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Autore: stereohearts    10/09/2014    2 recensioni
Michael Gordon Clifford non aveva nessuna certezza.
I suoi capelli cambiavano colore con una frequenza assurda, ma non era certo del vero motivo per il quale lo faceva.
I suoi occhi erano piccoli e di uno strano colore chiaro, quasi fossero trasparenti, ma non era certo di aver colto mai la loro vera pigmentazione.
Le sue dita, dopo i primi mesi, erano costantemente impregnate dello sgradevole odore del tabacco che fumava innumerevoli volte al giorno, ma non era certo se questo gli desse effettivamente davvero fastidio.
La sua pelle aveva un particolare tono cadaverico che tutti gli notavano, ma non era certo di esserci completamente a suo agio con quel colorito.
Il suo appartamento, così lo aveva classificato l’agente immobiliare quando gliene aveva parlato, lui preferiva chiamarlo topaia, ma non era certo, se si fosse presentata l’occasione, di riuscire ad abbandonarlo.
Il tatuaggio che troneggiava sul suo collo rappresentava un semplice e piccolo cuore, ma non era certo del significato che gli aveva attribuito quando gli si era presentata la geniale idea di farlo.
In effetti, l’unica certezza di Michael, era effettivamente quella di non averne affatto, di certezze, ma anche di questo si curava ben poco.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Subway boy.




 
O2:40 Am
Portland’s subway,  September 9th 2014
 
 
 

 
 

Michael Clifford sedeva su quel inutile pezzo di cemento che qualcuno aveva osato chiamare ‘panchina’  -  non curandosi della possibile sporcizia e le cartine delle caramelle che probabilmente lo stavano circondando - da un lasso di tempo abbastanza lungo da lasciare spazio, nel cielo, alle stelle, che lui continuava a non degnare di un solo fugace sguardo trovandole, da quando era un pargoletto, snervanti e poco interessanti. In effetti se lo era sempre chiesto cosa la gente ci trovasse di così particolare in quei minuscoli puntini tutti uguali, che poi così tanto minuscoli non lo erano, da riuscire a rimanere  immobili addirittura per interi minuti pur di osservarne chissà quale particolare caratteristica così entusiasmante, che al giovane doveva essere sicuramente sfuggita. Lui, invece, continuava a preferire di gran lunga le nuvole - che molto banalmente a chiunque avrebbero potuto ricordare lo zucchero filato o l’insieme di piume ammassate dentro la fodera del loro cuscino più morbido - ma la mente di Michael Clifford era tutt’altro che banale; a lui piuttosto le nuvole ricordavano  gli orìgami - che aveva anche imparato a fare ed  in modo egregio osava dire,  andando di nascosto a lezione dal carpentiere di madrelingua giapponese, che stanziava a qualche passo dalla vecchia casa d’infanzia nella quale abitava, e sul quale per sua fortuna aveva fatto sin da subito colpo convincendolo così ad accettare di averlo come allievo.
Nonostante le sue convinzioni, però, Michael non era mai riuscito a trovare la certezza che la visione di quei piccoli puntini bianchi nel cielo gli dessero così fastidio.
Michael Gordon Clifford,  in effetti,  ne aveva ben poche, se non nessuna, di certezze.
I suoi capelli cambiavano colore con una frequenza assurda, ma non era certo del vero motivo per il quale lo faceva.
I suoi occhi erano piccoli e di uno strano colore chiaro,  quasi fossero trasparenti,  ma non era certo di aver colto mai la loro vera pigmentazione.
Le sue dita, dopo i primi mesi, erano costantemente impregnate dello sgradevole odore del tabacco che fumava innumerevoli volte al giorno, ma non era certo se questo gli desse effettivamente davvero fastidio.
La sua pelle aveva un particolare tono cadaverico che tutti gli notavano, ma non era certo di esserci completamente a suo agio con quel colorito.
Il suo appartamento, così lo aveva classificato l’agente immobiliare quando gliene aveva parlato, lui preferiva chiamarlo topaia, ma non era certo - se si fosse presentata l’occasione - di riuscire ad abbandonarlo per un qualcosa di più sfarzoso e meno rude.
Il tatuaggio che troneggiava sul suo collo rappresentava un semplice e piccolo cuore, ma non era, di nuovo,  certo del significato che gli aveva attribuito quando gli si era presentata la geniale idea di farlo, all’età di sedici anni.
In effetti, l’unica certezza di Michael era sempre stata effettivamente quella di non averne affatto, di certezze, ma anche di questo si curava decisamente poco.
Quando una folata di vento più gelida delle altre si schiantò bruscamente contro il suo corpo immobile, coperto solo da una misera magliettina a maniche corte, di un tessuto terribilmente trasparente che solo a guardarlo venivano i brividi, Michael constatò che rimettere il cappello fosse una scelta decisamente più salutare per lui.
Affondò le mani candide in una delle tasche posteriori del pantalone che aveva indosso, il suo preferito, quello grigio, estraendone poco dopo un cappello di lana di una strana sfumatura di marrone che gli donava decisamente poco.
Strofinò velocemente le mani tra di loro, lasciando i palmi acquisire il calore necessario dovuto al movimento rigido degli arti, prima di spostarle sulle su cosce ed iniziare a farle lo stesso ed identico movimento precedente - trovando addirittura lo stesso ritmo - per infondere un po’ di calore in più anche al resto del suo corpo.
L’autunno sembrava fosse impaziente di fare la sua entrata in scena, nonostante l’estate non fosse ancora esattamente terminata.
Michael lanciò un’occhiata fuggente all’enorme orologio bianco che troneggiava su una delle tante colonne,dalle dimensioni quasi monolitiche, che affiancavano i binari facendo da sostegno all’intera struttura, notando con sorpresa che le lancette segnavano di già le tre e dieci di mattina.
Seppur contrariato si alzò da quell’insieme improbabile di cemento sul quale era stato seduto, sistemando sulla spalla il cappotto, ed iniziò a scivolare lentamente sulle scale giallastre che portavano verso l’uscita, beandosi della leggera ondata di calore che si infranse contro il suo corpo appena messo piede nella parte chiusa dell’edificio.
Michael trovava irritante anche l’autunno.


 
 
 
 



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03:10 Pm
Portland’s subway, September 20th  2014
 
 



Tutto, dell’affollata stazione di Portland, era dannatamente familiare agli occhi indagatori di Michael Clifford; molto più della sua minuscola e monotona vita racchiusa nella sua piccola e accogliente topaia in centro, o più che altro di ciò che ve ne rimaneva.
Anche la sigaretta, che era vicina allo spegnersi se non si fosse deciso a prenderne un altro tiro, gli faceva quello strano ed irritante effetto. Spostò l’oggetto affusolato alla mano sinistra, liberando l’altra così da essere in grado di stringere ulteriormente il nodo della lunga sciarpa marrone che gli avvolgeva il collo, e che come qualunque indumento di quello strano colore non gli donava per niente, sperando di riuscire a riscaldare il suo corpo tremolante.
Perlomeno in superficie.
Riducendo gli occhi - già piccoli - a due fessure quasi invisibili, dischiuse le labbra lasciandovi fuoriuscire una piccola nuvoletta biancastra che sparì lentamente dalla sua visuale  quando un pendolare, affannato e visibilmente disorientato, gli sfrecciò dinanzi nel tentativo disperato di raggiungere il treno che doveva prendere , tra l’altro già in leggero movimento, e che sicuramente non avrebbe fatto in tempo a raggiungere.
Le stazioni avevano sempre avuto un certo fascino su Michael.
Ogni giorno era come leggere miriadi di storie che si incontravano in un unico, grande e affollato libro, che però solo lui sembrava aver notato.
Quel giorno c’era una ragazza dai lunghi capelli biondi che sembrava aspettare qualcosa, un qualcosa che andava ben oltre il treno, forse qualcuno, forse l’amore, forse la felicità. Poi s’intravedeva un bambino dagli occhi scuri che si ostinava a stringere, quasi con prepotenza, la mano dell’anziano signore che lo accompagnava per le scale, entusiasti entrambi d’intraprendere chissà quale emozionante, per il primo, e triste, per il secondo, avventura.
E c’era l’uomo, con quell’accenno di barba sulla mascella che gli donava una malinconica aria vissuta, che soffriva e cercava sollievo nei cruciverba di qualche giornale poco venduto; c’era il ragazzo dell’edicola che forzava un sorriso cordiale quando in realtà, probabilmente, c’era ben poco per cui sorridere e c’era  il controllore panciuto che rispondeva, con sufficienza, alle domande inutili e anche abbastanza stupide dei pendolari che poi lo dileguavano con un’occhiata muta. E poi c’era Michael.
Il ragazzo strano, con i capelli spettinati e colorati, sbiaditi dal sole in alcune parti,  e uno zaino enorme quasi vuoto, che se ne stava seduto a terra contro una delle colonne portanti della stazione  ad osservare le vite frenetiche altrui mentre loro osservavano la sua: monotona routine da un paio d’anni a quella parte. Non che desiderasse riavere indietro la trama complicata della sua vita, che se avesse dovuto descriverla lo avrebbe fatto dicendo che somigliava ad un episodio ben riuscito di Beautiful, ma il corso dei suoi giorni aveva irreversibilmente preso una piega, non strana, più che altro sicura: nessun rischio e nessuna scelta avventata equivalevano a zero problemi.
Una filosofia di vita monotona, alquanto insolita ed in netto contrasto con il suo carattere impulsivo ed abbastanza acido, ma sicuramente efficace.
E a lui stava bene così, ma non ne era effettivamente certo.
Dopo l’ennesimo avviso, che si era disperso nell’aria dagli altoparlanti posizionati in chissà quale punto dell’area, di non attraversare la linea gialla che Michael superava con i piedi, il ragazzo gettò a terra il filtro restante della sua sigaretta, guadagnandosi un’occhiata di dissenso da un’anziana seduta di fianco a lui - sicuramente il tipo di vecchia signora impicciona con una vita privata quasi inesistente che, ogni domenica, puntuale come un orologio svizzero si trovava in chiesa per redimersi da chissà quale peccato commesso durante la gioventù - su una panchina, assieme ad una giovane ragazza dalle punte dei capelli blu, legati in una coda alta, che aveva attirato l’attenzione del giovane.
Pestando con il piede ciò che era avanzato della sua sigaretta, balzò in piedi con uno scatto talmente brusco da far sobbalzare il cagnolino di un ragazzo che lo fissava impaurito. Michael non era certo, però, che ciò che lo spaventasse di più fosse stato il suo movimento.
Abbassò lo sguardo e strofinò la suola della scarpa a terra, aspettando che la sua attenzione venisse attirata su qualche altra storia, ma l’unica cosa che fece il ragazzo fu concedersi un’altra occhiata in direzione della ragazza - che era troppo impegnata a passare le unghie sugli strappi dei suoi jeans per accorgersi del suo sguardo insistentemente posato su di lei. Dopo qualche secondo passato completamente concentrato su di lei Michael fu stranamente certo di trovarla bellissima. La pelle pallida, che in realtà si addiceva poco al suo viso, contrastava nettamente con i capelli scuri e ribelli che le circondavano il viso, scavato. Le ciglia, allungate da un’esagerata quantità di mascara, contornavano due occhi grandi e scuri, nei quali si rifletteva la ferraglia nera ed arrugginita dei binari, circondati da pietre.
Era arrivato il suo treno.

 
 
 
 
 

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04:50 Pm
Portland’s subway, October 1st 2014
 
 
 



 

“Fa leggermente freddo, non trovi Carl?” esclamò di punto in bianco una piccola donna, sulla settantina e stretta in una lunga gonna nera, che aveva occupato l’intera visuale di Michael da ben venti minuti.
“Prendi il mio maglione, cara” risposte, quasi volesse ostentare indifferenza, quello che doveva essere sicuramente suo marito concedendosi una veloce occhiata verso la donna, mentre l’ennesimo sbuffo di vento colpì entrambi.
“Per questo mi hai chiesto di mettere il maglione nella borsa, Carl?” domandò la donna, tutt’un tratto con la voce tremolante d’emozione, con gli occhi che avevano acquisito un nuovo particolare, che ovviamente a Michael non sfuggì: una piccola lucina che le illuminava la faccia giallastra e cosparsa di rughe, miste a quelle d’espressione. “Perché sapevi che avrei avuto freddo, vero?” continuò, fissando l’uomo.
Carl cercò di mascherare un sorriso stringendo le labbra in una linea dura, concedendosi un’altra occhiata in direzione della donna prima di tornare a fissare, quasi interessato, il tabellone delle partenze. Ma c’era qualcosa, in quegli occhi, che alla donna non era sfuggito e che l’aveva spinta ulteriormente a circondargli la vita ossuta con le braccia, abbracciandolo come forse pochi sapevano fare a quell’età, infondendogli probabilmente tutto l’amore che era ancora vivo dentro di lei, in quella parte del petto dove era racchiuso il suo cuore, che aveva sicuramente aumentato i battiti.
“Sono così carini”
Erano passati dieci giorni, inconsciamente li aveva contati, da quando gli occhi piccoli di Michael Clifford avevano avuto la piacevole sensazione di girovagare -  insaziabili di conoscere ogni singolo particolare di quel volto che aveva ritrovato, nei giorni successivi, nella luna - di quella ragazza. Una settimana passata a domandarsi come poter abbattere quel muro invisibile, fatto di silenzio e treni, che avevano trovato a dividerli. Ma per dire cosa, poi? Michael era un gran conversatore, era in grado di parlare anche per ore, ma di come iniziare una semplice conversazione lui non ne aveva la minima idea, e in realtà non se l’era mai posto il problema visto che poche persone sembravano voler parlare con lui. Ma a lui stava bene così, anche se non ne aveva la certezza, però.
Girò lentamente la testa, facendo scivolare un po’ all’indietro quel cappello di lana marrone, visibilmente spiazzato da quella domanda improvvisa, trovandosi a riconsiderare improvvisamente quanto aveva sempre sostenuto; Michael credeva che gli occhi chiari, quelli azzurri
 azzurri, fossero della sfumatura perfetta che tutti avrebbero desiderato avere. In quel momento però, con gli occhi scuri della giovane che scrutavano in attesa i suoi, non riusciva a non pensare che i suoi occhi, di quel marrone liquido che sembrava quasi nero, fossero indiscutibilmente i più belli che avesse mai visto in vita sua. Due pozzi senza fine nei quali ci potevi affogare, senza però mai sentire quelle irritanti sensazioni come il panico e il terrore impossessarsi lentamente del tuo corpo.
Quel giorno i suoi capelli erano nascosti sotto un cappellino bianco, con la scritta ‘genius’  a caratteri cubitali sulla fronte, di un bianco candido che invece, a lei, donava particolarmente.
“Già” si trovò a rispondere, costatando solo in quel momento, mentre i suoi occhi non erano più impegnati con la ragazza, che la coppia d’anziani non c’era più.
“Beverley, Beverley, tesoro, vieni” chiamò improvvisamente un uomo dai capelli biondi, attirando l’attenzione completa della ragazza con la quale – finalmente - era riuscito a scambiare qualche parola nonostante avesse desiderato con tutto se stesso di aver avuto il coraggio di aggiungere altro oltre a quel patetico ed insensato ‘già’ che aveva biascicato.
Beverley gli lasciò un ultimo sguardo intimidito prima di alzarsi da quel cumulo di cemento ed affiancare l’uomo, sparendo dietro le porte elettriche del treno.

Beverley.
 
 
 
 
 

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02:20 Pm
Portland’s subway, October 5th 2014
 
 
 
 

 

Ne aveva sentita di gente, Michael, che affermava con sicurezza di amare la pioggia. Le aveva sentite parlare di come l’odore dell’asfalto bagnato risultasse rigenerante, di come il sottofondo della pioggia, mentre si rinunciava ad aprire l’ombrello per non bagnarsi, portasse via tutto:  dolore,  malinconia, solitudine, rabbia, tristezza, e come riuscisse addirittura a portare, in alcuni casi, felicità.
Ci aveva provato un po’ di tempo fa, Michael, a farlo. Si era lasciato andare sotto la pioggia, rimanendo impalato in un parco vicino casa, aspettando che l’acqua che picchiettava  ritmicamente sul suo corpo gli portasse quella felicità tanto ambita e che
loro sembravano trovare con la pioggia. Ci aveva provato, ma l’unica cosa che la pioggia aveva portato con se era stato un bel ‘ma sei coglione?’ urlato da alcuni ragazzi che correvano verso un bar per ripararsi e il raffreddore per una settimana, che lo aveva costretto al letto.
Ed in quel momento, mentre vedeva alcune ragazzine schiamazzare allegre sotto l’acqua, con i vestiti di già inzuppati, Michael si sentiva terribilmente irritato senza il suo ombrello e con i capelli leggermente bagnaticci, mentre si rifugiava sul solito ammasso di cemento.
“Tu sei uno di quelli”
Michael sussultò, sentendo
 quella voce, che negli ultimi giorni aveva registrato nella sua testa come una delle melodie più belle che le sue orecchie avessero avuto la piacevole sensazione d’ascoltare, così vicina a lui.
Sentì un brivido attraversargli la colonna vertebrale, che teneva leggermente inarcata in quel momento, mentre i suoi occhi si scontravano contro quelli marroni di Beverley - che aveva preso posto di fianco a lui - al contrario suo senza nemmeno una goccia d’acqua sul corpo. Indossava dei leggins con una singolare fantasia a tigri, quel giorno, e una maglietta lunga nera, con la comune scritta del nome dell’ultimo profumo di Chanel, ma che le donava terribilmente.
“Uno di cosa?” domandò piano, appena ristabilitosi dallo sgomento iniziale nel sentirla rivolgergli la parola o anche semplicemente sentirla di fianco a lui, le spalle che si sfioravano leggermente.
“Ti piace la pioggia” rispose gentilmente lei, sfregandosi la mano sul collo, indicando con lo sguardo le ragazzine che prima stava guardando lui.
“Oh, no” borbottò, scuotendo i capelli dai residui d’acqua. “Ho provato a vedere se era davvero così ‘magico’ come dicono”
“Allora?” incalzò lei.
“Sinceramente? La trovo un’assurdità, sono stato al letto per una settimana” accennò un sorriso Michael, sentendosi lo stomaco contratto quando, un istante dopo, anche lei si aprì in un enorme e caloroso sorriso che era dedicato solo ed esclusivamente a lui.
Si sentiva come un ragazzina di quattordici anni alle prese con la sua prima cottarella adolescenziale, e non era certo al cento percento che quella sensazione, che lo riscaldava ogni volta, gli desse effettivamente così fastidio come avrebbe dovuto.
“Sai, Michael, mi sarebbe piaciuto averti nella mia vita un po’ prima” sussurrò improvvisamente Beverley, distogliendo velocemente lo sguardo da Michael prima che lui potesse alzare gli occhi su di lei - che in quel momento fissava distrattamente il cielo grigio che si rifletteva nei suoi occhioni marroni.
Nonostante il suo stomaco avesse iniziato a rivoltarsi da sopra a sotto, e Michael si sarebbe dovuto sentire così felice da poter spiccare il volo, ad un’affermazione del genere, l’unica cosa che provava in quel momento era inquietudine. Perché solo in quel momento, mentre i suoi occhi avevano ripreso da ispezionare con particolare attenzione il volto di Beverley, si accorse di quanto pallida fosse diventata, quasi più di lui.
Le guance avevano perso il colorito rosa che le aveva notato tre settimane prima, ed erano più scavate del solito, i capelli erano del tutto nascosti da un cappello e sotto i suoi occhi aleggiavano due ombre in contrasto netto con la sua pelle, di un viola che gli avrebbe potuto ricordare quello del vino che aveva in frigo.
“Ci vediamo” parlò di nuovo lei, alzandosi velocemente in piedi, richiamata di nuovo dall’uomo che li aveva separati anche l’ultima volta. “Ciao Michael” e si chinò su di lui, lasciando che le sue labbra sottili e screpolate incontrassero la guancia accaldata e liscia di Michael - ancora immerso nei suoi pensieri grigi per dare effettivamente importanza al suo cuore che aveva iniziato a fargli su e giù per lo stomaco facendogli tremare le mani.
“Ciao Beverley” sussurrò, prima che lei fosse troppo distante da non sentirlo.


 
 
 


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07:04 Am
Portland’s subway, October 15th 2014
 
 
 
 

 
 
 

Michael Gordon Clifford continuava a ripeterselo, da ben due ore. Sarebbe stata una vera follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni che uno ha perché uno di loro lo si ha visto infrangersi contro un muro indistruttibile, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è andato in rovina. Condannare tutte le amicizie perché una, seppur quella di meno rilevanza, ti ha tradito, non credere in nessun amore perché uno di loro ti è stato portato via, buttare via tutte le possibilità di essere felice solo perché qualcosa è andato improvvisamente per il verso sbagliato.
Michael voleva davvero crederci che ci sarebbe sempre stata un’altra opportunità, un’altra amicizia, un altro amore, una nuova forza, ma quello che gli si presentava agli occhi era davvero troppo straziante perché qualcosa riuscisse ad auto convincerlo che sarebbe andato tutto bene - perché lui lo sapeva già che non sarebbe stato così - ma non voleva crederci.
Beverley aveva un altro berretto, rosso questa volta, in testa - Michael detestava il rosso. Detestava come in quel momento le calzava, rendendole il volto ancora più asciutto e pallido di quanto già non fosse. Detestava quel lupetto nero, talmente aderente che riusciva a vedere le fragili ossa del suo bacino sporgere da sotto al tessuto, e detestava quei leggins, di quel orribile colore blu, che sottolineava le sue gambe non più affusolate ma, adesso ossute, che aveva paura si potessero spezzare da un momento all’altro. Gli occhi marroni avevano perso intensità, stava quasi riuscendo a non affogarci dentro oramai, e i due aloni al di sotto di essi lo irritavano particolarmente - in quel momento - più di quanto non facessero le sue labbra sottili, screpolate e rossicce. In effetti stava cercando di trattenere il suo corpo dall’abbracciarla per paura di poterle fare male ulteriormente.
“Hai davvero intenzione di non abbracciarmi, Mike?” soffiò a bassa voce Beverley, mordendosi convulsamente il labbro rosso.
“Tutte le volte che vorrai” la rassicurò lui, ostentando appunto quella sicurezza che in realtà non riusciva a trovare in nessuna parte del suo corpo, accarezzandole le labbra con le sue dita, calde, impedendole di farle sanguinare. Poi, con inesorabile lentezza, allungò le braccia attorno al piccolo corpo della ragazza - sentendone immediatamente il profumo mischiarsi al suo - stringendola con delicatezza a sé. Appoggiò sconsolato la testa sulla sua testa ed iniziò a muovere le mani sulla sua schiena, con giri senza senso, mentre la sentiva sorridere contro il suo petto.
“Ci rivedremo, vero Beverley?” accennò in un sussurrò, la bocca metà immersa nei suoi capelli che non sapevano di nessuna fragranza in particolare, semplicemente di shampoo. Era consapevole di dover fare l’uomo, di mostrare coraggio e positività, ma davvero non ci riusciva. Lui non era così.
Lui era lo stesso Michael Clifford che aveva evitato di andare al cinema a vedere ‘The fault in our stars’ pur di non rischiare di piangere come se non ci fosse un domani, come d’altronde era certo avrebbe fatto.
“Certo,
 Mike” sussurrò lei in risposta, accennando un altro sorriso. “Io e te ci rivedremo sempre, proprio qui” ed indicò con il dito il cumulo di cemento, chiamato ‘panchina’ , sul quale tutto era cominciato.
“Promesso” annuì lui, nonostante quella sembrasse più un’esplicita domanda, abbassando gli occhi verso il suo volto, segnato dal dolore.
Si sarebbe incasinato da solo, lo sapeva, e il suo cervello continuava a ripeterglielo come un disco di musica house rotto, ma ciò non gli impedì lo stesso di poggiare le sue labbra, piene, morbide e calde, su quelle piccole di lei, regalando ad entrambi il più bel bacio che avrebbero potuto mai dare in tutta la loro esistenza.
Ed erano bellissimi così, insieme, stretti l’un l’altra come se niente avesse potuto separarli, come in uno di quei romanticissimi film di Nicholas Sparks, di quelli che Beverley adorava, che avevano come finale una bella inquadratura dei due innamorati, mentre si scambiano l’amore, prima di vivere il resto della loro vita insieme.
“Non mi lascerai, Beverley, vero?” cercò ancora conforto Michael, distaccandosi di qualche millimetro per permetterle di parlare.
“Mai mai” annuì lei, seria, regalandogli un altro dei suoi bellissimi sorrisi - uno di quelli che a Michael riscaldavano il cuore - prima di lasciarsi trasportare in un altro bacio da film.
Il
 loro film.
Il film di
 Michael e Beverley.










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02:03 Am
Portland’s subway, October 19th 2014
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Michael Clifford era disteso su quel - ormai troppo familiare - cumulo di cemento che tutti erano  abituati a chiamare panchina da ormai troppe ore per riuscire a riscaldare il suo corpo con uno stupido capellino di lana, nero, e lo sfregare silenzioso di mani e gambe.
Negli ultimi quattro giorni si era svegliato con un opprimente senso di vuoto che si era poi, pian piano, impadronito di tutto il suo corpo. Svegliarsi la mattina e non sentire niente di niente, né felicità né rabbia, non essendo né sereno né irritato, si era rivelata la salvezza per Michael. Tornare a quel grigio offuscato che era prima di incontrarla era stato più facile di quanto avesse pensato; la cosa dolorosa era ricordarla, invece. Aveva cercato di mischiare i ricordi e l’alcool, ma quel unico tentativo si era rivelato più inutile che mai, così come i successivi cinque prima di trovare qualcosa che riuscisse a fare per ricordare la piccola Beverley senza dolore.
Michael, sentendo qualcosa pronto a riaffiorare, per investirlo come un treno in corsa, alzò il busto di scatto, iniziando a rovistare tra lo zainetto che ormai faceva parte quotidiana del suo abbigliamento, estraendone pochi istanti dopo un blocco da disegni e una matita, quasi terminata.
Sorrise sconsolato iniziando a tracciare linee scure sulla carta bianca e liscia, lasciandosi trasportare dai ricordi beandosene per quei pochi minuti senza che quell’opprimente senso di vuoto si facesse vivo di nuovo.
Quello era il loro film.
Il film di Beverley e Michael, e sarebbe sempre rimasto tale.
Di quello, Michael Clifford, ne aveva la certezza.


 
 
 
 
 
 
 
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Beverley Chanel McCall
1994-2014







 
The end.







 
Wrtiter's corner:
Okay, prima di tutto, se siete riuscite ad arrivare fin qui, brave.
Allora, è la prima cosa che scrivo che abbia a che fare con i 5 Seconds of Summer, anzi la mia prima One-Shot in assoluto, quindi abbiate pietà.
Ho finito di scriverla poco fa, ci ho messo un bel paio d'ore per farne uscire una cosa che mi sembrasse almeno decente. Mi è venuta l'idea leggendo un'OS oggi, quindi presa dall'ispirazione l'ho scritta, dedicandola ad una persona a me cara che ormai già da troppo tempo nonc'è più.
In realtà non credo ci sia altro da dire, anche perchè sono le 02:52 quindi sono mezza rimbambita, e probabilmente è solo per questo che ho trovato il coraggio di pubblicarla lol,  quindi lascio a voi i commenti, se vi va. Spero vi sia piaciuta.

Notte 

 
   
 
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