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Autore: Leoithne    13/09/2014    2 recensioni
Sei mesi erano passati dalla caduta di Sherlock. Sei mesi di lutto per John Watson, sei mesi di dolore. Ma John continua a sperare...
Genere: Angst, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buongiorno a tutti e grazie anche solo di aver perso un po' del vostro tempo per aprire questa oneshot e darle un'occhiata.
Prima della lettura è doveroso fare un appunto. Questa oneshot è la traduzione di una mia in inglese (la trovate sia su FF.net, sia su AO3) e, come sempre, rimango poco soddisfatta da come risulta in italiano. Quindi, se siete abbastanza coraggios*, vi prego di leggerla anche in inglese perché, davvero, rende molto meglio. Secondo punto: le parti della canzone scritte in blu sono quelle sentite da John, le altre no.

 

 

Pull my heart out
My memories of him I fail
To feel
To hear
To scent his smell.

(Strappatemi il cuore
Le mie memorie di lui, fallisco
Nel provare
Nell’udire
Nel sentire il suo profumo)

 
John Watson si svegliò nel bel mezzo della notte, lo stesso incubo che lo stava perseguitando da sei mesi a questa parte.

Sherlock sul tetto del Bart. Sherlock che gli parlava al telefono. Sherlock che gli diceva ‘Addio, John’ prima di allargare le braccia e cadere giù. Lui che guardava, supplicava, sperava che fosse solo un brutto sogno. Un orribile brutto sogno. Poi il corpo di Sherlock aveva colpito il suolo e ogni cosa intorno a John aveva smesso di muoversi. Poteva soltanto sentire il suono del suo cuore battere nel petto, il suono del dolore colpire proprio lì, il suono del suo cuore spezzato in due.

Sei mesi erano passati dalla morte del suo migliore amico. Sei mesi per elaborare il lutto e per imparare come sopravvivere al vuoto della sua vita.

Si girò nel letto, lacrime ai lati degli occhi, provando lo stesso dolore che aveva provato mesi prima. Il dolore, quel dolore non lo avrebbe mai lasciato, non avrebbe mai cessato di esistere al suo interno.

Ogni giorno era uguale al giorno precedente. Ogni mattina si sarebbe alzato e preparato per andare al lavoro. Ogni mattina avrebbe acceso la TV per controllare che il suo desiderio fosse diventato realtà: ‘Ancora un miracolo, Sherlock, per me. Non essere…morto.’ Aveva aspettato, aspettato a lungo per un segno. Aveva aspettato che lui tornasse. Tutti gli avevano detto che doveva accettare la realtà. Lui proprio non ci riusciva.

Anche quel mattino si preparò la colazione, i ricordi della notte appena trascorsa ancora nella sua testa e il rumore della televisione dietro di lui. Notizie che riguardavano il tempo, notizie sull’aumento della criminalità nella città, notizie di matrimoni. Nessuna notizia riguardante Sherlock, ovvio. All’improvviso la giornalista smise di parlare.

 
I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

(Sarò sopra queste luci della città
Nessuno deve saperlo
Solo tu.)

 
Cos’era stato? Si diresse immediatamente verso la televisione per vedere cosa fosse successo, ma la giornalista era ancora lì ad annunciare un aumento del prezzo del cibo a causa dei continui temporali che stavano flagellando il paese. John se l’era immaginato. Dopotutto era stanco. Aveva trascorso una notte quasi completamente insonne e ne aveva già passate molte altre come quella.

Era giunta l’ora di andare in clinica. Aveva una giornata piena da affrontare. Dodici ore di tortura. Era stato lui che aveva chiesto alla clinica di assegnarli un maggior numero di ore. Aveva pensato che il lavoro lo avrebbe aiutato. Era stato uno sciocco. Nulla poteva aiutarlo. Spense la TV.

 
He is gone now
Without him world is but despair
“Can someone please just take me there?”

(Adesso se n’è andato
Senza di lui il mondo non è che disperazione
“Qualcuno, per favore, può portarmi là?”)

 
Ogni giorno era uguale al giorno precedente. Si diresse verso la stazione della metropolitana vicino al 221B e aspettò che il convoglio arrivasse. La sua testa ancora persa nel suo incubo quotidiano. Non voleva andare direttamente al lavoro e perciò scese dal treno due stazioni prima della sua. Il tempo era buono, ma delle nuvole stavano cominciando a raccogliersi nel cielo blu della città. I ricordi del suo passato con Sherlock alla deriva nella sua mente proprio come le nuvole. La vita era insopportabile senza il suo coinquilino, senza il suo migliore amico, senza l’uomo che lui…no, non osava pronunciare quelle parole. Lo ferivano troppo. Camminò lentamente lungo il ponte sul Tamigi.

 
The calm
Cool face of the river
Asked me for a kiss.

(La calma
Fredda faccia del fiume
Mi chiese un bacio.)

 
Due volte si era trovato sopra quello stesso ponte di notte, ubriaco al punto che non poteva neanche riconoscere dove fosse, chi fosse. Tutto quell’alcool solo per dimenticare la sua miserevole vita, tutto quell’alcool per tentare di dimenticare il dolore. Tutto quell’alcool a fargli sentire la ferita ancora più profondamente. Si era fermato ad ammirare il lento, ma fiero movimento delle acque sottostanti. Sarebbe stato semplice. Un salto nella loro oscurità illuminata dalle stelle e tutto avrebbe smesso di esistere. Sarebbe stato così semplice. Non riusciva ancora a capire perché non aveva saltato, perché aveva preferito la tortura del vivere senza Sherlock all’oblio della morte. E tuttavia aveva deciso di andarsene e dunque vivere.

Adesso che vi passava sopra, le memorie dei suoi giorni felici con il suo coinquilino che gli tornavano in mente, mescolandosi con i suoi incubi, con la viva immagine della stele nera in quel cimitero, distante da tutte le altre. Il suo nome dorato inciso su di essa: Sherlock Holmes. Quella era la parte peggiore dei suoi incubi, perché non smetteva di esistere ogni qualvolta si svegliasse. La caduta dal tetto del Bart, quello era il passato, il sogno. Ma la tomba era un presente senza fine, la realtà.

Arrivò in clinica più tardi di quello che avrebbe dovuto. Sapeva che allo staff non importava. Persino i capi lo lasciavano in pace col suo dolore. Nessuno sapeva davvero cosa stesse passando perché il suo stato interiore era al di là di ogni possibile descrizione. Non aveva neanche le parole giuste per esprimere cosa stesse provando. Dolore, paura, lutto, agonia, tormento, nostalgia, mancanza. Una massa di parole adeguate. Nessuna neanche vagamente vicina alla verità.

Ogni giorno era uguale al giorno precedente. Nulla di inusitato accadeva. Nulla. Con Sherlock era stata adrenalina ogni giorno. Adesso era paziente, paziente, paziente, pausa pranzo, paziente, paziente, paziente, piccola pausa pomeridiana, altri pazienti. I primi giorni senza Sherlock aveva controllato il cellulare febbrilmente, sperando in un messaggio che non aveva mai ricevuto.

 
I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

(Sarò sopra queste luci della città
Nessuno deve saperlo
Solo tu.)

 

Non aveva la radio dell’ingresso appena trasmesso la stessa cosa che aveva sentito alla televisione quella mattina? Ma no, era solo una nuova cover di una canzone dei Beatles. Eppure era sicuro di aver sentito qualcosa di diverso. Stava impazzendo? La morte del suo migliore amico lo stava portando al limite della sanità mentale? Un altro paziente entrò ed uscì dal suo ufficio. Un altro giorno passò.

Ogni giorno era uguale al giorno precedente. Le otto di sera arrivarono, il suo turno finì. Era esausto, ma sapeva che non avrebbe dormito. Il suo incubo, quella notte, lo avrebbe cacciato di nuovo. Uscì dalla clinica. Il tempo era cambiato durante il giorno ed ora il cielo era completamente coperto da nuvole nere, alcuni lampi e tuoni in lontananza a preannunciare un temporale imminente. L’aria era fredda e John si sforzò di mantenersi caldo fino alla stazione della metropolitana.

Mind the gap between the train and the platform, change here…
(Attenzione alla fessura tra il treno e la piattaforma, cambiare qui…)

Disse la familiare voce metallica attraverso gli altoparlanti. Ma la voce si fermò.

 
I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

 (Sarò sopra queste luci della città
Nessuno deve saperlo
Solo tu.

Sarò sopra queste luci della città
Nessuno deve saperlo
Solo tu.)

 
No. Questa volta l’aveva sentito chiaramente. Era la stessa cosa che aveva sentito quella mattina, la stessa che aveva sentito il clinica. Eppure sembrava l’unico ad averla notata. Alla gente sulla piattaforma non importava e andavano avanti con le loro vite. Ma la sua testa stava elaborando a grandissima velocità. Che cosa significavano quelle parole? Non avevano alcun senso. Sopra queste luci della città. Quello fece scattare un campanello nella sua testa. Dovette combattere a lungo per ricordarsi dove le aveva sentite. Quando finalmente si ricordò chi aveva pronunciato qualcosa di simile, gli prese un colpo.

Si ricordò di Sherlock su un tetto. Non il tetto del Bart, un altro. Avevano lavorato ad un caso per cui c’era stato bisogno di prendere parte ad un ricevimento sul tetto di un grattacielo nello Square Mile di Londra. Ad un certo punto Sherlock aveva dichiarato che si trovavano al di sopra di tutte le luci della città.

Adesso il suo cuore batteva forte nel petto. Forse Sherlock lo stava chiamando? Sherlock era vivo? No, era impossibile, gli diceva la testa. Eppure il suo cuore voleva crederci. O era forse la sua testa che gli stava giocando ancora brutti scherzi? I primi giorni senza Sherlock erano stati duri per quel motivo. Aveva creduto di vederlo ovunque, di sentire la sua voce in quella di ogni persona. Ancora adesso, sei mesi dopo, a volte aveva la sensazione di sentire il detective che lo chiamava. E se poi era un qualche criminale che lo voleva uccidere perché era stato il miglior amico di Sherlock?

Il suo corpo prese la decisione per lui. Cambiò treno tre volte e, prima di rendersene conto, stava fissando quello stesso grattacielo. Aveva appena iniziato a piovere ed era senza ombrello. C’era vento forte, tuoni e fulmini, foglie che roteavano nell’aria gelida. Si bagnò fino alle ossa in brevissimo tempo. I suoi capelli erano bagnati, i suoi vestiti erano bagnati, il suo cuore, invece, tratteneva una piccola luccicante fiammella di speranza. Cercò di indugiare in quella per non sentire il vento e la pioggia fredda che gli frustavano il viso, facendolo tremare violentemente. Il grattacielo era vuoto, poiché era sottoposto ad alcuni lavori di restauro. Le porte avrebbero dovuto essere chiuse e ci sarebbero dovuti essere allarmi e guardie. Eppure quando spinse la porta d’ingresso, si aprì. Nessun segno di guardie o allarmi. L’entrata era buia, illuminata soltanto dai lampioni all’esterno. Si avvicinò agli ascensori, dubitando che funzionassero. E invece andavano. Salì fino al tetto.

La pioggia lo colpì ancora più violentemente di prima, perché il vento era più forte lassù. Si sforzò di guardarsi intorno, tentando di tenere gli occhi aperti mentre fiumi d’acqua scorrevano su di essi. Tutto intorno diventava nero, diventava bianco.

In lontananza vide la scura figura di un uomo retroilluminata, definita dagli sprazzi dei lampi dietro di lui. La pallida pelle della sua faccia che sbiancava al loro tocco. I suoi capelli neri ancora arricciati sotto la tempesta. Lo riconobbe immediatamente. La sua silhouette così familiare e, tuttavia, così strana.

 
“Can’t go on”
A crowd of ghosts surrounding sings
A pair of silver banshee wings.

(“Non posso continuare”
Una folla di fantasmi che mi circonda canta
Un paio di ali argentee di banshee.)

 
Non riuscì più a muoversi, i suoi piedi incollati al pavimento, l’intero corpo che tremava. E non per la pioggia. Quello era un fantasma. Non poteva essere. Riuscì a fare altri tre passi. Non appena un lampo più luminoso bruciò il cielo, incontrò gli occhi acquamarina dell’altro uomo.

“Ciao, John.”, l’uomo parlò “Sapevo che avresti ricevuto il mio messaggio.”

Quella voce. L’avrebbe riconosciuta tra milioni. Quella voce che aveva tanto a lungo desiderato sentire di nuovo arrivò alle sue orecchie mischiata al suono della pioggia battente sul pavimento.

“Sherlock.”, John rispose, sconvolto e perso “Eri morto.”

Non riuscì quasi a credere alle sue parole quando le pronunciò. Eri morto.

“Non esattamente.”, rispose sicuro.

“Com’è possibile?”

“Non mi è permesso dirtelo.”

Sherlock confessò, occhi fissi sul dottore. La pioggia che cadeva sempre più forte, ma John non la sentiva più. Invece sentì la rabbia ruggire dentro di lui, bruciarlo, nonostante le gocce gelide sulla sua pelle.

“Tu!”, urlò con rabbia “Tu mi hai lasciato in lutto per sei mesi, Sherlock! Sei dannatissimi mesi! Pensavo di aver perso tutto da quando ho perso te! Pensavo che non sarei riuscito ad andare avanti senza di te! Ti ho persino supplicato di fronte alla tomba! Ti ho chiesto di non essere morto!”

“C’ero, John.”, Sherlock rispose con calma “Ti ho sentito.”

Quello non poteva sopportarlo. No, quello John non poteva proprio sopportarlo. Aveva pensato di essere in qualche modo importante agli occhi di Sherlock. Invece aveva finto la sua morte e lo aveva lasciato soffrire. La sua esasperazione che ruggiva ancora più forte.

“E non ti sei avvicinato a me! Mi hai lasciato lì, sofferente, col cuore spezzato! Come hai potuto?”, le parole che gli morirono sulle labbra appena Sherlock parlò.

“Ho potuto, John.”

“Perché?”, ruggì ancora una volta.

“Per salvarti la vita. Saresti morto se non fossi saltato giù da quel tetto. E saresti in pericolo di nuovo se si sapesse che sono ancora vivo.”

Il cuore di John si raggelò. Le parole che gli sfuggirono dalle labbra senza che se ne rendesse conto.

“Come?”

Sherlock non rispose alla domanda. Al contrario un doloroso lamento uscì dalla sua bocca. John era un dottore. Capì immediatamente che Sherlock era ferito da qualche parte e che gli stava facendo tremendamente male. La soglia di resistenza al dolore del detective era più alta di quella degli altri. Perciò era una ferita profonda. Probabilmente stava anche facendo fatica a reggersi in piedi.

“Sherlock!!!”, urlò correndo verso di lui, dimentico di tutto se non del suo amico.

Sherlock tossì e del sangue uscì dalla bocca.

“Che cos’è quello, Sherlock?”, chiese John in ansia “Qualcuno ti ha fatto del male? Cosa è successo?”

“Nulla. Sto bene.”, l’altro rispose, calmo.

“No, non stai bene.”

Ovvio che non stava bene. Gli stava ancora mentendo.

“Lasciami vedere. Posso fare qualcosa…”

Ma non appena gli fu vicino, Sherlock fece alcuni passi indietro.

“È meglio che tu non veda.”, disse, quasi supplicando.

John si fermò, non sapendo cosa dire o cosa fare. Prese il fazzoletto dalla sua tasca e rimosse con amore il sangue dalle labbra di Sherlock. La bianchezza del cotone macchiata di macchie nere, macchie rosso vivo quando i lampi illuminavano il cielo.

“Bè,” riuscì a dire “se non vuoi che io la veda, perlomeno mostrala a qualcun altro. Per favore, Sherlock. Non puoi semplicemente andare in giro con una ferita simile. Nei tuoi occhi vedo quanto è dolorosa, anche se non lo ammetteresti mai. Per favore, Sherlock, trova qualcuno che se ne prenda cura.”

“L’ho già fatto, John.”, disse il detective “Sono a Londra proprio per questo motivo. Per ricevere delle cure. Dovrei essere in un letto d’ospedale in questo momento. Non qui sotto la pioggia.”

“Idiota.”, disse John, un sorriso gentile sulle sue labbra.

“Non dovrei proprio essere qui. Ti sto mettendo in grande pericolo nel farlo.”, continuò.

“Non m’importa.”, rispose il dottore.

“A me sì.”

“Cosa?”

“A me importa, John. Non voglio che tu muoia.”, sospirò.

“Ma potrei…sono già stato in pericolo prima d’ora. Lo siamo stati!”

“Questa volta è diverso. Se qualcuno scopre che sono vivo, potresti essere morto entro domattina.”

Ok. John stava cominciando a trovare difficile il respirare.

“È per questo che ho usato la canzone.”, spiegò il detective “So che soltanto tu avresti capito a cosa mi stessi riferendo. E avevo ragione.”

John non capiva. Sherlock era in pericolo a stare su quel tetto. Lui era in pericolo a stare su quel tetto. Eppure erano lì. Dovette porre la domanda.

“E allora perché sei qui?”

Sherlock si avvicinò, le due facce a pochi centimetri di distanza. John poté notare una cicatrice recente sul collo di Sherlock, ma non disse nulla.

“Perché volevo vederti.”

Sherlock sussurrò, ma la sua voce riecheggiò sull’intero corpo di John più forte delle gocce di pioggia che ticchettavano sulla sua pelle.

“Perché avevo bisogno che sapessi che fossi vivo.”, continuò “Perché ho bisogno di te.”

Le loro labbra s’incontrarono meno di un secondo dopo, le bocche a scontrarsi l’una nell’altra. Tutto quello che John sentì fu il calore del bacio, la lingua di Sherlock che si arrotolava nella sua bocca, che tastava, esplorava, lo divorava appassionatamente, disperatamente. Poteva percepire il dolceamaro del sangue nella bocca del detective. Era il paradiso, era l’inferno. Tra tutte le gocce di pioggia sulle labbra di Sherlock, sentì qualcosa di salato. Aprì leggermente gli occhi.

Poteva con certezza affermare che non tutti i ruscelli sulla faccia di Sherlock fossero gocce di pioggia. Il detective stava piangendo in silenzio, ma non interrompeva il bacio. Il cuore di John si spezzò un pochino, la sensazione che l’altro uomo stesse per partire per un luogo mortalmente pericoloso, ma non disse nulla. Semplicemente continuò a baciarlo, baciarlo, baciarlo, sperando che durasse per sempre, sapendo che non sarebbe successo.

Improvvisamente Sherlock si staccò.

“Devo andare, John.”, disse.

“No.”, supplicò John.

“Devo.”

E voltò le spalle a John, camminando verso l’ascensore.

“Potrei non tornare.”, disse prima di oltrepassare la porta, non guardando John, la sua voce un roco gemito “Ma se mai sentissi quella canzone di nuovo, sarò qui ad aspettarti.”

“Sherlock, io…”, ma morì sulle sue labbra, il detective già scomparso all’interno dell’edificio.

 
“So please just hold on”
My body echoes from their shrill
This heart is slowly beating still.

(“Per favore resisti”
Il mio corpo che echeggia per il loro grido
Questo cuore che ancora lentamente batte.)

 
John era di nuovo solo sotto la pioggia, quelle tre parole che aveva tanto a cuore ancora non dette. Il suo cuore era sollevato perché Sherlock era vivo. Il suo cuore mezzo morto perché se n’era andato, di nuovo.

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Ogni giorno tornò ad essere uguale a quello precedente.

Tre mesi dopo era un tardo pomeriggio di maggio. John era in metropolitana, poiché stava tornando a casa dalla clinica.

 
I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

(Sarò sopra queste luci della città
Nessuno deve saperlo
Solo tu.)

 
Quella sera si ritrovò sullo stesso tetto. La figura di Sherlock Holmes era illuminata dal sole che spariva dietro agli edifici, oltre l’orizzonte. I suoi riccioli scompigliati dal vento bruciavano come fiamme rosse.

Il detective guardò John. Era pallido, più magro che mai, con cerchi viola sotto i suoi occhi. Aveva un aspetto orribile, ma era vivo.

“Ti amo anch’io, John Watson.”

Disse, rispondendo alle parole non dette di John.

 
I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

I’ll be above these city lights
No one needs to know
But you.

 

 

Nota della traduttrice/autrice:

1) Ho deciso di tradurre anche il testo della canzone perché ha senso nel contesto.
2) "Mind the gap between  the train and the platform, change here..." : se qualcuno di voi non è mai stato a Londra, è il messaggio che sentite dagli altoparlanti di praticamente ogni stazione della metro londinese.
3) Lo "Square Mile" che cito (il Miglio Quadrato) è il cuore economico della città, il centro della City. Ha moltissimi grattacieli.
4) La canzone che ha ispirato tutto ciò è la bellissima, magnifica, straordinaria "Above These City Lights" degli incredibili Agent Fresco, che non ringrazierò mai abbastanza per la loro musica.

  
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