiosi impauriti, tra i vigili del fuoco sopraggiunti con troppo ritardo insieme alle forze dell'ordine, si era mescolata alla gente comune, dileguandosi tra le strade polverose di San Paolo. Un'ombra tra le tante.

 

Riaprì gli occhi sulle complicate decorazioni della Cattedrale Metropolitana Ortodossa. La luce del tardo pomeriggio filtrava attraverso le finestre delle navate laterali, proiettando solitari fasci di pulviscolo sul pavimento grigio. Erano stati dei passi in avvicinamento a destarla dai suoi pensieri. Non ebbe il tempo di formularne uno di più, che Ivan le si sedette pesantemente di fianco sulla panca centrale che aveva occupato in quell'ultima mezz'ora. Quale luogo migliore di una chiesa per riflettere sui propri peccati?

L'uomo finse di inginocchiarsi, di pronunciare un paio di rapide preghiere prima di decidersi a prestarle una seppur discreta attenzione.

“Ottimo lavoro,” si voltò per lanciarle un'occhiata indecifrabile, “ce ne andiamo di qui questa sera stessa.”

Natasha non rispose, limitandosi piuttosto a fissare il fondo della cattedrale, il sontuoso e opulento lampadario che pendeva sopra le loro teste come una spada di Damocle.

“Che c'è? Non sei contenta, bambina?” Ivan le strinse affettuosamente un ginocchio, cercando di scrollarla da quel torpore che pareva essersi impossessato di lei.

“Perché?” La domanda che aveva trattenuto fino a quell'istante le sgorgò dalle labbra con un'urgenza che ebbe il potere di sorprendere lei stessa.

“Perché cosa?”

“Perché tutta quella gente?”

Ogni traccia di soddisfazione svanì dal volto di Ivan: non era affatto contento della piega che aveva preso la discussione. Natasha conosceva le sue espressioni a memoria, sapeva che, a quella che stava sfoggiando in quel particolare istante, non sarebbe seguito niente di buono, non per lei almeno.

“Non devi fare domande, Natalia.”

“No, giusto. Devo solo uccidere,” il sarcasmo prese forma nella sua voce senza che potesse far molto a riguardo.

“Non dirlo con quel tono. Dovresti essere grata del fat-”

“Del fatto che ci sia tu a prenderti cura di me, lo so.”

“Non accetto ingratitudine, bambina.”

“Non sono ingrata. Sono adulta ormai. Ho compiuto venticinque anni. Posso... p-posso...”

“Cosa? Cavartela da sola?” Ivan rilasciò una risata sgradevole, una di quelle che aveva il potere di farle male più di qualsiasi mortificazione corporale avesse potuto escogitare.

“Sì,” si ostinò a precisare, distogliendo rapidamente lo sguardo.

“Non puoi stare per conto tuo, Natalia. Sei ancora una ragazzina.”

“Non è vero,” osò contraddirlo ancora, nonostante il terrore minacciasse di prendere il sopravvento, benché fosse del tutto consapevole che non si sarebbe guadagnata altro che ulteriori punizioni.

“Lo sei... sei una ragazzetta stupida la cui unica risorsa è il suo povero padre.”

“Non sono stupida.”

“Sì che sei stupida. E lo saresti molto di più se non ti avessi insegnato tutto quello che sai. E' a me che devi tutto, Natalia.”

“Non sei nemmeno il mio vero padre,” l'accusò in un sibilo. Ivan strabuzzò gli occhi, le guance rugose improvvisamente tirate dall'indignazione più acuta.

“Cos'è che hai detto?” L'afferrò malamente per i capelli, tirandoglieli fino a farle male, costringendola a piegare il capo all'indietro contro la schienale della panca.

“Ho detto...,” Natasha si umettò le labbra, ignorando il battito impazzito del proprio cuore, la paura che prometteva di toglierle il respiro e la ragione da un momento all'altro. “Ho detto che non sei nemmeno il mio vero padre.”

“Brutta puttanella.” Il manrovescio la colpì in pieno volto. Il dolore si riverberò dalla mandibola al alla bocca, al naso... ben presto sentì il sapore del sangue sulla lingua. “Vuoi ripeterlo un'altra volta?”

“Non sei nemmeno il mio... vero padre,” ripeté in tono di sfida, serrando i pugni per impedirsi una qualsiasi reazione inconsulta. Ivan non si fece alcun problema di sorta, colpendola di nuovo, più forte. Il contatto violento pelle contro pelle, risuonò sinistramente tra le pareti della chiesa deserta.

“Stasera ce ne andiamo, come pianificato,” stabilì seccamente, senza lasciarla andare. Con la mano libera estrasse una siringa incappucciata dalla tasca interna della sua giacca. La vista dell'ago le scatenò l'ennesimo attacco di panico. No... non di nuovo. Non di nuovo. Ti prego, ti prego, ti prego.

“E lo sai che cosa succede alle bambine che non obbediscono?”

“T-Ti prego... ti prego non lo fare,” supplicò a mezza voce, facendo fatica a controllarne il volume.

“Mi dispiace Natalia, sei andata troppo oltre stavolta.” Tolse il cappuccio dalla siringa servendosi della bocca, sputandolo a terra senza troppe cerimonie. “Sta' ferma.”

“No,” le ci volle tutto il suo autocontrollo per smozzicare quell'unica, misera sillaba. Tutto il corpo contratto per la paura, i muscoli tesi e i nervi annodati su loro stessi ad impedirle di muoversi... Ivan non aveva neppure bisogno di immobilizzarla per fare di lei ciò che voleva. Perché avrebbe dovuto usare catene reali quando si era tanto impegnato ad imprigionarla a livello mentale?

“Ho detto: sta' ferma,” ribadì, avvicinandole l'ago al collo, là dove era solito iniettarle quel maledetto intruglio con cui l'aveva minacciata sin da piccola. Confusione, mal di testa, capogiri, idee estranee che le frullavano per la testa, che non le permettevano di decidere cose fosse suo e cosa no, cosa fosse successo realmente e cosa soltanto un'illusione.

Non voleva sentirsi così.

Non voleva dimenticarsi dell'incendio dell'ospedale.

“NO!” L'istinto prese il sopravvento per la prima vera volta in tutta la sua vita. Gli afferrò il polso, stringendo bruscamente per impedirgli di avvicinarla oltre.

“Natalia, non farmi... arrabbiare,” biascicò rosso in volto e sotto sforzo nel tentativo di contrastare la sua forza.

“S-Stavolta no... s-stavolta non lo farai.”

“Non s-sei tu che decidi.”

“Invece... s-sì.”

Durò solo un'istante: la mossa le venne naturale come il respiro. La lama del piccolo coltello che teneva sempre con sé – un regalo di Ivan per il suo tredicesimo compleanno – affondò nella carne appena sotto la sua ascella, quasi fosse stata di burro. Natasha si ritrovò a fissare gli occhi sgranati e confusi del suo protettore, padre, padrone... carceriere.

“N-Natalia... N-Natalia che hai f-fatto... ?” Si assicurò di fargli mollare la siringa prima di azzardare un qualsiasi ulteriore movimento.

“A-Adesso basta,” esalò in risposta. Estrasse il coltello e lo colpì di nuovo, stavolta con più foga.

“Natasha...,” l'aria aveva cominciato ad uscirgli di bocca in modo strano, come se non fosse più stato capace di respirare correttamente.

“Adesso basta,” fu tutto quello che riuscì a ripetere prima di completare l'opera con la terza e ultima coltellata. Le toccò abbandonare l'arma e allontanarsi per non cedere alla tentazione di ferirlo altre dieci, cento, mille volte: un odio nuovo, cocente e totalizzante aveva cominciato a farsi strada nel suo petto. Un odio sopito per troppi anni, covato inconsapevolmente, tra carezze, schiaffi e violenze psicologiche di ogni tipo. Barcollò all'indietro, sorreggendosi con le mani ben piantate sugli schienali di due panche vicine. Non smise di guardarlo mentre tentava pateticamente di pronunciare il suo nome, il sangue a scendergli copioso lungo il fianco, a macchiargli i vestiti, le mani.

Avrebbe voluto aspettare finché non avesse esalato il suo ultimo respiro, ma un rumore dal fondo della chiesa le suggerì che era meglio andarsene prima di essere scoperta.

“Me la caverò da sola, Ivan,” asserì, più per convincere se stessa che lui. Annuì tra sé, come a decretare la fine di quella conversazione, dopodiché girò sui tacchi e si diresse a passo spedito, ma naturale, verso una delle uscite laterali.

La luce morente del giorno la investì senza riscaldarla. L'euforia dell'indipendenza appena conquistata non durò a lungo, anzi, non durò affatto. Le bastò muovere un paio di passi, immettersi di nuovo tra le gente, fingere di essere una persona normale, per convincersi di aver appena commesso il più grave errore della sua vita.

Forse Ivan aveva ragione: forse non poteva sopravvivere da sola. Che avrebbe fatto senza di lui? Come si sarebbe mantenuta? Come sarebbe uscita dal paese... con quali soldi?

Dovette far ricorso al folto bagaglio del suo addestramento per mantenere una seppur minima parvenza di calma. Fece l'unica cosa che era capace di fare: eseguire degli ordini. Anche se stavolta non c'era nessuno ad impartirglieli, se non lei stessa.

 

*

 

36 ore dopo

Waverly, Iowa

 

“Sto cercando Hawkeye.”

La voce della donna lo raggiunse fin sotto il pick-up del quale si stava occupando, costringendolo a rallentare i propri movimenti e a tendere le orecchie (o almeno quello che gli funzionava) per rimanere in ascolto.

“Hawkeye?” Riuscì a percepire l'indecisione nella voce del vecchio Buck. Se l'immaginò mentre squadrava la sconosciuta da capo a piedi con aria valutativa, impegnato a decidere se ci si potesse fidare o meno. Trattenne il respiro per un paio di secondi...

“Ehi, uccellaccio.” Con la sua voce raschiante, lo informò che aveva preso la sua decisione: la donna pareva un tipo a posto. Clint riemerse dalla sua prigione di metallo e ferraglia, rimettendosi in piedi con tutta la calma del mondo. Recuperò uno straccio abbandonato sul bancone dell'officina per pulirsi le mani sporche d'olio, lanciando uno sguardo in tralice alla nuova arrivata: una donna bianca. Ad occhio e croce doveva avere tra i trenta e i quarant'anni. Indossava un tailleur blu cobalto che non si addiceva granché all'atmosfera che vigeva indiscussa nell'autorimessa: un diamante precocemente avvizzito in una discarica.

“Non qui,” fu tutto quello che le disse prima di farle cenno di seguirlo sul retro, nell'ufficio di Buck (che di un ufficio, per la cronaca, aveva ben poco). La invitò ad accomodarsi, ma la donna rifiutò educatamente con un impercettibile movimento della mano sinistra.

“Le dispiace se fumo?” Tirò fuori un pacchetto mezzo schiacciato dalla tasca della tuta da lavoro, aspettando il via libera della sua ospite per estrarre una sigaretta, sistemarsela tra le labbra e accenderla con un accendino recuperato dalla scrivania del principale. Aveva scoperto che i suoi clienti tendevano a rilassarsi di più se lo affrontavano mentre era impegnato in una qualche operazione: se riparare un motore o fumarsi una sigaretta non aveva grande importanza.

Ad uno sguardo più attento, la donna gli parve molto più giovane dell'età che dimostrava. Un'espressione vacua ben annidata nei suoi occhi, rughe marcate sulla fronte e intorno alla bocca. Qualcosa – o qualcuno – doveva averla fatta invecchiare prima del suo tempo.

“Chi le ha parlato di me?”

“Jimmy.” La sconosciuta aveva una voce fredda e stridente, un pesante accento dell'est Europa ad indurire ogni suono.

“Jimmy cosa?”

“Jimmy Klein.”

“Oh. Jimmy,” annuì tra sé. Il signor Klein era un povero stronzo per cui aveva portato a termine un paio di lavoretti: pessimo individuo che, a sua discolpa, non aveva mai grosse pretese e in più pagava bene.

“Cosa posso fare per lei?”

La donna parve esitare. Inspirò a fondo, aggrappandosi con entrambe le mani al manico della borsa che portava alla spalla, come se da quello dipendesse il suo già precario equilibrio. Clint si limitò ad osservarla, dandole tutto il tempo e lo spazio per abbandonare il campo se ne avesse sentito il bisogno: non era certo la prima volta che un cliente si rendeva improvvisamente conto che contattarlo era stata una pessima idea. Un leggero sussulto le animò le guance. Solo allora si accorse della rabbia che si celava dietro il suo sguardo assente.

“Voglio che uccida una persona.”

Clint fece una smorfia, soffiando il fumo nell'aria. “Ha presente il cartone animato Aladdin?”

“Non...”

“Il genio può esaudire qualsiasi desiderio tranne: far innamorare, resuscitare i morti e... uccidere.” Le rivolse un sorriso cordiale che la donna non sembrò registrare.

“Per favore.”

“No, mi dispiace. Posso rubare per lei, spiare per lei... ma non uccidere.” Ho già abbastanza problemi e conti in sospeso senza mettermi pure ad accoppare gente a caso.

La sconosciuta restò immobile a fissarlo, dandogli di nuovo l'impressione che stesse per esplodere da un momento all'altro. Ad urlare o piangere o entrambe le cose.

Non fece nessuna delle due, optando piuttosto per ripescare qualcosa dalla sua borsa. Prima che potesse capire come e perché, la donna gli tese una fotografia: uno scatto sgranato, a colori, che ritraeva una giovane donna. L'unico dettaglio veramente visibile, una massa ondeggiante di lunghi capelli rossi. Una sensazione familiare gli riempì lo stomaco, come ad obbligarlo a prendere atto di un'informazione importante. Mise in moto il cervello, lasciando che facesse i dovuti collegamenti prima di approdare ad una qualche conclusione. Io questa la conosco.

“Ha ucciso mia figlia.” Fu tutto quello che la sconosciuta aggiunse prima di riserrare le labbra in un'unica linea sottile. “La chiamano Black Widow.”

Clint sbuffò una mezza risata al nomignolo, nonostante trovasse la situazione tutto fuorché divertente. Certo, la foto non era esattamente un modello di chiarezza, eppure ne era sicuro: si era già imbattuto in quella donna. Come avrebbe potuto dimenticarla? Si era assicurata di rubargli tutto il ricavato di un complicato lavoro che aveva portato a termine per conto di un ricco (e sinistro) banchiere di San Francisco qualche anno prima. Ricordava con sconcertante chiarezza il momento in cui aveva finto di andargli dosso per sbaglio con quella sua espressione da cucciolo smarrito. Le aveva dato delle dritte su come raggiungere la stazione ferroviaria più vicina e poi l'aveva guardata allontanarsi in solitaria. Erano i suoi occhi, verdi e spauriti, che gli si erano impressi nella mente. Quelli e il rosso accecante dei suoi capelli. Solo quando fu ritornato in albergo si era accorto di essere stato derubato. Il ladro provetto che si era lasciato fottere in quel modo da una ragazzina, come un dannato principiante... si era maledetto per giorni, settimane, mesi. Diecimila bigliettoni evaporati, così, in un batter d'occhio e alla luce del sole perché non aveva dato la dovuta importanza ad un'adolescente dall'aria innocua. Dopo quel giorno, si era solennemente ripromesso di non lasciarsi mai più ingannare dalle apparenze.

“Perché ha ucciso sua figlia?” Si decise infine a chiederle, restituendole la fotografia.

“Per vendicarsi di mio marito, suppongo.”

“Suppone?”

“Mia figlia aveva solo due anni,” ribatté con freddezza, trattenendo a stento la furia che aveva cancellato ogni traccia di colore dal suo volto impallidito.

Una morsa gelida gli strinse lo stomaco, ma neanche quella fu abbastanza per convincerlo ad accettare. La donna sembrò percepire la sua incertezza: non esitò ad approfittare dell'opportunità che le si era improvvisamente presentata, capendo che era quello il momento per insistere.

“L'ultima volta è stata avvistata a San Paolo, in Brasile,” lo mise al corrente. “Ha sicuramente sentito parlare dell'incendio all'ospedale...”

Eccome se ne aveva sentito parlare: pure per uno come lui che leggeva solo sporadicamente i quotidiani e che evitava il telegiornale come la peste, era stato impossibile sfuggire a quella particolare informazione. Un intero ospedale statale dato alle fiamme: le stime dei morti erano state impietose, i superstiti pochi, gli indenni ancora meno.

Ricambiò l'occhiata della donna e annuì.

“Secondo i miei informatori, si sta accingendo a rientrare negli Stati Uniti.”

“Dove?”

“Arizona,” rispose prontamente, tirando fuori una busta da lettera dalla borsa che portava ancora al braccio. “Qui ci sono biglietti aerei di andata e ritorno, insieme ad una carta di credito con la quale avrà accesso ad un fondo di cinquantamila dollari. Se gliene servissero di più, non dovrà far altro che infor-”

“Le ho detto che non uccido nessuno,” la interruppe, più che deciso a mettere le cose in chiaro.

“Due milioni.”

“Due milioni?”

“E' la cifra che le pagherò per aver tolto di mezzo quel... q-quel mostro.” La voce le aveva ceduto un poco sul finale, così come la complicata maschera che si stava sforzando in ogni modo di mantenere. “Un milione adesso, un milione a cose finite.”

Ora... Clint non si sarebbe mai preso per un tipo avido di denaro. Conduceva una vita semplice, riparava motori di giorno, giocava a biliardo o freccette e beveva birra la sera, da solo o in compagnia. Certo, a scadenze regolari tentava di inserire questo o quel lavoretto, giusto per togliersi qualche sfizio, tenersi in allenamento, evitare di affogare nel tran tran quotidiano, crearsi qualche occasione per utilizzare il suo arco. Ma due milioni di dollari potevano cambiare ogni cosa: comprarsi un appartamento decente in un luogo che non fosse quel cesso di Waverly, Iowa; smettere di sporcarsi le mani (letteralmente e metaforicamente), ricominciare da capo.

“La prego, signor... Hawkeye.” La donna si sporse verso di lui, uno sguardo implorante sul volto e una supplica nella voce. Gli afferrò una mano con entrambe le sue, affusolate e fredde come il marmo. “Mi aiuti a vendicare la morte della mia bambina.”

Si ritrovò a guardare nei suoi occhi, improvvisamente accesi di una nuova, implacabile luce. Conosceva fin troppo bene la sensazione che gli stava riempiendo lo stomaco: stava per cedere. Porca puttana.

Tentò di ignorare la confusione che rischiava di ottenebrargli il cervello, valutando i pro e i contro. A favore della sconosciuta c'era che la fantomatica Black Widow gli doveva già diecimila dollari, che era una pazza priva di scrupoli che ammazzava bambini in fasce e che dava fuoco agli ospedali... il mondo sarebbe stato un posto migliore se l'avesse tolta di mezzo, no? E poi c'era quel particolare non irrilevante dei due milioni di dollari. Tutte le spese per la missione coperte: spostamenti, attrezzatura, cibo e chissà che altro; era sicuro che avrebbe potuto inserirci anche qualche extra.

Di contro c'era che non aveva mai (volontariamente) ammazzato proprio nessuno.

Le dita gelide della donna sembravano scavare tunnel di ghiaccio nella sua pelle. I pensieri presero a susseguirsi sempre più rapidamente nella sua testa, motivazioni, alternative, una stronzata dopo l'altra...

“Va bene.” Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse impedirselo. Ignorò la pessima sensazione che gli invase lo stomaco quando ebbe metabolizzato ciò che aveva appena detto. Il sollievo distese le rughe del viso della sconosciuta, ma solo per un misero istante. La facciata di ferrea indifferenza tornò al suo posto, gli occhi – inumiditisi solo qualche attimo prima – di nuovo aridi ed apatici.

“Parte questa sera stessa.” Clint fece per ribattere, ma vista l'entità del compenso, decise che era meglio starsene zitto. “Qui ci sono tutte le informazioni di cui disponiamo,” gli passò una grossa busta giallognola, di quelle che si usano per i documenti confidenziali. “I biglietti aerei e la carta,” gli ricordò, insistendo affinché prendesse anche quelli, “e i soldi li ho in macchina. Vado a prenderli.”

Clint annuì, affrettandosi a spegnere la sigaretta nel portacenere per raccogliere tutto il materiale con cui la donna lo stava sobbarcando. La seguì fuori dall'ufficio di Buck, facendo fatica a tenere il passo. Si fermò nel bel mezzo dell'autorimessa, guardandola mentre si affrettava intorno alla sua macchina parcheggiata sul marciapiede, leggermente discostata rispetto all'ingresso.

“Barton,” la voce gracchiante di Buck lo fece sussultare. “Problemi?”

“Nessuno, ma starò via per un po'.” Il vecchio puntò i suoi minuscoli occhi acquosi nei suoi, come per comunicargli chissà che avvertimento. Grazie al cielo non era uno di molte parole e – il più delle volte – preferiva starsene zitto che impartire sagge lezioni di vita. Era per questo che Clint gli voleva bene.

“Cerca di non metterti nei guai.”

“Quando mai?”

“Che dannato stronzo che sei,” biascicò, sputacchiando a terra prima di ricordarsi di qualcosa. “Ah, è arrivato quel coso per te stamattina.” Gli indicò un pacco postale abbandonato accanto ad una cassetta degli attrezzi.

“Di chi è?”

“Non ne ho idea. Non c'è il mittente.”

“Okay,” la donna era di ritorno.“Grazie, Buck.” Si affrettò a congedarsi per raggiungere la nuova cliente.

“Qui c'è la prima parte,” gli consegnò la valigetta che aveva recuperato dalla sua automobile, “potrà controllarla non appena me ne sarò andata. Insieme ai biglietti aerei troverà tutte le informazioni che le servono per contattarmi. Questo è un cellulare prepagato: lo usi se ci sono problemi con i soldi.” Il telefono fu l'ultima cosa ad aggiungersi alla mole di oggetti che la donna gli aveva scaricato addosso.

“Ricevuto.”

“Ah e... vorrei ricevere aggiornamenti almeno ogni quarantotto ore.”

“Ce ne vorranno molte meno,” le assicurò con un tronfio sorriso di cui si pentì immediamente.

“Lo spero per lei,” asserì. “Non la sottovaluti. Quella donna è violenta e astuta... non risponde a nessun dio.” Nessun sano di mente lo fa.

“Allora ci risentiamo tra quarantotto ore, signora...”

“Drakov. Elizaveta Drakov.”


__________________________________________

Note:
Taaaanti ringraziamenti alla socia/beta/partnerincrime/compagnadimanicomio/ecc. Eli, perché non solo ha betato la storia, ma ha anche prodotto due magnifiche fanart ispirate :') che sono bellissime T__T grazie Eli :*

 
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Per tutto il resto, grazie per essere arrivati fin qui e al prossimo capitolo :3
S.
  
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