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Autore: Hermione Weasley    12/09/2014    5 recensioni
Lei è in fuga da se stessa. A lui sono stati offerti due milioni di dollari per ucciderla. Ma le mire di qualcun altro, deciso a riunire sei persone che non hanno più niente da perdere, manderanno all'aria i loro piani.
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“Chi cazzo è questo idiota?” Blaterò qualcuno.
“Un forestiere!” Decise un altro.
“Che razza di accento era quello?” Indagò un terzo.
Si sentì spingere bruscamente verso l'arena, senza poter far granché a riguardo. Quando le fu ad un misero metro di distanza, tra le grida che si alzavano dal gruppo, fu la voce bassa e pacata della donna a sovrastare tutte le altre.
“E' l'uomo che mi ucciderà.”

[Clint x Natasha + Avengers] [Dark!AU] [Completa]
Genere: Azione, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Capitolo 2 -

 

48 ore dopo

Florence, Arizona

 

Il sole cadeva a picco sullo spiazzo antistante il motel. A Natasha sembrava di poter sentire l'asfalto ribollire fin dentro l'angusta stanza in cui aveva trascorso la notte. Un letto sgangherato schiacciato tra due pareti, la porta del minuscolo bagno che si apriva sulla terza, l'ingresso sulla quarta. La moquette aveva l'aria di risalire almeno a cinquant'anni prima, così come il copriletto e le federe ingiallite. Non le importava granché: era stata in posti ben peggiori.

Il sonno le premeva sugli occhi come una pesantissima coperta: la paura, a malapena sedata in un remoto angolo del suo stomaco, faceva di tutto pur di tenerla sveglia. Aveva vegliato sull'aereo che l'aveva portata da San Paolo a Phoenix, Arizona: quindici ore che aveva trascorso tentando disperatamente di non dare a vedere quanto fosse nervosa. Nelle occhiate innocenti delle hostess, nei loro sorrisi cortesi, le era parso di scorgere mute accuse e promesse di punizioni future ed imminenti. Non si era concessa neanche una minuscola pausa dopo l'atterraggio: l'istinto le diceva che rimanere in una città popolosa come Phoenix non sarebbe stata un'ottima idea. Troppe telecamere, troppi telefoni cellulari, troppa attenzione. Aveva assecondato le sue sensazioni, ritrovandosi a bordo di un pullman qualunque, diretto in una città secondaria a caso. Una manciata d'ore in più ed era arrivata a Florence, uno squallido mucchio di case basse e larghe, la polvere del deserto ad imbiancare ogni facciata, ogni volto, ogni strada. Per Natasha era irrilevante: un posto valeva l'altro.

Era stata costretta – e lo era tuttora – a combattere contro i ricordi di quel suo ultimo incontro con Ivan Petrovich, l'uomo che l'aveva cresciuta e addestrata; ricordi che continuavano a palesarlesi nella mente a tradimento, rendendola di fatto incapace di produrre un qualsiasi pensiero sensato.

Aveva ucciso il suo mentore.

Aveva ucciso il suo protettore.

Ciò che di più simile avesse mai avuto ad una famiglia.

Scattò in piedi, portandosi entrambe le mani ai capelli umidi di sudore, premendo alle tempie come se il gesto potesse liberarla da quelle considerazioni moleste. Restò immobile per qualche istante, obbligandosi ad inspirare, trattenere, espirare, come Ivan le aveva insegnato a fare per combattere l'agitazione, il panico. In quegli ultimi giorni, aveva dovuto ricorrere a quel trucchetto più volte di quante avrebbe mai voluto ammettere.

L'inerzia la stava uccidendo.

Di nuovo l'urgenza, feroce ed implacabile, a rianimarla, a tenerla sveglia contro ogni buonsenso, a dispetto delle proteste del suo corpo debilitato. Non fermarsi mai: ecco cosa le avrebbe impedito di riflettere. Si permise nuovamente di scivolare nello stato mentale che assumeva quando lavorava: era ciò che conosceva meglio, l'unica cosa che avesse delle regole ben precise, uno schema sempre uguale a se stesso, immutabile. Natasha aveva bisogno di punti di riferimento fissi, di equilibri ricorrenti, di azioni e reazioni meccaniche. Lasciò che le pianificazioni e i ragionamenti concreti la ricoprissero con la loro familiarità, provocandole un'illusoria sensazione di conforto e sollievo.

Si concesse un'ultima, rapida doccia prima di riunire i pochi effetti personali che aveva con sé: un paio di portafogli che aveva rubato all'aeroporto di Phoenix, i documenti falsi che Ivan le aveva procurato, uno zaino recuperato da chissà dove. Si rivestì degli abiti polverosi con cui era arrivata e che aveva inutilmente tentato di lavare servendosi del sapone scadente che aveva trovato in bagno. Uscì dalla stanza, sotto il sole accecante: l'afa l'avvolse senza troppi complimenti, rischiando di confonderle di nuovo i pensieri.

Come faceva la gente a non dare di matto con tutto quel caldo?

Attraversò il parcheggio semi-deserto per raggiungere il piccolo edificio in cui si trovava la reception, chiavi e banconote alla mano... sarebbe potuta fuggire senza pagare, certo, ma non le pareva il caso di crearsi ulteriori, inutili problemi. Non quando avrebbe potuto facilmente evitarli.

Stavolta dietro il bancone c'era un donna di mezza età, capelli ossigenati che avevano disperatamente bisogno di essere ritinti, unghie laccate di rosa acceso, il trucco malamente applicato e un'espressione tutt'altro che allegra sul volto. Natasha non la biasimava: sfidava chiunque ad essere felice in quel cesso infernale. Fu sul punto di salutarla, esordire con un buongiorno magari, ma la donna giocò d'anticipo, saltando i convenevoli a piè pari.

“Se ne va?”

“Stanza trentasette,” annuì.

“Cinquantasette dollari,” decretò in tono asciutto, tirando fuori un pacchetto di chewing-gum da sotto il bancone. C'era qualcosa nel suo squallido aspetto fisico che le impediva di guardare altrove, che attirava il suo sguardo come una grottesca calamita.

Natasha le passò tre banconote da venti, appose una firma falsa sul registro che la donna le mise sotto il naso e fece per andarsene. Fu sul punto di varcare la soglia, uscire di nuovo sotto il sole implacabile, quando la voce della receptionist la richiamò sgradevolmente.

“Ehi, dolcezza,” Natasha si voltò, senza preoccuparsi di nascondere la propria perplessità all'appellativo, “è arrivato questo per te stamattina. Il corriere è comparso alle quattro del mattino, ci crederesti? Da quando i postini lavorano così presto? Sai come sono questi lavoratori statali, loro...”

Le parole della donna si confusero, da qualche parte, nel retro del suo cervello. Tutta la sua attenzione era stata appena catalizzata da quell'anonimo pacco rivestito di carta marroncina che l'aspettava sul bancone, apparentemente innocuo. Eppure le era bastato vederlo per mandare in tilt tutti i suoi campanelli d'allarme: qualcuno l'aveva trovata. Si avvicinò lentamente, come se ci fosse stata una bomba ad attenderla. (La receptionist continuava a straparlare, un delirio sul ridicolo aumento delle tasse, sulle categorie privilegiate eccetera, eccetera). Di sicuro doveva esserci stato un errore: il pacco doveva essere lì per qualcun altro, un ospite qualunque del motel che non era lei. Ma una prima, breve ispezione fu sufficiente a rivelarle l'etichetta che riportava proprio il nome sotto cui stava viaggiando: Natalie Rushman, Sunrise Motel, Stanza 37.

Il gelo le scese nello stomaco. Erano sulle sue tracce. Chi o perché non lo sapeva e neanche le importava. La consapevolezza che la giustizia divina, in qualche modo, l'aveva finalmente raggiunta le tolse il respiro per un orribile attimo. Ribaltò con urgenza il pacco alla ricerca di un mittente, un indizio che potesse darle qualche informazione su chi le fosse alle costole.

Niente.

“Qualche problema, dolcezza?” La donna aveva interrotto il suo sproloquio per scoccarle un'occhiata scettica. Natasha si limitò a guardarla con occhi vacui per un lunghissimo attimo, in totale silenzio. Oh, quanto avrebbe voluto essere al suo deprimentissimo posto. Afferrò il pacco, lo infilò nel piccolo zaino che aveva con sé e se ne andò senza una parola di più, inseguita dal fastidioso schiocco della lingua della donna, che non doveva aver gradito la maleducazione di quel frettoloso congedo.

Percorse ad ampi passi il parcheggio, sbucò su una lunga strada assolata e deserta: la cittadina l'attendeva alla sua destra, montagne e polvere a sinistra. Guardò prima dall'una e poi dall'altra parte.

Poteva fuggire.

O poteva restare... e Natasha era stanca di correre.

Le bastarono pochi secondi per decidere: che quell'incubo abbacinante finisse pure. Non aveva più niente da perdere.

Svoltò a destra.

 

*

 

“So dov'è.”

“Aveva detto che ci avrebbe messo meno di quarantotto ore.”

Sì, dico sempre un sacco di cose, è la mia specialità. Trattenne per un istante il respiro, sentendo l'orecchio buono fastidiosamente sudato contro il display del telefono cellulare.

“Sto andando a prenderla, non ci vorrà molto.”

“Mi auguro di non aver riposto la mia fiducia nella persona sbagliata.”

La fiducia, non lo so, ma i suoi soldi sono decisamente al posto giusto. Nelle mie tasche.

“Non la deluderò,” la rassicurò in tono volutamente stucchevole, prima che il tu-tu-tu dall'altro capo del telefono lo informasse che la donna aveva appena troncato la comunicazione. “Stronza,” smozzicò a denti stretti.

Per come erano trascorsi quegli ultimi due giorni, era un miracolo che ci fosse ancora il chiodo fisso dei due milioni di dollari a tenerlo sull'attenti. Era stato costretto a ricordarsi che l'Arizona non è altro che un'abnorme fornace i cui abitanti cuociono a fuoco lento per l'intera durata della loro vita. In più, aveva dovuto scendere a patti col fatto che il suo obbiettivo aveva il brutto vizio di muoversi troppo rapidamente: non aveva fatto in tempo ad atterrare all'aeroporto di Phoenix che era già arrivato il momento di andarsene. Si era messo a chiedere in giro se avessero visto quella donna, mostrando la sua fotografia a bigliettai, controllori, guardie, negozianti all'interno della struttura. Dallo scatto non si capiva granché, ma il consenso comune era che si trattava di una bella donna, pallida, occhi verdi, capelli rossi e un corpo mozzafiato. Una fisicità che non le aveva permesso di passare inosservata: se qualcuno l'aveva vista, di certo non se l'era dimenticata. Il che andava tutto a suo favore.

Era riuscito a beccare un autista in pausa sul marciapiede antistante l'aeroporto, dove pullman andavano e venivano non-stop col loro carico di passeggeri passati o futuri. Ned, così gli aveva detto di chiamarsi, dopo qualche esitazione gli aveva confermato di averla scarrozzata a Florence, a qualche decina di chilometri di distanza dalla capitale dello stato. Clint non aveva perso tempo: era salito sul primo pullman diretto da quelle parti e, in un paio d'ore, era arrivato in quel buco dimenticato da dio – e a ragione – tra le montagne rocciose.

A quel punto non aveva fatto altro che ripetere la stessa tiritera: salve, sto cercando mia sorella, è scappata di casa da qualche giorno. L'ha vista per caso? Qui tirava fuori la fotografia, sfoggiando l'espressione più contrita e preoccupata del suo repertorio. Ma no, si figuri, solo una bravata, ma se non prende le sue medicine con regolarità rischia di mettersi nei guai. Chiamare la polizia? No, davvero, si figuri, la cosa l'agiterebbe e basta, e il cielo solo sa quanto sia ingestibile quando è nervosa. A questo punto fingeva di ricevere la telefonata da parte del genitore di turno, madre o padre non aveva importanza, al quale dava qualche insignificante aggiornamento. Il risultato era garantito al cento per cento. Mi scusi, sa, i miei genitori sono estremamente preoccupati. Non si è mai allontanata tanto a lungo. Saprebbe darmi almeno una dritta? In questo modo riusciva a togliere di mezzo qualsiasi possibile remora o esitazione: non era né un fidanzato geloso, né uno stalker, né un... esattore delle tasse. Solo un fratello terribilmente angosciato dall'improvvisa sparizione dell'amata sorellina: alla gente piaceva bersi quelle stronzate, la consapevolezza di aver fatto una buona azione li metteva di buon umore per tutto il giorno.

Così era arrivato, passo dopo passo, davanti ad un malfamato bar di periferia. L'insegna luminosa, attualmente spenta e a cui mancavano un paio di lettere, pendeva sbilenca sopra l'ingresso. Oltre la fatiscente costruzione si stagliavano alte montagne, mentre dall'interno provenivano grida e urla sommesse, incitamenti e cori di natura non meglio identificabile. Lo spiazzo davanti all'ingresso sarebbe stato deserto se non fosse stato per un paio di motociclette vecchio stile parcheggiate contro quel che restava di una vecchia, grezza staccionata. Dove cazzo sono andato a finire?

Ma la farmacista era stata chiara: la donna coi capelli rossi si era diretta proprio in quella direzione dopo aver acquistato delle aspirine. Sulla strada non c'erano nient'altro che cactus, polvere e quella bettola. Il calcolo della probabilità non lasciava grandi margini di dubbio, a meno che la famigerata Black Widow non avesse deciso di intraprendere una solitaria traversata del deserto... ed era piuttosto sicuro che non fosse tanto stupida.

Fece per entrare, quando un trio d'uomini uscì imprecando e bestemmiando sonoramente.

“Dannata puttana,” sputacchiò il primo, zigomo gonfio e sopracciglio spaccato.

“D-Diamole una lezione, Todd,” uno dei due compari suggerì, tenendosi gelosamente la mano destra al petto, le dita visibilmente lussate e l'orgoglio messo pure peggio.

Il terzo doveva aver appena bofonchiato un assenso, ma le attuali condizioni della sua bocca – ridotta ad una poltiglia rossa – non permettevano di distinguere le sue parole.

“Tu, va' a chiamare quel sacco di merda di Aaron,” era stato Todd a parlare, “digli di portare un po' dei suoi amici.” Mano Lussata accennò una protesta. “Digli che mi deve uno stracazzo di favore e che se non mi dà retta renderò la vita del suo sporco fratellino un inferno, alla fabbrica.” Non ci fu bisogno di ulteriore persuasione.

Clint li seguì con lo sguardo mentre si accostavano al ciglio della strada, meditando vendetta e macinando improperi e offese ad una velocità impressionante. Gli era un po' difficile da credere, ma suonava come se la colpevole di tutto quel trambusto fosse proprio una donna. Probabilmente una ridicola questione di gelosia che doveva aver scatenato la furia dei testosteronati presenti o, comunque, un'inezia simile. Non gli importava: tutto quello che gli interessava era trovare l'assassina, porre fine alle sue malefatte, tornare a casa per prelevare l'altro milione di dollari che lo attendeva da qualche parte, in una fredda e angusta cassetta di sicurezza, godersi il resto della sua vita.

Sistemò la sacca che aveva con sé sulla spalla dopo aver finito di arrotolarsi per bene le maniche corte della t-shirt bianca e sdrucita che indossava. Puzzo d'alcool, fumo e sudore lo raggiunse, asprissimo, non appena ebbe varcato la soglia del bar (in quel preciso istante, avrebbe volentieri scambiato il suo orecchio sordo con un naso malfunzionante). Vetri rotti scricchiolarono sotto la suola dei suoi stivali e qualcosa di non meglio identificato rendeva appiccicaticcio il pavimento, facendo cigolare ogni passo. Fantastico.

Un folto gruppo d'uomini a cui si aggiungevano – da quel che poteva vedere – un paio di donne, occupava il lato di fondo della catapecchia: sembravano riuniti in cerchio, impedendogli di vedere che cosa, di preciso, stessero osservando con tanta attenzione. Qualcuno gridava, i più applaudivano. Tavoli e sedie di diverse fatture e dimensioni erano stati spinti verso l'ingresso, presumibilmente per creare spazio... forse per la famosa rissa di cui Todd & co. avevano pagato lo scotto. Possibile che fosse ancora in corso?

Il barista lo accolse con un mugugnio esasperato: qualcosa gli diceva che detestava quella situazione, ma che non poteva fare proprio niente a riguardo. Era un ometto piccolo, sulla cinquantina, una camicia a quadretti sporca e pochi capelli rimastigli in testa.

“Ti serve qualcosa?” Lo apostrofò con fare scontroso.

“Una birra,” tanto voleva prendersela comoda, no? Per quel che gli era concesso di vedere di quel bugigattolo, non c'era proprio nessuna rossa mozzafiato nei paraggi. “Ghiacciata.” Gli passò una banconota da dieci, giusto per stabilire che non era un cazzone, che poteva pagare e che con il casino in corso non c'entrava proprio niente. Il barista biascicò una protesta, ma tirò fuori una bottiglia di Budweiser dal frigorifero sotto al bancone e prese i soldi senza obiettare.

“E il resto?” Non riuscì ad impedirsi di chiedere.

“Nessun resto. Quella birra costa dieci dollari, se non ti va bene, te ne puoi andare pure al diavolo.” Sparì nel retrobottega dopo avergli lanciato contro un paio di insulti totalmente superflui.

“Adoro questo posto,” commentò tra sé. Se non altro, un corposo sorso della sua bibita ghiacciata contribuì a rimetterlo al mondo... certo, era sudato e la maglia gli stava fastidiosamente appiccicata addosso; il manico della sacca aveva scavato nella pelle della sua spalla e il tessuto sintetico non faceva proprio niente per aiutare la traspirazione... ma aveva la sua birra. Che importanza poteva avere tutto il resto?

Qualcuno venne scaraventato a terra a pochissimi passi di distanza dal punto in cui Clint si era fermato davanti al bancone. Un tizio di circa quarant'anni, il vetro di un bicchiere conficcato in testa, il collo e il viso rossi per lo sforzo, le vene in evidenza in più punti. Ouch. Il cerchio si richiuse sullo scontro in corso prima che gli fosse possibile capire chi fossero i contendenti: non aveva mai visto nessuno incazzarsi in quel modo per una dannata scopata. Certa gente aveva solo bisogno di rilassarsi, rilassarsi sul serio però, con un po' di yoga magari o qualche altra stronzata del caso.

L'occhio gli cadde sul bersaglio delle freccette che giaceva inutilizzato su uno dei tavoli vicini, come messo in bella mostra per stuzzicare il suo interesse.

“Ehi!” Richiamò il barista, sporgendosi oltre il bancone. “Dove sono le freccette?” Nessuna risposta. Che posto del cazzo. Decise di andarsele a cercare da solo: se la donna non era in quel posto dove essersi avventurata nel deserto. E se avesse dovuto seguirla, allora avrebbe avuto bisogno di un mezzo di qualche genere. In ogni caso, gli sembrava ci fossero i margini di tempo giusti per prendersi una maledetta pausa. Il caldo gli aveva fatto fondere il cervello e il caos generale non aiutava minimamente. Nascose la sacca in un punto sicuro e, bottiglia alla mano, si avviò verso il gruppo inferocito in fondo alla bettola, cercando di sgusciare tra la gente alla ricerca delle freccette... o di quel che ne rimaneva. Gliene bastava anche solo una, giusto per sgombrare un po' la mente e riacquistare lucidità: era l'unica cosa che gli permetteva seriamente di riflettere, che l'aiutava a pensare.

L'ennesimo contendente – una donna stavolta – venne lanciato letteralmente contro il pavimento. Il cerchio si riaprì e stavolta Clint era abbastanza vicino per vedere chi, esattamente, stesse macinando tutti quegli avversari uno dopo l'altro. Una donna, meno di trent'anni, fisico minuto ma asciutto e compatto, i muscoli in evidenza sulle braccia e sull'addome lasciato scoperto dalla canottiera stracciata che indossava. La pelle pallida ricoperta di sudore, due evidenti occhiaie a deturparle il viso esausto, capelli rossi scuriti dall'umidità e uno sguardo folle negli occhi.

Non gli ci volle molto per fare due più due. Il campanello nella sua testa cominciò a suonare, ding-ding-ding, annunciandogli che aveva fatto centro.

“FORZA!” Sbraitò la ragazza, la voce roca per lo sforzo e – sospettò – lo sfinimento. Non aveva l'aria di aver dormito molto nelle ultime... quante? Trentasei ore? Settantadue? “Qualcun altro di voi stronzi vuole farsi avanti?”

Si susseguirono altre risate, altri insulti, qualcuno sputò nel bel mezzo dell'arena improvvisata: Black Widow – o quale diavolo era il suo vero nome – si premurò di tirargli un cazzotto in pieno viso. Era stato un movimento talmente rapido e repentino, che fino all'ultimo secondo neanche Clint fu in grado di intuire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Di solito era piuttosto bravo a prevedere il comportamento della gente: quell'attimo di defaillance ebbe l'effetto di turbarlo, disegnandogli un'espressione corrucciata sul volto.

“Allora?!” La donna aveva ripreso ad urlare, come impazzita. “Chi si vuole fare avanti?!” Fece saettare lo sguardo tutt'attorno, posandosi su questa o quella persona, mai convinta, sempre all'erta. Sembrava un animale rabbioso, famelico, alla ricerca della sua prossima preda, di uno sfogo.

Non capì immediatamente cosa la stesse trattenendo oltre in quel lurido bar: non aveva già pestato abbastanza musi lunghi? Cosa voleva dimostrare? Che era capace di farsi valere, nonostante le apparenze non promettessero proprio niente di buono? L'espressione che le leggeva sul volto, ferina, non aveva niente a che vedere con l'idea che si era fatto di Black Widow in quelle poche ore che erano seguite alla visita di Elizaveta Drakov. Se l'era immaginata placida, algida, astuta e calcolatrice: fredda all'esterno, ma capace di metter su un qualsiasi teatrino, quello più adatto all'occasione. La donna impazzita che stava dando spettacolo in mezzo a quella bettola di periferia non sembrava furba, né tantomeno saggia.

“Lui.”

Il movimento sincronico dei presenti che si voltavano verso di lui, lo destò dalle sue elucubrazioni. La ragazza, una mano sui fianchi sudati macchiati di sangue, gli stava puntando un dito contro.

“Voglio lui,” decretò in tono definitivo, senza togliergli gli occhi di dosso. Nonostante la luce folle che sembrava bruciarle dietro le iridi scure, Clint lesse una certa consapevolezza nel suo sguardo. Come se la donna avesse improvvisamente compreso qualcosa: magari l'aveva riconosciuto come il povero stronzo che si era fatto gabbare come un principiante anni e anni prima a San Francisco, o forse...

Si puntò a sua volta un dito contro, rivolgendole un'espressione adeguatamente perplessa.

“Io?”

“Fatti sotto,” lo invitò, continuando a tenerlo inchiodato al pavimento con la sola persuasione dello sguardo. I seni le si abbassavano e alzavano in rapida sequenza, sotto l'impeto del respiro irregolare. La stoffa di quel che restava della sua canottiera, aveva il brutto vizio di tirare proprio nei punti più...

“Non ci penso neanche,” replicò seccamente, annaffiando il rifiuto con un corposo sorso di birra. Il pubblico, fetente e mezzo ubriaco, scoppiò a ridere all'unisono.

“Che senso ha aspettare, ah?”

“Aspettare?” Clint non riusciva a capire. Si sottrasse malamente ai tentativi di un paio di scagnozzi apparentemente intenzionati a lanciarlo nella mischia, che lui lo volesse o meno.

“Chi cazzo è questo idiota?” Blaterò qualcuno.

“Un forestiere!” Decise un altro.

“Che razza di accento era quello?” Indagò un terzo.

Si sentì spingere bruscamente verso l'arena, senza poter far granché a riguardo. Quando le fu ad un misero metro di distanza, tra le grida che si alzavano dal gruppo, fu la voce bassa e pacata della donna a sovrastare tutte le altre.
“E' l'uomo che mi ucciderà.”

 

*

 

Il mal di testa sembrava essersi esteso a tutto l'emisfero destro, un dolore sordo che si riverberava da qualche parte dietro gli occhi. Si sedette su uno degli sgabelli liberi, ignorando le occhiate che le venivano lanciate da più parti.

“Acqua,” ordinò al barista che le si era avvicinato proprio in quel momento. Gli bastò un nanosecondo esatto per abbassare gli occhi dal suo viso alle sue tette, e lì li lasciò senza farsi troppi problemi. Natasha fece finta di niente, scolando il bicchiere che l'uomo le mise sotto al naso.

“Ancora,” lo esortò, riavvicinandogli il contenitore vuoto con un dito. Se lo fece riempire ancora un paio di volte prima di decidersi a buttarci dentro un'aspirina, ben sapendo che non avrebbe fatto proprio niente per mitigare l'emicrania. Solo una sonora dormita avrebbe potuto curarla e Natasha era piuttosto convinta che non avrebbe trovato la forza di riposarsi neanche tra un milione di anni. I nervi tesi, i muscoli in tiro, lo stomaco contratto. Da quanto non mangiava? Qualcosa le suggeriva che era l'ansia a tenerla in piedi, o la paura, forse. Nient'altro.

“Ti sei persa, bellezza?” Uno sconosciuto aveva preso posto sullo sgabello accanto al suo, sporgendosi fastidiosamente verso di lei.

“Non sono in vena,” troncò la conversazione sul nascere. L'uomo sorrise, voltandosi verso un gruppetto di compari che lo attendevano seduti ad uno dei tavoli di fondo del bar. Qualcuno doveva avergli lanciato degli incoraggiamenti di qualche tipo.

“Non sei in vena, peccato. Possiamo divertirci.”

“Ho detto che non sono in vena,” ribadì, il pulsare alle tempie e dietro gli occhi sempre più intenso.

“E andiamo, bellezza... scommetto che vieni da una grande città, ah? Una come te...”

“Basta,” si voltò di scatto verso di lui, la furia negli occhi, il volto deformato dalla rabbia.

“Woah,” scoppiò in una risata odiosa. “Non ti pare di essere un po' troppo definitiva?”

“Fottiti.”

“Modera i termini, stellina,” il divertimento prosciugato poco a poco dal suo viso.

“Tipo? Fottiti non va bene?” L'uomo l'afferrò malamente per un braccio, affondando le dita nella sua pelle morbida.

“Sta' molto, molto attenta.”

Gli rivolse un sorriso gelido, mentre qualcosa di non meglio identificato – la paura o forse la frustrazione – le risalì su per lo stomaco, andando a colpire tutti i punti giusti, attivando un interruttore dopo l'altro.

“Oh, sono attentissima...”

Schiantare il bicchiere contro il bancone, afferrare un pezzo di vetro e piantarglielo nella mano che ancora la stringeva, fu un attimo. Aggiungerci due pugni in pieno viso per giusta misura, poi, le venne spontaneo. Col cervello in tilt, le sembrava che il suo corpo stesse facendo tutto da solo, che stesse prendendo l'iniziativa: giurò a se stessa che non aveva voluto pestare anche gli amichetti accorsi in aiuto dello sconosciuto, eppure l'aveva fatto. Quando gli avventori del bar l'avevano messa nel mezzo, qualcuno tenendola ferma mentre altri le mettevano le mani addosso un po' ovunque, non era stata sua intenzione scatenare la rissa, mordere a sangue chi la imprigionava, afferrare un boccale e schiantarlo sulla testa di un altro, stritolare le dita di un terzo, abbattere l'ennesimo gancio destro sui denti di un altro ancora... era successo e basta.

Le forze di causa-effetto si erano perse per strada, come in un sogno dai contorni indefiniti. Gli arti le bruciavano e lo stomaco sembrava finalmente cominciare a rilassarsi, i nervi, come fattisi incandescenti, parevano placati. Non le importava se si trattasse di un'illusione o meno... quel che contava era come si sentiva, e adesso, dopo aver sprecato le poche energie che le rimanevano, dopo aver messo mano alla scorta che neanche credeva di avere, stava meglio.

Sostituire un avversario dopo l'altro le era venuto istintivo: era in cima alle montagne russe, in preda ad una vera e propria sbronza, alla botta di una qualche droga invisibile, e per niente – niente – al mondo avrebbe mai voluto scendere.

Finché quell'uomo non le si era palesato davanti: le era saltato agli occhi come una palma nel bel mezzo del polo nord. Dolorosamente fuori posto. Qualcosa, da qualche parte nello stomaco, le diceva che era lì per lei. Dopotutto, non lo stava forse aspettando? Certo, non poteva sapere sotto che forma il castigo divino l'avrebbe raggiunta, ma era consapevole del fatto che sarebbe arrivato comunque. Il pacco che aveva ricevuto quella mattina stessa – che adesso giaceva intonso nel suo zaino – non era stato che un ambasciatore inanimato, arrivato a preannunciare l'arrivo di cose ben peggiori. Natasha non aveva mai dubitato che qualcuno l'avrebbe seguito... e adesso, quel qualcuno, ce l'aveva proprio davanti.

“Come fai a sapere che sono qui per ucciderti?” L'uomo, non molto alto, strizzato in una maglietta bianca, aveva l'aria di essersi perso nel posto sbagliato.

“Non ti confondi tanto bene con la fauna locale,” ribatté, girandogli lentamente attorno, pronta all'attacco.

“Non lo farò qui davanti a tutti,” sentenziò, un'espressione dannatamente seria sul volto.

“Sei il tipo pudico?”

“Sono il tipo a cui piace non avere testimoni.”

“Saggio.”

“Lo sai che Todd & co. stanno per tornare con la cavalleria?”

“Non conosco nessun Todd.”

“Bè, lui conosce te.”

“Non sono qui per parlare,” puntualizzò esasperata, sentendo la frustrazione tornare a gonfiarle il petto. “Voglio combattere.”

“Combattere non ti salverà la vita.”

“E chi ha parlato di salvarsi la vita? Tu...” un impercettibile mutamento nel tono, “parli troppo.”

Gli si scagliò addosso con una serie di colpi veloci che andarono tutti a vuoto, proprio mentre grida dall'ingresso arrivarono a catalizzare l'attenzione del suo pubblico. Lo sconosciuto la colpì con un cazzotto in pieno stomaco e uno dietro il collo. Mentre il caos imperversava tutt'attorno e la rissa si propagava a tutte le file concentriche, Natasha cominciò a vedere doppio. Merda...

“I tuoi amici sono tornati,” lo sentì dire, mentre ancora la teneva per il collo. Lo colpì violentemente al petto e al fianco un paio di volte, ottenendo solamente di fargli stringere la presa. “Guarda in che razza di casino mi hai messo.”

Sentì le gambe cedere sotto il proprio peso, improvvisamente inutili. Doveva aver raggiunto il limite delle energie concesse e adesso le toccava pagare pegno per tutte quelle che aveva appena speso. Solo una dannata principiante si sarebbe fatta cogliere dal suo assassino in un momento tanto inopportuno.

“Uccidimi... i-in fretta e... e b-basta,” mormorò, una supplica forse. Non era nemmeno troppo sicura di aver parlato davvero. Le immagini si confusero sempre di più, i suoni si fecero sempre più ovattati e distanti, e le braccia dello sconosciuto erano così solide che non riuscì proprio ad impedirsi di lasciarsi sostenere come una bambola di pezza.

Il mare nero dell'incoscienza si richiuse su di lei.



__________________________________________

Note:
Eeee i primi due "Avengers" si incontrano-scontrano nella polverosa Arizona. Natasha alla deriva e Clint dietro ai soldi... e c'è quel misterioso pacco ad accomunarli.
Non ho molto altro da dire a parte ringraziare chiunque abbia letto, sbirciato e commentato :3 mi fa tanto piacere! E solito shout-out di rito alla socia/beta/supportomorale Eli <3
Buon weekend a tutti e al prossimo capitolo! :D
S.
  
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