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Autore: Jetag    14/09/2014    3 recensioni
Cosa sarebbe successo se Shooting Stars fosse stato ambientato nella terza stagione? E cosa sarebbe successo se fosse stata una vera sparatoria?
Future!Fic totalmente incentrata su Santana e i suoi fantasmi.
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"Era stata una ragazza orgogliosa un tempo, Santana, ma la vita si era presa anche quello. Il suo carattere, il suo sorriso con le fossette, il suo cuore solo apparentemente ricoperto di ghiaccio.
Ma i ricordi no, non li voleva quelli."
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Quarta classificata al "Tempo di… Tag! Contest Multifandom a Pacchetti" indetto da Ili91 e vincitrice del premio speciale "Miglior Plot"
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Quarta Classificata e vincitrice del premio speciale "Miglior Plot" al contest indetto da Ili91: Tempo di... Tag! Contest Multifandom a Pacchetti 


Nick: Jetag
Titolo: Fourteen Guns

Fandom: Glee
Genere: Angst, Malinconico
Rating: Arancione
Pairing/personaggi: Santana Lopez 
Pacchetto scelto: Angst (2)
Prompt utilizzato: Morte
Avvertimenti/Note: What if?, Tematiche Delicate 
Nda: Cosa sarebbe successo se Shooting Stars fosse stato ambientato nella terza stagione? E cosa sarebbe successo se fosse stata una vera sparatoria? 
Future!Fic totalmente incentrata su Santana e i suoi fantasmi. 
Il titolo prende spunto dalla canzone dei Green Day, "21 Guns".

 

 

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Fourteen Guns
 

Santana sedeva per terra, nel centro di un piccolo parco pubblico di New York. 

Erano le otto, forse. 

Non avrebbe saputo distinguere nulla della posizione del sole, al sicuro dietro uno spesso strato plumbeo di nuvole. Aveva perso la concezione del tempo, ancora una volta, cercando di non lasciare al proprio cervello carta bianca sulla direzione dei propri pensieri. 

Faceva quasi freddo, per essere in maggio, ma quella leggera umidità le penetrava nelle ossa senza darle la possibilità di provare realmente dei brividi dovuti alla frescura della sera. 

L'ennesimo ciuffo di erba venne catturato dalle sottili dita di Santana e poi rilasciato sul prato quasi volesse chiedere scusa, cercare di rimettere tutto com'era prima e poterlo strappare un'altra volta. 

Ma Santana sapeva che non era possibile restaurare il passato, lo spazio terroso che le si era creato attorno ne era l'inconfutabile prova. Come il suo di passato, felice che strideva contro la solitudine del presente. E lei, come l'erba, era stata ributtata dov'era prima ma ormai irrimediabilmente distrutta. E lei non poteva chiedere scusa. Non aveva più nessuno da cui farsi perdonare.

Era stata una ragazza orgogliosa un tempo, Santana, ma la vita si era presa anche quello. Il suo carattere, il suo sorriso con le fossette, il suo cuore solo apparentemente ricoperto di ghiaccio. Ma i ricordi no, non li voleva quelli.

Restavano lì ancorati in un angolo della sua mente, e alla prima svolta sbagliata Santana doveva farci i conti. Una volta era il vecchietto che lanciava pane secco alle papere, un'altra qualcuno che cantava in un modo tanto delicato e soave da risvegliare gli orsi in inverno, o altre volte ancora bastava un semplice gelato alla fragola per portare indietro più ricordi e dolore di quanto avrebbe mai pensato potesse sopportare.

E Santana, Santana non sapeva se era ancora viva grazie a quelle memorie che la tenevano desta o se le ferite stavano diventando troppo profonde per essere curate. 

Non lo sapeva, troppo presa dal contare i petali di una margherita o distratta dall'ondeggiare leggero delle altalene attorno a lei, mosse dal vento o dalle mani di madri amorevoli, che la facevano sentire meno sola. Circondata da spettri non suoi, ma da quelli delle infanzie di bambini che magari un giorno non sono più tornati a casa, di ragazzini cresciuti che invece dormono ancora nei loro letti caldi o di giovani adulti che hanno raggiunto il versante di Dio troppo presto. 

Come era successo ai suoi di spettri. 

Ma loro, loro non la lasciavano mai, anzi andavano di pari passo con i ricordi. E Santana si chiedeva quale di loro le avrebbe fatto del male la prossima volta. E Santana si chiedeva se sarebbe poi giunto il giorno in cui non chiedersi niente. 

Non chiedersi dove prendere il gelato, non quale strada prendere per andare a lavoro, non a quale persona avrebbe potuto stringere la mano. Senza che loro si svegliassero, senza che l'aggredissero, senza che la portassero via, lontana dalla realtà. E Santana non sapeva, non voleva darsi una risposta, perché dentro di sé lo sapeva che quel giorno non sarebbe giunto mai.

E poi, Santana lo sentì il cambiamento impercettibile nell'aria, come succede quando la luce di quelle lampadine economiche varia di tonalità. Vide il cielo scurirsi, perdere quel grigiore pallido e lasciare spazio al nero di pioggia. Le altalene si immobilizzarono, lasciando i bambini tornare a casa per farsi abbracciare dalle braccia sicure del padre, di contro alle prime gocce e ai primi lampi. 

Santana, invece, non aveva più nessuno da cui tornare, nessuno da cui farsi abbracciare, nessuno da cui farsi rassicurare. Così rimase seduta sul prato a gambe incrociate, sperando che magari grazie all'acqua, l'erba che aveva maltrattato pur di non farsi maltrattare dai suoi stessi pensieri, rinvigorisse e tornasse come prima. 

Lo sperò ancora. Ma lo sapeva, lo sapeva che niente guarisce. 

Lei non era guarita, l'erba non sarebbe guarita. Non si può guarire. Non ci si può salvare. Non si può rifiorire. 

C'è un tempo per tutto, e quello dell'erba era finito. Anche il tempo di Santana era finito per molti versi, mentre per altri invece era interminabile. 

Santana sapeva di essere sbagliata lì in quell'attimo di vita, come tutti quelli passati e tutti quelli a venire. Lei non sarebbe dovuta essere già da molto tempo. Poteva quasi vederla la sua lapida marmorea accanto a quella degli altri, come avrebbe dovuto. Ma no, non c'era l'ultima pietra lattea in quella fila dell'orrore. Ne mancava una, giusto una, lo si vedeva. 

Santana sapeva che non avrebbe dovuto respirare quell'aria precedente al temporale, lei avrebbe dovuto venire erosa, decomposta da quella stessa acqua. Aveva sbagliato tempi, era sopravvissuta quando avrebbe dovuto morire. Eppure si direbbe, guardandola, che era morta quando avrebbe dovuto sopravvivere. 

Cazzate. 

Solo dopo uno sguardo così superficiale, si potrebbe pensare che Santana fosse morta dentro. Ma lei no, non era morta, lei viveva perché soffriva. Se fosse morta, allora non avrebbe provato più nulla forse, sarebbe diventata un'automa. E forse sì, lo sembrava con quei suoi movimenti ripetitivi e lo sguardo vacuo, ma non era morta. 

Oh, no. 

Santana non aveva smesso di provare, di sentire. Non avrebbe smesso mai, nemmeno quando non c'era più nulla che non avesse già sofferto. 

Viveva del suo dolore, la disperazione era la sua energia vitale, si cibava di memorie. Il suo cuore non era freddo, non era duro e non era vuoto. Anzi, era pieno. Di quei maledetti ricordi, di quelle maledette facce, di quelle maledette voci. Le loro voci, Dio! 

Se le ricordava così bene. Le parole mangiate dalla fretta di dirsi tutto tra una pausa e l'altra, le loro risate divertite, le loro scuse borbottate dopo un litigio stupido, e le loro perfette note intonate in una canzone anni ottanta. 

Santana sentì la maglia aderire al proprio corpo, i jeans diventare scuri e le lacrime giocare a nascondino con la pioggia. Il terreno sotto di lei si ammorbidiva, e si chiese distrattamente se non potesse solo sparire, venire inghiottita dal fango e raggiungere infine il posto che le spettava. Non sarebbe successo, lo sapeva. 

Era condannata a vivere tutti quegli anni che altri avevano perso. Morire sarebbe stato troppo bello, troppo piacevole, per far sì che accadesse. La vita non le avrebbe lasciato neanche quello, non il piacere di vivere né quello di morire. 

I ricordi, erano tutto ciò che le era rimasto. Le foto, le playlist, i trofei, le magliette profumate di lei. 

Lei.   

Era ciò che le mancava di più. O meglio, le mancava sentirla tra le sue braccia, il suo odore, la morbidezza delle sue labbra. Le mancava il tatto. 

Perché Brittany, il suo modo di vedere il mondo, le sue adorabili stranezze, i suoi discorsi sugli unicorni; tutto questo c'era. 

Era nella mente di Santana, marchiata a fuoco, vivente come l'aveva vista il giorno prima della fine. Quel giorno in cui erano andate al parco, avevano dato da mangiare alle papere, avevano diviso un gelato alla fragola, si erano sdraiate sul letto, si erano strette mentre le scene di un cartone animato scorrevano ignorate. Erano felici, molto, e inconsapevoli di quello che sarebbe successo il giorno dopo. 

Sapete?, si dice che in alcuni casi prima della morte ci sia uno slancio di vita finale, che siano reazioni chimiche o l'anima che dona un ultimo saluto a chi resta poco importa. 

Santana era certa che la sua vita avesse fatto la stessa cosa quel giorno. Aveva vissuto l'ultimo attimo di felicità della sua intera vita, baciando le sue morbide labbra sull'uscio di casa. E forse, in un certo modo di pensare, l'ultimo giorno con Brittany e tutti quelli passati furono così tanto intrisi di felicità da bastare per tutti gli anni che Santana avrebbe dovuto scontare da sola. 

Ma in fondo, non era poi così sola. Brittany, Quinn, Puck, e tutti gli altri sfigati del Glee Club erano con lei, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni secondo da quando quel pazzo aveva fatto irruzione nell'aula di canto, i cui quattordici spari erano stati precisi, diretti al cuore. 

Tranne uno, l'ultimo dannato sparo che colpì la spalla destra di Santana, lasciandola lì agonizzante nella pozza purpurea del suo sangue mischiato a quello di Brittany, morta con il suo nome sulle labbra. 

Ma erano lì, non fisicamente certo, ma erano lì. 

E non se ne sarebbero andati, di questo ne era sicura.






Accadeva tutto nella sua testa. Ma perché diavolo dovrebbe voler dire che non era vero?

 

 

 

 

  
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