Buongiorno!
Di
solito non scrivo presentazioni o note dell'autore, ma in questo caso
è doveroso, necessario persino. Perché questa
fanfic è un delirio notturno e, ultimamente, i miei deliri
notturni stanno diventando oneshot. Perché non so se ha
senso, ma la pubblico lo stesso (e chiedo perdono ancora prima che la
leggiate). Ma soprattutto la nota dell'autore in questo caso
è necessaria perché questa FF la dedico ad Ida
che ha letto i miei deliri alle due di notte e non mi ha mandato a quel
paese, Ida che ha appena pubblicato il primo capitolo della sua
fanfiction (che è dieci volte meglio di questa roba che
c'è qui sotto) e che è stata così
gentile da chiedere il mio modesto parere. Quindi la ringrazio
così, dedicandole la mia follia Johnlockiana.
(E andate a leggere la sua FF che s'intitola When Time and Flames Ignite, perché merita. Tantissimo.)
Faceva
freddo e non c'era nessuno nella
stanza buia in cui era costretto da un paio di giorni.
C'erano
i muri. Quattro. Grigio scuro.
C'era una porta sul lato sinistro che s'intravedeva a malapena
nell'oscurità.
Se non fosse stato per quel lucernario sul lato destro, la stanza
sarebbe stata
completamente nera. E, pensava un po' sconsolato, il nero totale
sarebbe stato
meglio. Perché in quel crepitio di luce bianca-neon-ospedale
che proveniva dal
corridoio esterno i pensieri si
riuscivano a vedere. E se ci fosse stato buio, forse, non si sarebbero
visti.
C'era
stato un tempo a cui lui a queste
cose non pensava, perché la sua mente aveva ben altro su cui
concentrarsi. Non
aveva problemi a chiudere tutto fuori, a cancellare le informazioni non
importanti, a dimenticare ciò che voleva dimenticare. Gli
era sempre riuscito
alla perfezione. Era talmente semplice da sembrare quasi banale, eppure
lui
sapeva che era l'unico in grado di farlo.
Era un
procedimento talmente banale che
si era stupito la prima volta che aveva capito che per le altre persone
non
funzionava come per lui. Gli altri non dimenticavano a comando. Lo
aveva
scoperto a sei anni e lo aveva turbato.
Ma
adesso non ci riusciva più. Avrebbe dato
qualsiasi cosa per poter tornare indietro al momento in cui era ancora
in grado
di fare quel piccolo trucchetto magico. Soprattutto in quel momento,
soprattutto in quella stanza, soprattutto in quella notte. Che era
uguale a
tutte le altre notti dell'ultimo anno, se tentava di ragionarci sopra.
Ma non
aveva voglia di ragionarci, perché se lo avesse fatto, i
pensieri che già lo
perseguitavano lo avrebbero divorato.
Erano
un mostro immenso quei pensieri, fatto di ricordi
stupidi, minuscoli, idioti. Cose che non avrebbero dovuto neanche
lontanamente
toccarlo. Ed invece erano lì, nella loro dimensione
infinitesimale e
gargantuesca. Un mostro. Un mostro che non era più un grado
di fermare, perché,
stupidamente, lo aveva appena liberato dalla catena che lo tratteneva.
E
c'era il tè sul tavolo la mattina.
E non andava bene che ci fosse, perché in
quella stanza vuota, grigia e oscura non c'era alcuna tazza di
tè.
E
c'era un orribile maglione rosso sfatto
sul bracciolo del divano.
E non andava bene che ci fosse, perché in
quel buco nero con la luce al neon e il suo crepitio non c'era alcun
maglione
rosso.
E
c'era un libro con la copertina
sgualcita appoggiato sulla sedia.
E non andava bene che ci fosse, perché
tra quelle quattro mura con l'umidità che colava dal
soffitto non c'era alcun
libro con la copertina sgualcita.
Il
mostro lo inghiottiva lentamente,
ricordo dopo ricordo, immagine che seguiva immagine. Una tortura tanto
semplice
quanto efficace. Se i suoi carcerieri avessero compreso quanto fosse
semplice,
dopotutto, fiaccare la sua volontà, farlo capitolare!
Bastava immergerlo in
quelle piccole vignette di quotidianità. Se solo lo avessero
saputo.
Non
poteva cancellare tutto quello. Non
riusciva. E continuava a desiderare di cadere nell'oblio e che quei
ricordi
sparissero.
E
faceva freddo e non c'era nessuno nella
stanza buia.
E
Sherlock era lontano da casa. E John
non c'era. John. John era il ricordo che avrebbe voluto cancellare, che
non
voleva dimenticare, che conservava aggrappandovisi con tutta l'anima.
Perché lo
teneva in vita e lo faceva morire al tempo stesso. Non riusciva a
buttarlo nel
Vuoto. E faceva male perché John era lontano e lui lo voleva
vicino. E faceva
male perché John era tutto e lui era niente. E faceva male.
E non poteva
scartarlo. Perché John non si poteva semplicemente buttare
via. Non quando era
l'unica cosa che ti rimaneva in una cella oscura da qualche parte in
Yemen.
E non
importava quante volte ci avesse
provato, John non scompariva. Rimaneva lì. E John non si
meritava tutto quello.
Non si meritava di essere lì con lui in quella cella nera.
Non si meritava di
assistere agli orrori che lui aveva visto. Non si meritava lui. Che lo
aveva
abbandonato. Per salvargli la vita, vero, ma lo aveva lasciato solo. E
non era giusto
aver mentito a John. Non era giusto. E non era giusto usarlo come
conforto
nelle sue notti illuni, nelle sue giornate senza speranza, nei suoi
buchi neri.
Era
sempre stato così semplice. Chiudere
gli occhi. Primo. Andare nel proprio palazzo mentale. Secondo. Gettare
quello
che non si voleva nel Vuoto. Terzo. Semplice. E John era semplice. E
dannatamente complicato.
Infine
aveva smesso di volerlo gettare
via, capendo che era impossibile.
E
faceva freddo e non c'era nessuno in
quella stanza buia.
John.
Non c'era John. Se non nei suoi ricordi.
John.
La vita.
Perché John era vita.
Perché Sherlock era morte.
E Sherlock era solo.
Perché John non c'era.
Solo.
Quando
la porta della cella si aprì,
Sherlock diede una rapida occhiata al suo carceriere ed un fagotto
venne
gettato dentro. Era un insieme di stracci mal ridotti. Sherlock non
capì. Ma
gli stracci gemettero e Sherlock capì che non erano stracci.
E l'uomo sul
pavimento - occhi tumefatti, naso rotto, un'elevata perdita di sangue
dalla
bocca - trovò la forza di sorridergli.
"Sapevi
che sarei arrivato, che ti
avrei trovato, prima o poi. Non puoi cancellarmi, lo sai."
E
Sherlock capì che il John reale era
ancora più testardo di quello dentro la sua testa.
"Lo so."
Conclusione: volevo fare
un piccolo appunto. Questa oneshot potrebbe quasi essere considerata un
seguito di "Obvious", ma può essere anche letta a
sé stante. Vi applico sempre il rating giallo (e non verde)
perché, in qualche modo, c'è sempre un po' di
violenza di fondo, sia essa psicologica o reale, quindi mi trincero
dietro alla sicurezza del giallo.