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Autore: hajley    11/09/2014    0 recensioni
I libri come flebo,
la musica come respiro. ❀
Questa storia è un'opera di finzione. I nomi, i personaggi, le vicende, gli eventi, i luoghi e gli episodi descritti sono frutto dell'immaginazione dell'autrice e sono utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali viventi o defunte, eventi o luoghi è semplicemente ispirato alla vita dell'autrice o totalmente inventato da quest'ultima.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sorseggio il caffè ormai freddo nel mug dei Beatles, con la solita espressione spenta sul volto che vedo riflesso nello sportello del microonde. Le cuffiette nelle orecchie che sparano rock anni sessanta e gli occhi pieni di matita nera che si chiudono e quasi desidererebbero essere chiusi per sempre. La mia vita ormai è solo un danatissimo rito che si ripete tutti i giorni con lo stesso ritmo. Scuola, scuola, scuola, musica, musica, musica, libri, libri, mille libri, libri di ogni tipo. Ora che ci penso, ho più libri che vestiti. L'ho sempre dato per scontato, a dire il vero, ma ora mi rendo conto che per le mie compagne non è così. I miei non hanno mai smesso di riempire casa di libri, e io di leggerli. E non ho ancora finito di leggerli tutti. Ci sono libri ovunque in casa mia: sotto uno sgabello, in uno scaffale, sopra un mobile o sulla dispensa. Io li ho persino sotto il letto, tra le estremità del materasso e il comodino. Sono due anni che dobbiamo comprare un'altra libreria ma ancora non lo abbiamo fatto. Prima ci pensava papà ai mobili, ma adesso papà non c'è. Detta così sembra che sia morto e confesso che spesso penso che non mi dispiacerebbe, anche se poi mi sento in colpa. La verità è non sono mai riuscita a parlare apertamente con papà. Non abbiamo mai parlato di cose serie, anche se lui mi ha sempre detto che prima o poi dovevamo farlo. Papà è il classico tipo che, se gli parli di qualcosa, ti risponde che "purtroppo è la vita", e poi torna a leggere saggi di filosofia. Penso che papà ami la filosofia più di quanto ami me e le mie sorelle. È la materia che insegna da anni e ormai è parte di lui. Mi ricordo che quando avevo sei anni già mi parlava di Freud. Non in modo serio o drastico, magari mentre stavamo andando al mare, nel suo macchinone blu - che poi, tanto "one" non è mai stato -, poi mamma si girava verso di me e mi faceva una faccia come per dire «non lo ascoltare». E io ridevo, perché papà continuava a parlare, parlare, parlare e mamma a fare quella faccia. Mi mancano tanto quei giorni a Skegness. Le gemelle erano già nate ma mamma e papà ancora sembravano andare d'accordo, e non si sapeva nulla dell'autismo di Elisewin. Erano giorni felicissimi quelli. Io allora ero piccolina, che ne sapevo della vita e di come fosse. Neanche mi importava forse. Avevo appena imparato ad intrecciarmi i capelli e mi piaceva tanto andare al mare. Facevo sempre il bagno, me lo ricordo bene. Papà mi faceva fare i tuffi e mamma leggeva Baricco all'ombrellone, anche se disturbata spesso dalle gemelle. A mamma e papà è sempre piaciuto Baricco. È un autore italiano che mamma ha fatto conoscere a papà quando erano all'università. Quando mamma si è laureata sono nata io, Violet. Come le violette. Mamma ha sempre amato quei fiori. Quattro anni dopo sono nate le gemelle. Iris; come i fiori che piacevano alla nonna quand'era in vita, e Elisewin; come la protagonista del libro di Baricco che i miei avevano amato ai tempi della scuola. La sera tornavamo a casa e mamma cucinava il pesce fritto con le patatine, io facevo le bolle di sapone e poi papà tirava fuori la chitarra e suonava gli Eagles e i Rolling Stones, e io provavo ad indovinare di chi fosse la canzone che sentivo. Dicevo sempre «Gli U2, gli U2!» o «I Pink Purple!». Poi papà mi spiegava che i Pink Purple non esistevano, c'erano i Pink Floyd e i Deep Purple. Mi sembra così strano parlarne così, davanti ad una tazza di caffè freddo. Non avrei mai pensato che quelle canzoni sarebbero diventate la mia vita. Beh, erano anni felici quelli. Anni in cui ancora non capivo il significato della parola "sofferenza", anni in cui non sapevo cosa fosse, provavo solo ad immaginarlo. E mi interessava pure. Lo cercavo spesso su Internet a casa dei nonni. Avevo imparato da sola ad usarlo e ad andare su Google, però quando cercavo quella parola mi uscivano immagini che mi facevano piangere, così ogni tanto chiedevo agli adulti. «Mamma, papà, che vuol dire esattamente soffrire?» «Beh... », rispondeva papà. Mamma mi fissava e sorrideva dolcemente. «Forse non... come glielo spieghiamo? È difficile da spiegare a parole, piccola Vì. Sono cose che vanno provate. Ma tu non devi essere triste perché non sai il significato profondo di questo brutto parolone. Anzi, amore mio, ringrazia Gesù che ancora non lo sai» «No, mamma aspetta. Io lo so cos'è la sofferenza. Anche se non sto proprio soffrendo mi dispiace non sapere esattamente cos'è. E quindi la mia è una forma di sofferenza, giusto?» «Giusto» «Mamma?» «Dimmi» «Chi vive non sapendo perché lo fa è una persona sofferente?» «Mhm... credo di sì» «Grazie, mamma» Mi ricordo bene una frase di uno sei miei libri preferiti: "Il ritratto di Dorian Gray", diceva «Esistono veleni talmente insidiosi che per conoscerne le proprietà bisogna assurmerli». È esattamente ciò che io ho vissufo con quel "brutto parolone", come lo chiamava mamma. Ahimé, ora l'ho capito cos'è la sofferenza. Eccome. E in questo momento per me la sofferenza è dover bere un caffè freddo e prendere la metro, entrare a scuola, dover togliere le cuffiette e salutare persone che non mi risponderanno o che fingeranno di essere carine e gentili con me, ma non appena girerò l'angolo avranno da ridire sulla mia maglietta con Freddie Mercury o sui miei capelli rossi spettinati e umidi di pioggia. La scuola è la mia tortura. Studiare mi piace, ma non mi piace il contatto con la gente e la scuola non mi aiuta di certo. Lì le persone non pensano, e se pensano, pensano alle cose più stupide. Sono lontane un mondo da me, me ne accorgo quando ci parlo, dalle loro risposte. Sono così mediocri e semplici, mi fanno pena e rabbia allo stesso tempo, anche se a volte quasi desidererei di essere come loro e non avere la testa piena di mille pensieri. Io penso troppo, decisamente troppo. Non so se è un bene o no. «Violet, sbrigati! Sono già le sette meno un quarto e tu devi ancora finire di fare colazione!» Diciamo che in questi casi no, non è un bene. - Prendo la borsa e un libro sotto il braccio ed esco di casa con il cielo brusco di Leicester sopra la mia testa. Cammino svelta schivando le pozzanghere e raggiungo la fermata del bus. Una volta salita, mi stupisco che ci sia un posto libero e mi siedo accanto ad un'elegante signora con un un rossetto rosso accesso sulle labbra. Apro il libro e mi metto a leggere, abbassando il volume delle cuffiette che sparano i Led Zeppelin da quando sono uscita. La musica e i libri sono il mio rifugio. Leggo ovunque, in ogni momento, sin da quando ero piccola. Papà e mamma si arrabbiavano. Erano contenti che leggessi tanto ma i libri mi sono sempre piaciuti più delle persone, e la cosa li turbava. Tuttora mi dicono che dovrei uscire di più e leggere meno, ascoltare più persone parlarmi e meno canzoni sfondarmi le orecchie, ma non ci riesco. Io non piaccio alla gente e la gente non piace a me. A volte ci scambiamo uno sorriso, ma nulla di morbosamente profondo. Non riesco ad aprirmi con le persone, la maggior parte della gente mi fa sentire a disagio. Le uniche persone che mi piacciono sono quelle che si sentono sempre inadeguate o nel posto sbagliato, come me. Quelle che sentono il bisogno di tirare le maniche fin sulle nocche e che lasciano i capelli davanti al viso per coprirsi il più possibile. Mi rivedo in loro, le capisco. Con la coda dell'occhio vedo la signora seduta accanto a me scendere sul marciapiede una volta aperte le porte davanti a me. Chiudo il libro spazientita. Non riesco a leggere quando la mia mente straborda di pensieri. Confondo le parole che leggo con quelle che penso e, se provo a non farlo, mi gira la testa per lo sforzo. Non riesco a frenare i pensieri. Tento di lavorare su questa cosa ogni giorno ma è troppo forte. Così, prendo il telefono e lo sblocco. Il codice è 1970, l'anno di nascita di mamma. Mi metto a cazzeggiare togliendo il codice, cambiando lo sfondo e poi mando avanti la canzone. Se ascolto "Another Love" di Odell in pubblico c'è il rischio che possa mettermi a piangere e sembrare un'imbecille, oltre che un mostro per via del trucco che colerebbe. «Scusa, posso sede... Violet?» «Jace?» Ho tolto bruscamente le cuffiette dalle orecchie, che sono cadute per terra allontanando dai miei timpani quel suono paradisiaco che mi isolava dal resto dell'universo, riportandomi nel mondo reale. Sinceramente non sono così sicura di essere nella realtà, perché davanti ai miei occhi c'è Jace Hamilton. Per quell'attimo che sembra durare anni io rimango ferma e lo guardo. Non esistono autobus, tuoni, cuffiette per terra o libri in bilico tra il ginocchio e il sedile accanto al mio. Ci siamo solo io e lui. Soprattutto lui. «Cosa ci fai qui?», mi chiede. Ha una faccia sconvolta e io mi sforzo di non pensare a come dev' essere la mia. «Io abito qui, sto andando a scuola» Si siede e passa le mani nei capelli. «Mio Dio, ancora non ci credo. Non so neanche come ho potuto riconoscerti. Sei così... dimagrita. Per caso hai anche tinto i capelli?» Annuisco accennando un sorriso e prendo tra le dita una ciocca di capelli rossi. «Sì, rossi come quelli di mamma e Scarlett» «Scarlett, Gesù! Quanti anni ha adesso?» «Quattro» «Quattro...», ripete sconcertato. «Sono quattro anni che non ci vediamo. Tu ne hai sedici, giusto?» «Quindici. Tu devi farne diciannove il prossimo settembre, il ventotto. Sbaglio?» Non so perché l'ho detto. Non mi sono resa conto che in questo modo ho evidenziato il fatto che lui non ricordava quanti anni avessi e io invece sapevo quanti doveva compirne e quando. Spero non se ne sia accorto. «Già. Tu sei di ottobre, vero?» Il cuore mi si riempe di gioia nel sentire che ricorda il mese del mio compleanno. Effettivamente è stupido. «Sì», mormoro. Ora che le muovo mi rendo conto che le mie labbra quasi si stanno seccando a furia di sorridere. Che strana sensazione. Rimaniamo a sorriderci finché il suo cellulare non squilla. Ho quasi un sussulto nel sentire che la sua suoneria è "Hammer to Fall" dei Queen, una canzone che adoro. «Scusami, Vì» Vì. Mi ha chiamata Vì. «Mamma. Mamma, non sai chi ho incontrato. Non ci crederai mai. Violet, Violet Rodes! La figlia di Tom e Marlen. Ti ricordi? Qualche anno fa eravamo nello stesso gruppo in spiaggia. È cresciuta un sacco, devi vedere che bella ragazza è diventata!» Quei complimenti mi lusingano non poco, ma somigliano a quelli dei parenti di mamma in Italia. Insomma, qualcosa che direbbe un adulto, e la cosa non fa altro che farmi pensare che Jace è lontano da me, non solo per quanto riguarda l'età. D'altro canto, lo è sempre stato... «Va bene, allora tranquilla... posso mangiare un panino in giro. A dopo» Blocca il telefono e mi guarda. «Scusa, era mamma. Non riesce a tornare per pranzo» «Che lavoro fa qui?» «Ha trovato un posto di lavoro come chef in un ristorante qui vicino. Dovresti venire, sai. Si mangia molto bene. Ci sono anche piatti italiani e conoscendo le tue origini so che li apprezzeresti molto» «Grazie, se ci sarà occasione seguirò il tuo consiglio» Tira fuori dallo zaino una lattina di coca-cola. «Dove vai a scuola adesso?», gli chiedo per rompere il silenzio. «Harbloom, tu? Vuoi un po'?» Mi porge la lattina ma io sono troppo sconvolta nell'aver sentito quel nome che gli rispondo dopo qualche secondo. «Ti ringrazio, no. Harbloom? Sul serio? Le nostre scuole fanno spesso gemellaggi o cose simili... partite, mostre, musical.. è veramente strano che ancora non ci siamo incontrati. Io sono della Pencey» «Ne ho sentito molto parlare. Cavolo, devi essere davvero brava... lì ti massacreranno, suppongo» Annuisco con tristezza. «Puoi chiamarmi se ti serve un secchione in erba che ti aiuti, ma sono certo che tu con la testa che hai non ne hai minimamente bisogno» Sorrido. È così dolce, mio Dio. Non posso credere di avercelo davanti. Jace Hamilton, porca puttana! Delle ragazze ucciderebbero per essere al mio posto. E lui mi parla, mi sorride, mi fa complimenti di continuo, si sta addirittura offrendo di aiutarmi nello studio. Mi sforzo di non fissarlo e di non illudermi di nuovo. Non voglio cadere nella sua rete ancora una volta, ora che sono riuscita ad uscirne. «Oh, lo farei ma non ho neanche il tuo numero» «Sul serio? Ero convinto ce l'avessi. Passami il telefono, te lo scrivo subito» Glielo metto in mano sforzandomi di non sembrare troppo felice e lui lo sblocca, sorridendo nel vedere il mio sfondo. «Sempre grande intenditrice di musica, tu. Me lo ricordo, ti piacevano tanto i Pink Floyd quando ti ho vista le ultime volte» «Mi piacciono ancora», sottolineo. «Oh, lo vedo», ride. «Papà ha lasciato a casa un vecchio giradischi con "The Wall". Non sai che meraviglia» «Lasciato? Come sarebbe a dire? Dov'è adesso?» «Beh, ha fatto le valigie ed è andato a vivere ad Holborn» Sono sconvolta. «Mi... mi dispiace tanto», balbetto. «Anche mio padre se n'è andato, il Natale prossimo a quando ci siamo visti l'ultima volta. Scarlett era ancora piccina. Adesso lui insegna in una scuola di Londra. Penso addirittura abbia una compagna» Mi fissa tristemente. «Sono davvero dispiaciuto per te, Vì» Rimaniamo in silenzio, fermi a guardare il pavimento. Ci capiamo a vicenda, ma non c'è neanche bisogno di dirlo. Dopo un po' rompe il silenzio e mi porge il cellulare. «Ecco fatto. Ora devo scendere, è stato veramente bellissimo rivederti, piccola Vì. Scrivimi appena puoi, così memorizzo il tuo numero. Potremmo uscire uno di questi giorni, magari ci vediamo a scuola... che bella sciarpa! Dai, fatti abbracciare» "Fatti abbracciare". Che parole deliziose. Non smetto di sentirle ripetersi nella mia testa. Mi abbraccia dolcemente, passando le mani sulla mia schiena. È un abbraccio che dura poco ma non m'importa. Jace mi ha abbracciata, e io mi sento così viva e felice che quasi la cosa non mi preoccupa. - Arrivo a scuola, ovviamente, in ritardo. Le mie compagne storciono il naso appena mi vedono entrare e posare la borsa sotto il banco. Mi sento osservata ma ormai ci sto facendo l'abitudine. Levo la sciarpa di Grifondoro e il cappottino grigio e li poggio sulla sedia, mentre il professor Fhitz attende che io mi sieda per cominciare ad interrogare. È un ex collega di papà. So che ancora adesso sono amici, ma non per questo sono la sua alunna preferita, anzi, a malapena mi accenna un sorriso. Però quando la campanella suona e tutti escono mi trattiene per parlare. Lo fa spesso e mamma si incazza perché non le rispondo al cellulare e comincia a pensare che sia stata rapita. Il professore estrae dalla sua tanto temuta busta di carta due foglietti e li apre. «Formart e Halls interrogati in letteratura. Dunque; cominciamo con Shakespeare» Mi guarda e io gli sorrido. Ieri abbiamo discusso molto su Shakespeare. Comincia a fare domande e alzo il braccio ogni volta che finisce di pronunciarle. In realtà non lo alzo, porto l'indice all'altezza delle orecchie e lui capisce. Alzare una mano dà troppo nell'occhio per una come me. Il mio compagno di banco, Lucas, mi guarda strano. Per essere io, sorrido veramente troppo. «Rodes, rispondi tu» Tutti si girano a guardarmi, compresa Formart, che non sa rispondere. «Scusi qual era la domanda?» Formart ride maliziosa. Il professor Fhitz mi guarda e sorride divertito. «Rodes, questa distrazione non è da te. Stamattina un bel principe ha forse rubato il suo cuore infranto dai suoi vecchi amori impossibili come... ehm.. Il Giovane Holden, signorina?» ♡ Ciao ragazze, Scusate davvero per l'attesa... molte di voi hanno aspettato con ansia che iniziassi e vi ringrazio davvero per questo. Il fatto è che voglio scrivere qualcosa di veramente bello e speciale, non come le solite cose. E per farlo ho bisogno di tempo e concentrazione. Vi sembrerà stupido ma non riesco a scrivere se non sto sola e tranquilla, mi confondo e finisco per esprimermi male rendendo la lettura meno scorrevole e, soprattuto, piacevole. Così in questi giorni mi sono messa agli scogli con un paio di cuffiette e il mio telefono e ho scritto questo capitolo che spero con tutto il cuore vi sia piaciuto. Mi scuso per gli eventuali errori, non esitate a correggermi! Vi saluto e vi abbraccio, molto grata a chiunque abbia letto tutto il capitolo fino a queste parole. PS: rileggete la prefazione! Vostra Viola ♡
   
 
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