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Autore: Bbpeki    11/09/2014    2 recensioni
11 Settembre 2001, New York. Gerard Way assiste all'attentato e ne rimane sconvolto, pochi giorni dopo prenderà la decisione più importante non solo della sua vita, ma anche quella di milioni di ragazzi
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gerard Way
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Skylines and Turnstiles

(Please take me back to the start)

Gerard non sentiva più niente. Prese un altro sorso dalla bottiglia di vodka che stringeva in mano. 

Poteva quasi sentire le sue cupe emozioni annidarsi e stratificare al centro del suo petto fino a salire e salire per raggiungere la base della gola. 

Già in passato aveva provato quella sensazione e sapeva anche come darle sfogo…

“No, ora non potrai mai più…mai più” disse una voce nella sua testa.  Ed era vero, non poteva...o forse sì? Dopo tutto, che aveva da perdere ormai?

Si alzò dal letto barcollando e raggiunse la scrivania. Su di essa si trovavano una quantità di matite, gomme, schizzi e fogli da non veder più il piano di legno. 

Si sedette sulla sedia e prese una matita e un foglio. Premette lievemente la grafite sulla carta attendendo che l'immagine si formasse nella sua mente. 

Chiuse gli occhi sperando nell'aiuto di una musa gentile, ma tutto ciò che ottenne furono le stesse immagini vissute tre giorni prima. Fumo che attanagliava i polmoni, scorticava la gola mozzando il vitale respiro. Confusione, panico e disperazione che aleggiavano nell'aria più dannose ancora più del fumo. Le lingue di fuoco che avvolgevano i palazzi che cadevano in ginocchio. La skyline di New York che si distorceva, mutilata per sempre.  

I mille corpi che cadevano, accompagnando le Torri, come autunnale pioggia di novembre. Rivide la potenza della Morte e la fragilità della Vita, come questo equilibrio potesse essere facilmente infranto dalla stupidità umana. Ricordò l'impotenza e il dolore devastante che lo avevano squarciato in tanti pezzi. 

La matita gli scivolò dalle dita, non riusciva a disegnare. Appoggiò la testa sulla scrivania, nascondendola tra le braccia. L'arte era sempre stata la sua unica valvola di sfogo, il suo mondo, il suo porto sicuro. Ora, dopo la tragedia non poteva non collegare la sua mancata carriera di fumettista, e quindi la sua arte, a quelle morti innocenti. 

Chiuse gli occhi, sentiva la testa girare. Doveva trovare il modo di sfogare tutte quelle emozioni rabbiose, tristi, spaventate ma soprattutto oppresse nello spazio angusto del suo cuore. Con uno sforzo rialzò la testa, prese una  penna, il foglio e d'istinto scrisse le parole che urlavano dentro di lui, sperando di dargli pace. 

Aveva tante cose da dire che nessuno aveva mai ascoltato o si era dato la pena di capire. Tante emozioni che prima trovavano forma e carattere nei suoi  disegni e ora trovavano concretezza in qualcosa che poteva essere così astratto e volubile come le parole.

Quasi bucò il foglio per la passione che provava. Si sentiva libero, in in certo senso, come se avesse avuto un confidente. E in effetti era così, quel pezzo si carta lo ascoltava in silenzio accogliendo semplicemente le sue parole. Ascoltava e comprendeva. 

Ogni verso era un emozione che provava, diverse eppure tutte collegate e accomunate dallo stesso spaventoso filone.

Scrisse per chissà quanto. Febbrilmente concentrato a svuotare la testa da tutto. 

Infine posò la penna. Si sentiva vuoto, come dopo aver vomitato per una sbonza bella forte. Solo che non avvertiva nessun bruciore alla gola e nessun mal di testa da record. Si sentiva semplicemente vuoto. Lasciò che un filo d'aria uscisse dalle sue labbra solo per svuotare completamente i polmoni. Restò così dieci secondi. Poi prese un alto foglio con l’intento di disegnarci sopra fino a farsi sanguinare le dita. Ma capì istantaneamente che non era cambiato nulla: le immagini di quelle morti lo avrebbero perseguitato ancora appena presa in mano la matita. Non avrebbe potuto disegnare finché i fantasmi di quegli istanti non lo avessero abbandonato. Sentì qualcosa spezzarsi dentro il suo essere. Una parte della sua anima strapparsi. Senza accorgersene lacrime calde e pesanti di tristezza gli rigarono il viso, lasciando segni lucidi sulla pelle bianca. L'arte era la sua unica amica, la sua unica confidente totalmente sicura. A lei aveva confidato le sue paure più profonde, le sue piccole gioie il suo grande disgusto per il mondo e la stupidità umana. E lei non lo aveva mai tradito. Mai. Tranne ora, si rifiutava di accogliere il suo dolore e quel calderone di emozioni terribili che ribolliva dentro di se sotto forma di immagini di grafite. Avrebbe voluto disegnare fino a cadere addormentato. 

Si prese la testa tra le mani. Non poteva vivere così, senza uno sfogo, senza qualcuno (o qualcosa) che lo ascoltasse. Lentamente un idea mise radice nel suo cervello. La musica. Non ci aveva mai seriamente pensato di fare carriera o usarla come sfogo, anche se nonna Helena diceva che era portato. C'era sempre stata l'arte, i fogli bianchi che lentamente si coloravano, l'odore penetrante della vernice...

Il canto era un passatempo per far contenta sua nonna. Ma quel testo scritto....aveva fatto quasi lo stesso effetto di cento disegni. Se qualcuno fosse stato così buono da fargli un a base musicale decente, se qualcuno fosse stato così pazzo da formare una band con lui...la musica sarebbe stata perfetta. Quasi distrattamente prese il telefono e chiamò Mikey, suo fratello, che sapeva che suonava il basso. Gli rispose una fredda voce femminile che lo informò che Mikey non era raggiungibile. Sbatte il telefono sul letto "lievemente" incazzato col fratello. Decise di mettere un po' di musica per calmarsi, almeno un po’. Prese in album dei Maiden a caso e lo mise nel piccolo stereo mezzo scassato. Le note dure e pesanti della chitarra elettrica gli impedivano di concentrarsi su qualcosa. Gli venne anche in mente che i Maiden avrebbero suonato due giorni dopo, sarebbe stato l'ideale: musica così forte da far vibrare la cassa toracica, alcool (magari erba), un mucchio di corpi sudati che si muovono e si agitano all'unisono, urlando stracci di canzoni. Sì, sarebbe stato l'ideale.  

Accese il computer e prenotò un biglietto (ne avanzavano meno di una decina), prese un altro sorso dalla bottiglia quasi vuota, deciso a ubriacarsi per riuscire a sprofondare nel baratro dell'oblio che solo l'alcool gli poteva regalare, insieme alla giusta dose Xanax, per sfuggire agli incubi che lo perseguitavano.

**************************************

Nero. Assolutamente niente. Tranne il nero.

Il nero è un colore rilassante. Non puoi fare niente perché non sai quel che c'è dopo, puoi solo affidarti allo svolgersi delle cose. 

Amava quella sensazione: non sentire niente, non soffrire per la sua innocenza perduta verso il vero volto dell'umanità e alla potenza della Morte, della sua fredda e insaziabile spietatezza. 

Non sentiva nulla, neanche la consistenza del materasso su cui era collassato.

Passarono ore, forse giorni, prima che l'oblio cominciasse a scemare per lasciare posto alla nuda realtà.

Dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di mettere a fuoco il soffitto bianco. Sentiva la nausea salire e la saliva annidarsi sulla lingua. Sentiva il liquido bruciante dello stomaco salire fino ad essere quasi in bocca. Con uno sforzo rotolò a pancia in giù e espulse il liquido bruciante. Non mangiava da...beh da quel giorno. Sentiva lo stomaco contrarsi nel disperato bisogno di espellere il veleno assunto. Per caso lanciò in occhiata alla sveglia digitale, che segnava anche i giorni. Era il 15 settembre 2001. Gli tornarono in mente i corpi, le Torri Gemelle che cadevano, il fumo, le lingue di fuoco. Il gelato ma soffocante alito della Morte.

Spalancò gli occhi. Corse in bagno e si sciacquò il viso. Quando riemerse e si vide nello specchio pensò che era la personificazione di New York quel terribile giorno. Occhi enormi, palancati, feriti, iniettati di sangue, la pupilla che quasi inghiottiva l’iride verde

I capelli, neri come i palazzi dopo  passaggio del fuoco, aggrovigliati e sudici. Le labbra esangui. La pelle cadaverica  e pendente sugli zigomi per la mancanza di cibo. Sentì una tale repulsione per quell'immagine che avrebbe voluto rompere lo specchio. Invece si spogliò e si infilò nel box della doccia. Aprì l'acqua, gelida. Voleva che il freddo gli penetrasse nelle ossa, che lo lavasse da calore bruciante del fumo e del fuoco che avevano distrutto così tante esistenze senza battere ciglio. Si passò le dita tra i capelli corvini e aggrovigliati, tentando di snodarli e ridargli un senso. 

Lavò ogni anfratto del suo corpo sperando, però, di ripulire l'enorme macchia di cenere sulla sua anima, ma forse non se ne sarebbe mai andata. 

Uscì, tremante e fragile come l'invisibile ragnatela di un ragno contro un forte vento. Lo sporco nella sua anima restava ma almeno quello del corpo non c'era più. 

Passo la giornata a fumare una sigaretta dietro l'altra e a bere. Alle 9 uscì e andò al concerto. Per miracolo arrivò in tempo senza morire investito, probabilmente non era la sua giornata fortunata. 

Ovviamente all'entrata c'era un mare di gente, tutti allegri e eccitati per una volta nelle loro disperate esistenze.

Riuscì a entrare che il concerto era già iniziato. Era esattamente come aveva immaginato: caldo soffocante, nuvolette di fumo sopra la folla oceanica, provocata sia dal calore che dal fumo delle canne. Un rumore assordante di chitarre e voci che faceva vibrare il pavimento e impediva di udire la voce dei suoi pensieri. In men che non si dica si ritrovò in mezzo alla folla, oppresso da ogni lato da corpi che cercavano di saltare, muoversi, liberare se stessi e la propria voce. In quelle situazioni il tempo perde significato. Il passato e il futuro non contano: esiste solo il presente, ci si illude che quelle ore di liberazione non finiranno mai. 

Dopo qualche tempo, sentì una voce urlargli all'orecchio

"Hey, hai d'accendere?" Si voltò come meglio poté e si ritrovò davanti a un cespuglio di capelli castani e due occhi gentili. Quel volto aveva un che di familiare. Corrugò le sopracciglia chiedendosi dove avesse già visto quei capelli da afro. Anche il tipo strizzò gli occhi come per metterlo a fuoco nel rimescolio di volti conosciuti, che è nella testa di ogni uno di noi. Poi la sua espressione si distese e  spalancò la bocca.

"Gerard!"

Fu quella sera che nacque una band. Una band morta troppo presto per mano di colui che l'aveva creata. Una band che aveva dato tanto, che aveva fatto sentire un brivido di vita a coloro che l'avevano sentita. Che era formata da ogni cuore che batteva per loro, ogni speranza in un futuro che nasceva per loro e la loro speranza. Una band chiamata: My Chemical Romance.

 

 

N.d 

Scrissi questa storia a Luglio, sulle note del telefono perché non avevo il mio amato PC. In seguito l’ho trasferita sul computer e l’ho aggiustata, ma ho comunque aspettato a pubblicarla perché mi sembrava giusto farlo oggi.

Ditemi che ne pensate

Bbpeki

  
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