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Autore: Il Pavone e la Piantana    16/09/2014    4 recensioni
Junior e Willow sono i figli di una nuova Panem, nata sulle ceneri dei caduti e sulle cicatrici di una libertà pagata con il sangue. Sono i figli della rinascita e del dolore, della promessa di un nuovo futuro e dei fantasmi del passato, spesso talmente oscuri da adombrare perfino il giallo brillante della speranza.
«Credevo fosse normale...» Dico, in un sussurro. Mi sembra brutto dirlo a voce troppo alta, come se lo rendesse più reale.
«Ma è normale. Esattamente come te». Risponde, fredda, con un'espressione seria sul viso. Perché io sono come lei, sono il figlio di eroi di guerra che portano sulle loro spalle i dolori del passato, rendendo le nostre vite più difficili di quelle di chiunque altro.
[…]
Mi allungo nell'erba, strofinando lente le braccia lungo i fianchi, fingendo di essere di nuovo una bambina che disegna con il proprio calore una ghiandaia nella neve fresca. Ma non c'è neve da raccogliere, qui. Solo cocci, gusci vuoti di conchiglie e un listello di legno che ormai suona solo note stonate.

{Fa parte della serie Colors. || Fanfiction fortemente psicologica che tratta in modo esplicito alcune patologie psichiche}
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bimba Mellark, Bimbo Cresta-Odair, Johanna Mason, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Colors.'
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IX.




Ho freddo.
Un freddo micidiale, che mi fa battere i denti fino a farmi dolere le gengive.
Un cerchio di ferro e ghiaccio mi stringe le tempie in una morsa.
Sbatto le palpebre, provando a mettere a fuoco i contorni nella penombra.
Non è la mia camera, questa. Non c'è il grande quadro pieno di impronte colorate che sormonta la testiera del mio letto e l'odore della federa inzuppata non è quello giusto.
Cerco a tentoni qualcosa che mi dica dove mi trovo. Sul comodino le mie dita incontrano un fagottino di stoffa, con qualcosa di pungente che spunta dal tessuto.
Ops.
Schizzo fuori dalle lenzuola, cercando di fare meno rumore possibile.
Non ho mai voluto imparare a cacciare - non potrei mai sopportare l'agonia negli occhi di un cerbiatto - e la mamma se n'è sempre rammaricata.
Ho il passo giusto, dice.
Le mie dita scivolano lungo il corrimano. Scendo mezzo gradino per volta, cauta, tastandone l'altezza con la punta dei piedi prima di ogni passo.
«Ma lo strizzacervelli cosa ne pensa?»
La voce di zia Johanna è poco più di un sussurro, ma basta a bloccarmi a metà di un passo, con il piede sospeso a pochi centimetri dall'ultimo scalino.
Qualcuno mugola qualcosa in risposta, soffocando un singhiozzo.
«Sarà come dici, ma a me sembra una grossa stronzata.» Il tono della zia è irritato, più alto di un'ottava.
Avanzo verso la cucina, trattenendo il fiato. Chiunque sia l'interlocutore di zia Jo, quello di cui stanno parlando non è affare mio.
«Non sta bene origliare, mocciosa.»
Devo solo prendere qualcosa per il mal di testa. Poi sparirò come se non fossi mai scesa dal letto. «Anche Peeta dice un sacco di stronzate.» Zia ride, sparlando di mio padre «Solo che dette da lui sembrano sempre verità incontrovertibili.»
Papà non dice stronzate.
«Papà non dice stronzate!» Mi porto entrambe le mani davanti alla bocca, tentando di soffocare la mia stupida linguaccia.
Troppo tardi. La mia voce esplode nel silenzio dell'ingresso e due ombre si stagliano, nette, dietro la porta d'ingresso.
«Willow?» Mia madre singhiozza piano, schiudendo la porta. Barcolla, instabile sulle ginocchia. Ha le guance arrossate, lo sguardo vitreo.
Nella penombra del portico le sue iridi galleggiano sul viso stravolto, trasparenti e incolori come vetro.
«Mamma...» muovo un paio di passi verso di lei, stringendomi nell'accappatoio «Mamma, sei ubriaca?»
Mia madre arretra incespicando e soffia aria fra i denti, scuotendo la testa. Inciampa in sé stessa, ricadendo seduta sul piccolo dondolo che occupa un angolo del portico, atterrando sul ginocchio flesso di Johanna, che ride.
Lei ride. Mia madre è ubriaca e lei ride.
«Avanti, mocciosa» mi apostrofa, tendendomi una bottiglia mezza vuota, nella quale ondeggia un liquido ambrato «Non fare quella faccia. Di Peeta ne abbiamo già uno, ci basta e ci avanza.» Ride ancora, divertita dal movimento del liquore sul fondo della bottiglia. Mamma le blocca il braccio, scuotendo la testa. Tutto quell'ondeggiare le da la nausea, ne sono certa. Si scambiano una lunga occhiata, indecifrabile, prima di fissare me.
A lungo.
Troppo a lungo.
Quando gli occhi di zia Johanna scendono oltre il mio collo, tento, in un vago tentativo di dissimulazione, di portarmi le braccia al petto, nascondendo il mio abbigliamento alla meno peggio. «Ti prego, dimmi che non hai addosso quello che credo io.» L'espressione di zia è un misto bizzarro di sarcasmo e tristezza. Il suo viso è inquieto, indeciso come una giornata di marzo, mentre mi tende con più vigore la bottiglia «Fidati, mocciosa. Hai bisogno di un goccio anche tu.»
«No!» La protesta di mamma mi suona quasi puerile, accostata alla determinazione di Johanna, che mi afferra per un braccio, trascinandomi a sedere fra il suo ginocchio e il fianco della mamma. «Tu alla sua età eri sopravvissuta a due arene, Katniss. Più o meno.»
Più o meno.
«Mamma...» sospiro, lasciandomi accarezzare i capelli ancora umidi. Fa un po' meno freddo qui, stretta fra le gambe della zia e le braccia di mia madre. Il movimento delle sue dita, che scorrono leggere lungo la linea delle punte, è la migliore medicina che potessi trovare. Non è solo il loro tepore, a scaldarmi.
«Mi dispiace, tesoro mio.» Una lacrima scivola tiepida lungo la mia spalla, perdendosi nella spugna «Mi dispiace per tutto.»
Mi ritrovo a singhiozzare, il viso premuto sulla spalla di mia madre, ritrovando una scheggia della bambina che piangeva perché non era in grado di tagliare da sola il suo cibo, senza i suoi genitori a farlo per lei.
E vorrei che queste lacrime cancellassero gli ultimi tre anni, lavando via tutti i torti commessi e subiti, le porte sbattute, i musi lunghi, le recriminazioni, i sensi di colpa.
Vorrei che avessero il potere di rimettere a posto i pezzi, come la marea che riporta al suo posto la sabbia rubata al suo mare. E vorrei avere la forza, le parole giuste per dire tutto questo a mia madre. Vorrei che fosse vero, ciò che tutti dicono sulla mia somiglianza con papà, per esprimere il groviglio di amore e dolore che si intrecciano come rami di ginestra sul fondo del mio palato, asciutto come pietra.
Ma non ci riesco. Riesco solo a stringerle più forte le braccia intorno alle spalle, sperando che basti, sperando che capisca, dalla disperazione con cui mi aggrappo a lei, tutto ciò che non sono abbastanza profonda, abbastanza forte, abbastanza matura per dirle.
Zia Johanna si schiarisce rumorosamente la gola, tirando su con il naso.
Si è allontanata in silenzio, accoccolandosi sui gradini del portico, abbracciata alle sue ginocchia. Alla luce della luna il suo caschetto ha la stessa trasparenza argentea degli occhi della mamma. «Finito con le smancerie da famigliola disagiata ma felice?» Chiede, senza voltarsi. «È mai possibile che debba farvi anche da consulente familiare?» Sospira, giocherellando con il collo della bottiglia.
Per quanto possa sembrare la più rumorosa, irruenta donna al mondo, solo ora mi rendo conto di quanto Johanna sia brava a sparire. Una vita intera in bilico, estranea e padrona in una casa piena di fantasmi, sempre pronta a farsi da parte, eclissandosi nell'ombra, come se non appartenesse davvero a nessun posto.
«Vieni qui, zia.» Le faccio cenno di avvicinarsi, sciogliendo un braccio dalla stretta sulla spalla della mamma «Hai bisogno di un abbraccio Mellark anche tu.»
«Oh, ma fatemi il piacere!» Sbuffa, aggrappandosi al corrimano per rimettersi in piedi «E se questa cosa dall'abbracciare fosse contagiosa?» Rotea gli occhi scuri, esagerando un'espressione disgustata. Non si ribella, però, quando mi sollevo dal dondolo per abbracciarla davvero.
Mi ricambia, impacciata, trattenendo il fiato.
Devo così tanto - troppo - a questa donna per lasciarmi ingannare da qualche stupidaggine da donna che non deve chiedere mai.
«Ora puoi lasciarmi il mio letto, mocciosa, prima che decida di affilare la mia accetta sulle tue lunghe chiome?» Sguscia delicatamente dalla mia stretta, fissandomi con un sopracciglio alzato. Mormoro delle scuse, dissimulando la frase «ti ho inzuppato le lenzuola» con qualche colpo di tosse.
Zia Jo alza gli occhi al cielo, afferrandosi la testa fra le mani. «Ma quando crescerete, tutti?» Domanda, rivolta alla mamma. Lei sorride fra le lacrime, prendendomi per mano per ricondurmi al suo fianco sul dondolo.
Mi lascio abbracciare a lungo, mentre mamma continua a singhiozzare sommessamente fra i miei capelli.
Parliamo poco, lasciandoci cullare dal vento dell'oceano, le teste vicine.
«Mamma?» Chiedo, ad un tratto, quando sento estinguersi anche l'ultimo singhiozzo «Ti andrebbe di farmi la treccia?»
La sento annuire piano. Non riesco a vederla in viso, ma sono certa che stia sorridendo.
«Me la ricordi tanto, Willow.» Sospira, accomodandosi meglio alle mie spalle per pettinarmi le ciocche con le dita. Si ferma per un istante, immobile. Non la sento neppure respirare, e so che si sta sforzando di non piangere. Come so che sta parlando della zia che non ho mai conosciuto, spazzata via dalle stesse fiamme che hanno devastato pelle di mia madre. Da piccola la schiena della mamma mi spaventava. Credevo che quei pezzi di pelli diverse, rattoppati fra loro con mano incerta, si sarebbero allargati come un'infezione, cancellando il viso di mia madre.
Non facevo che sognarlo, e mi svegliavo di soprassalto, a notte fonda, per controllare che la sua faccia fosse ancora al suo posto.
«Non devi avere paura delle nostre cicatrici, Will.» Papà mi accarezza la fronte, scostandone le ciocche appiccicate dal sudore. Il lettone mi sembra enorme. Mi raggomitolo fra le lenzuola aggrovigliate, stretta contro il petto di mio padre «Ci raccontano chi siamo e ci permettono di ricordare ciò che abbiamo perso.» Mi indica il punto in cui il moncone della sua gamba incontra la protesi «Vedi?» Guida la mia mano, piccolissima nella sua, fino alla gamba artificiale. Il freddo contatto con la plastica mi fa rabbrividire «Come farei a ricordarmi di avere una gamba sola, se non avessi questa?»
La mamma sorride. È un sorriso triste, che papà cancella con un bacio.

Crescendo ho imparato a riconoscere le cicatrici dei miei genitori. Ne hanno tante, troppe: schiene martoriate, gambe mutilate, polsi solcati da linee orizzontali e verticali, bruciature sul petto, alla radice dei capelli. Non mi fanno più paura.
Sono le ustioni più profonde, le cicatrici che marchiano la loro mente e il loro cuore, quelle che mi spaventano davvero.
«Hai i suoi stessi occhi. Lo stesso sorriso, la stessa risata.» Ad ogni parola fa una breve pausa. Le mani le tremano tanto che deve smettere di intrecciare. Vorrei tornare ad abbracciarla. Deve essere difficile per lei: lo sento nel suo lieve affanno, in come cambia nervosamente posizione, incapace di trovarne una comoda.
Nel nostro libro ci sono tanti ritratti di quella bambina dagli occhi azzurri, tratteggiati dalla mano leggera di papà. Mamma piange spesso, quando capita nelle pagine che parlano di lei.
«Quando sei nata, Willow, avevo paura.» Sospira, riprendendo ad armeggiare con i miei capelli. «Ho passato mesi a vegliare la tua culla, terrorizzata dall'idea che, se solo mi fossi distratta per un attimo, ti avrebbero portata via da me.»
«Mamma...» tento di interromperla con un filo di voce. Non occorre che mi dica tutto questo, non occorre che soffra tanto.
«No,» risponde, risoluta «lasciami finire.» Afferra tre piccole ciocche dalla cima della mia testa, separandole gentilmente con i polpastrelli «Avevo paura. Tanta da non riuscire più a mangiare né a dormire, se non ti avevo sotto controllo. Avevo tuo padre, che ogni notte giurava che ti avrebbe protetto, che non avrebbe mai più permesso che qualcuno ci facesse del male, ma...» esita, tirando su col naso, e a me sembra di vederla, china sulla culla di legno bianco costruita da papà, pronta a proteggerci dalle ombre e dagli incubi a costo della sua stessa vita. «Non bastava, Willow. Quando hai così paura, niente basta mai. Eri una bambina difficile, tesoro. Piangevi continuamente, non dormivi, non mangiavi. Avevo il terrore che fossi malata, che potessi soffocare nel sonno, che morissi di fame.» Deve fermarsi di nuovo. Le sue mani tremano così tanto da sbattere lievi sulla mia nuca tra una frase e l'altra. «Eri come tuo padre, sei come tuo padre: soffrivi perché percepivi la mia ansia. Sono stata così male, quando il dottor Aurelius me l'ha detto, da non scendere dal letto per giorni. Ti stavo uccidendo, anziché proteggerti.» Porto le mani davanti alla bocca, straziata dal dolore nelle parole della mamma. Le lacrime si fanno strada tra le mie dita, bagnandomi i palmi. «Allora ho provato a fidarmi di Peeta, ad affidarti un po' più a lui. E con tuo padre tu sei sbocciata, amore mio. Hai cominciato a dormire, a mangiare regolarmente, perfino a parlare. Ero così gelosa di come lui riuscisse laddove io fallivo, così infelice, che credevo ne sarei morta.»
Mia madre parla lentamente, la bocca impastata e la lingua sciolta dal liquore.
Mi racconta di come mio padre mi abbia insegnato a camminare, parlare, ballare, disegnare, leggere e in seguito a scrivere. Di come ogni anno, ad ogni passo, canzone, sorriso vedesse in me un pezzo di Primrose in più.
«E mi sono detta che tu potevi essere la mia redenzione.» Espira, sciogliendo un piccolo nodo sulla nuca «Che con te potevo riuscire dove con Prim avevo fallito. Darti una vita sicura, protetta dal mondo. Una vita in cui nessuno avrebbe potuto ferirti né portarti via da me.»
È come una lunga, profonda coltellata nel petto. Il metallo delle sue parole affonda nella mia carne, implacabile. Immagino il dolore devastante di vedere Rye morire sotto i miei occhi, cancellato dal fuoco.
Una piccola bara vuota, neanche una lapide su cui piangere.
Le piccole dita gelate di una bambina insepolta mi stringono la gola.
Gli occhi verdi del padre di Junior, quelli vitrei di sua madre, quelli azzurri di Primrose, quelli grigi dei bambini perduti di zio Haymitch...mi fissano tutti, allineati in un urlo muto.
«Come ci riesci?» Mormoro, voltandomi verso di lei «Come riesci a vivere con tutto questo?»
Mamma mi fissa a lungo, aprendo e chiudendo la bocca un paio di volte, cercando le parole giuste.
Distende le gambe, facendo ondeggiare il dondolo, e si stringe le braccia al petto.
«Non ci riesco, Willow.» Abbassa lo sguardo, facendoci dondolare ancora. «Ovviamente non ci riesco, se ho avuto bisogno che vi allontanassero da me perché imparaste a dormire da soli, lavarvi, usare le posate.» Una lacrima scintilla sulla sua guancia, illuminata dalla luna. «Però continuo a provarci. Ancora e ancora. A cercare un modo per fare sì che ciò che noi abbiamo vissuto vi renda più forti, a trovare un motivo per alzarmi dal letto ogni mattina. Provo a conquistarmi il vostro amore, il vostro rispetto, nonostante tutto il male che ho fatto, sperando che non mi odiate per tutte le mie paure.» Mi regala uno dei suoi sorrisi tristi, uno di quelli che papà fa sempre sparire con un bacio. «E fallisco spesso, come vedi.»
«No.» Nego, scuotendo la testa con decisione.
E la abbraccio forte, più forte che posso. Per la prima volta mi sembra così fragile, tra le mie piccole braccia, che capisco quanto papà abbia bisogno di stringerla, per tenerla insieme.
«Scusa, mamma.» Lo singhiozzo fra i suoi capelli, che stanno perdendo il solito odore di bosco, assorbendo quello del mare «Stavo così male, mamma. Così male...» Tremo, premendo il viso nell'incavo della sua spalla. «Per Junior e gli attacchi di panico e Rye che cresce e le gemelle che mi danno il tormento... E tu che non vuoi permettermi di andare a studiare psicologia a Capitol e papà che ti difende sempre e Junior che non vuole più parlarmi...» la mia voce diventa una massa confusa di singhiozzi e giustificazioni. Le parole incespicano e si accavallano le une sulle altre. Mamma aspetta, paziente, accarezzandomi la testa «Mi sentivo così sola, mamma. Perché tu hai papà e papà ha te e io non ho nessuno...»
«Mi spingerò così al largo che nessuno potrà più prendermi la mano e sarò da solo.»
«Ma io ti voglio bene, mamma. Tanto.» Singhiozzo più forte, lasciandomi accarezzare. Il naso mi gocciola e devo avere un aspetto orribile, ma non importa. Posso piangere, posso sistemare le cose. «E mi dispiace, mi dispiace tanto.»
Mamma mi stringe, posando il mento sulla cima della mia testa. Sospira, lasciandomi il tempo di calmarmi prima di parlare.
Riprendo lentamente il controllo del mio respiro, sentendomi leggera, leggera come una piuma lasciata a galleggiare nell'acqua salata dell'oceano.
«Non sei sola, Willow, mai.» Lo ripete più volte, con voce sempre più flebile. «L'amore non è sempre la risposta, tesoro. Alla tua età è facile credere che sia così, ma non lo è.»
«Questa l'hai rubata a papà?» Chiedo, nel fiacco tentativo di fare dell'ironia.
Le orecchie di mamma diventano scarlatte, così come le sue guance. «Sì,» mugugna «però non dirglielo.»
Rido, sciogliendomi dalla sua stretta per posarle la testa sulla spalla.
Do una piccola spinta al dondolo, che cigola sui tiranti, e lascio che mia madre giochi per ore con i miei capelli, guidando la mia testa sul grembo.
Scivolo nel sonno in punta di piedi, con i capelli ormai asciutti, allargati a ventaglio sulle gambe di mia madre, e una vecchia ninna nanna nella testa, mentre il cielo si colora di rosa e d'argento.

La luce filtra attraverso la tenda azzurra. La brezza che arriva dalla spiaggia la smuove, leggera, dando l'impressione che il motivo di conchiglie sul mio lenzuolo ondeggi, come veri gusci sul fondale dorato.
È tutto azzurro qui, come sul fondo dell'oceano, ma posso guardare gli angoli di ogni cosa senza che il sale mi pizzichi gli occhi.
Le mie dita risalgono la spalliera, cercando il bordo di tela ruvida.
«Così, quando non ci sarò, potrai tenermi comunque la mano.» Junior immerge le dita nella pittura turchese, imprimendo la forma del suo palmo sulla tela bianca.
Annuisco, seria, scegliendo il barattolo dorato.
Oro come la sabbia, turchese come il mare. Mi sembra che siano perfetti, insieme.

Mi stiracchio, distendendo il collo e la schiena.
Qualcuno - la mamma? - deve avermi portata nel mio letto. Rotolo per l'ultima volta tra le lenzuola profumate, saltando goffamente giù dal letto.
Chiunque mi abbia trasportata qui mi ha lasciato addosso l'accappatoio di Junior. Affondo il naso nell'incavo del gomito, sperando di ritrovare intatta la traccia del profumo che vi ho sentito ieri notte.
È ancora qui.
Sento un largo sorriso sbocciare sulle mie labbra.
Oggi lo chiamerò.
Scendo le scale a due a due, praticamente saltando, con il profumo di pancake che mi riempie le narici.
Il mio stomaco borbotta in modo indecente. Salto gli ultimi tre gradini, piroettando intorno al pomello che conclude la balaustra.
Zia Johanna, seduta in soggiorno, sminuzza una montagna di pancake con l'aria di un gatto che ha appena cacciato una grossa preda.
«Passata la sindrome premestruale?» Chiede, con un grosso sorriso sardonico stampato in faccia. Le soffio un bacio oltre il tavolo e annuisco con vigore, precipitandomi verso la scia deliziosa di burro e cannella che proviene dalla cucina.
Il mio stomaco ha inserito il pilota automatico e conosce un unico comando: pancake alla cannella.
Telefonare? Junior? Quale Junior?
«Buongiorno, pa-»
Boom.
Mi esplode tutto in faccia, scaraventandomi all'indietro.
Il quale Junior siede con entrambi i gomiti piantati sul tavolo, davanti a una gigantesca torre di pancake.
Con i quali deve essersi appena strozzato, a giudicare dal suo colorito violaceo.
Junior è qui. Continua a tossire pancake, ma è qui.
E io sono in pigiama.
Peggio, ho solo il suo accappatoio addosso.
«Sorpresa!» zia Jo lo urla dal soggiorno, in tono di assoluto giubilo.
Tento di recuperare i brandelli di me stessa, carponi sul pavimento.
Non li trovo.
Passo al soffitto, con scarsi risultati.
«Stai cercando le ovaie?» Zia mi arriva alle spalle, facendomi quasi morire d'infarto.
Sento distintamente il suono della mano di papà che si scontra contro la sua fronte, coperto dalla tosse di Junior.
No, solo la mia dignità.
Mi stringo nell'accappatoio, sperando che Junior sia troppo preso dal suo principio di soffocamento per notare ciò che indosso.
Io noto tutto, invece.
I capelli più corti e più biondi, schiariti dal sole e dalla salsedine.
Gli donano.
Da morire.
La linea sottilissima che gli solca la fronte, segno indelebile del suo broncio quasi perenne.
Le minuscole efelidi sulle sue braccia, le spalle più ampie, l'abbronzatura di un tono più scura sul viso e sulle mani.
È cambiato.
È un pensiero doloroso, che mi colpisce nella sua accecante evidenza: ho perso tre anni di Junior.
Non so cosa mi aspettassi. Forse di ritrovarlo identico a sé stesso, come tutto in questo posto, che il tempo si fosse congelato in mia attesa, bloccando le cose esattamente come le avevo lasciate.
Ma ora che è qui, dall'altra parte di questa cucina dove allungando un braccio puoi toccare quasi ogni cosa, il pensiero che nella vita non esista il tasto pausa mi colpisce con la solidità di qualcosa di tangibile.
Ci sono tre anni al centro del tavolo che ci separa, ingombranti e appariscenti quanto un elefante vestito di rosa, e, nonostante questo, io non vedo che i suoi occhi, dello stesso verde mutevole del mare, immutabili nella loro bellezza.
«Ciao mocciosa.» Mi sorridono, i suoi occhi, e io decido di fregarmene dell'elefante, dell'asciugamano, dei pancake e dei capelli più corti.
Divoro i due passi che ci separano per volargli in braccio.
Esplode tutto, di nuovo, mentre atterro sulle sue gambe, stringendo le braccia dietro la sua nuca. Le sue braccia sono calde e solide e credo che, se mi stringesse abbastanza, potrei sparire per sempre in questo abbraccio.
Inspiro, affondando il naso nel piccolo triangolo tra il collo e la clavicola, provando a rubare ogni dettaglio.
L'odore di sale e di mare e di pulito e di e buono e di Junior mi scuote fino alle ossa.
Ho perso tre anni di lui, ma il suo abbraccio e il suo odore e i suoi occhi non sono cambiati di un giorno.
E questo mi basta.
«Mi sei mancato.» Gli sussurro all'orecchio, sfiorandolo piano con le labbra. Quel breve contatto mi provoca uno strano formicolio, che dalle labbra raggiunge il mio collo e le spalle. Di nuovo quella sensazione di caldo e freddo e intensità e finitezza. Mi da alla testa, come il liquore ambrato sul fondo della bottiglia di zia Johanna. «E non osare mai più piantarmi su uno scoglio.»
Lo sento divincolarsi dalla mia stretta, il colorito di una nuova sfumatura di viola sotto l'abbronzatura.
«Mamma!» La voce di Mallow è una doccia gelata «Junior e Willow stanno facendo un bambino! Vieni a vedere!»
Junior arretra, strisciando rumorosamente la sedia sulle assi del pavimento. Mi stacca di peso, deglutendo, cercando di toccarmi il meno possibile.
Zia Johanna si tiene la pancia, piegata in due dal ridere, alla vista dell'espressione scandalizzata e furibonda di mia madre.
Mio padre, in un angolo, apre e chiude i pugni, sforzandosi di respirare.
Mugugna una sequela di parole sconclusionate, tra le quali riesco a distinguere solo ricaduta, depistaggio, Odairicidio, la mia bambina e vado a prendere una boccata d'aria, prima di eclissarsi in giardino.
Junior mi fissa per un istante. Le sue iridi seguono la schiena di mio padre e poi tornano di nuovo su di me.
Sbatte le palpebre un paio di volte e si alza di scatto, girandomi intorno senza neppure guardarmi, per correre dietro a mio padre.
Non ci posso credere!
L'ha fatto di nuovo!
Mi ha di nuovo deliberatamente piantata in asso, lasciandomi come una cretina interdetta all'uso della parola.
«Finnick Junior Odair!» L'acqua del lago è fredda e più pesante di quella del mare. Papà mi guarda dalla riva, sorridendo, e se c'è papà con me non può succedermi niente di male. Piroetto nell'acqua torbida, facendo cenno a Junior di seguirmi. Il fondo fangoso mi trascina giù i piedini, ma io sono un delfino, e un delfino non può annegare. «Non ignorarmi!»
Rye si affaccia sulla soglia, trascinando i piedi.
«Io sto ancora aspettando i miei pancake.» Commenta, lugubre, incrociando le braccia al petto. «Puoi mangiare quelli di Junior,» zia Johanna ridacchia, ancora con una mano sul ventre «non c'è rischio che abbia ancora fame.»
Mio fratello sbuffa, allungandosi verso il piatto con aria di sufficienza. Sembra dire devo mangiare gli avanzi di quello?, ma il suo enorme stomaco senza fondo - come sempre - ha la meglio sul suo orgoglio.
«Niente bambino?» Chiede Mallow, imbronciata, alla mamma, attaccata al bordo della sua maglietta.
«Niente bambino.» Rispondo io, secca.
Mamma sorride pianissimo, quasi se ne vergognasse. È un sorriso quasi invisibile, che le fa vibrare giusto gli angoli della bocca.
«Fai colazione, Will.» Mi sfiora la testa, indicandomi la sedia con l'altra mano.
«Non è stata una grande idea dire alle gemelle che i bambini si fanno abbracciandosi forte, eh.» Commenta Johanna, rivolta a mamma, appoggiando un'anca allo spigolo del tavolo «Cos'è, avevate finito le idee? O le pigne, le ghiandaie col fasciatoio e il carbone sono passati di moda?»
«Mamma...» Mallow la fissa a bocca aperta, interdetta «Servono anche pigne e carbone, per fare un bambino?»
Basta!
Vorrei urlarlo a pieni polmoni, facendo esplodere ogni vetro in questa casa, sollevando la sabbia nascosta fra le assi del pavimento, buttando giù i muri, i sonagli fatti di conchiglie legate tra loro, la rete di Annie, il dondolo sul portico.
State zitti, tutti!
Mi butto pesantemente sulla sedia, affettando il pancake come se volessi ucciderlo.
Lo sciroppo schizza ovunque, sangue ambrato, macchiandomi le mani.
«Ti va di aiutarmi a fare le valigie, tesoro?» Mia madre mi posa delicatamente una mano sulla spalla. Alzo la testa per incontrare il suo sguardo. Sorride, accarezzando i capelli di Mallow. E sta tentando di salvarmi, di nuovo.
«Lo faccio io.» Borbotta Rye, sollevandosi Mallow sulle ginocchia.
«L'ho chiesto a tua sorella.» Precisa la mamma, dolce ma ferma, e io ho una gran voglia di abbracciarla.
Rye sbuffa, mettendo il muso, e si avvolge uno dei riccioli scuri di Mallow attorno al dito. «Come ti pare.» Mi guarda in tralice, strizzando gli occhi in due fessure «Tanto rovinerà tutto come al solito.»
Rimpiango amaramente di aver insistito perché imparasse a nuotare: avrei potuto inscenare un incidente in mare.
Ora il suo annegamento nel lavandino, fra i piatti e le stoviglie, suonerebbe un tantino sospetto. Seguo la mamma per le scale, un passo dietro di lei. Sul primo gradino è seduta Lily, intenta a rigirarsi un fazzoletto color lavanda fra le piccole dita.
«Zia Annie mi ha detto che posso fare un nodo per mamma e uno per papà, » si giustifica, mostrando il fazzoletto annodato alla mamma «per ricordarmi che tornerete a prendermi.» Mamma la solleva fra le braccia, stringendosela al petto.
«Torneremo prestissimo, tesoro.» Le lascia piccoli baci su tutto il viso. Lo faceva anche con me e Rye, quando eravamo piccoli. Era bello. Faceva un po' il solletico, ma ricordo quanto mi facesse sentire amata. Lily ride, afferrando la treccia di mamma. «Non ti accorgerai neanche della nostra assenza. Torneremo prima che possiate sentire la nostra mancanza.»
Lily scuote la testa con decisione, spalancando gli occhi. Il suo labbro inferiore trema.
«È vero, mocciosetta.» Le scompiglio i riccioli, posando il mento sulla spalla di mamma per accostare il naso al suo «Ti divertirai così tanto che il tempo volerà. Ci sono io e Rye e Mallow e le zie e Junior.» La mia voce si incrina un po' sull'ultimo nome, ma Lily è troppo concentrata sulle parole per accorgersene. «Ti insegnerò a nuotare come un delfino,» come lui l'ha insegnato a me «a costruire castelli di sabbia e tuffarti dagli scogli.» La mamma mi guarda preoccupata, ma annuisce «Sarà bellissimo, vedrai.»
E so che lo sarà davvero.
Proverò ad essere per le mie sorelle quello che Junior è stato per me: quella vela al largo, fra l'acqua salata e il calore del sole, che ha lo stesso esatto odore della libertà. E forse impareranno a volare, come Junior l'ha insegnato a me.
Il labbro inferiore di Lily non trema più e la mamma ci abbraccia entrambe, baciando alternativamente le nostre teste.
«Mamma! Mi fai solletico!» La bimba scalcia per essere messa giù. Mamma la accontenta, conducendola per mano fino alla camera degli ospiti, un braccio ancora intorno alla mia spalla. Pieghiamo i vestiti in silenzio, le braccia che ogni tanto si sfiorano nello spostare una delle camice di papà o lo spazzolino da denti di mamma.
Alla fine del processo dobbiamo far sedere Lily sulla valigia, per riuscire chiudere la zip.
Per qualche motivo succede sempre: quando arriva il momento di ripartire, le stesse cose che avevi messo in valigia al principio non sembrano trovare un loro spazio.
Credo sia una metafora di quanto ogni passo che facciamo fuori dal nido ci cambi profondamente, e siamo noi, forse, a non ritrovarci nei nostri panni, quando è ora di andare via.
Lo dico alla mamma, tra una raccomandazione sulle gemelle e l'altra, e i suoi occhi grigi si velano di lacrime.
«Non si piange, mamma!» La ammonisce Lily, evidentemente già passata per la lezione sul frignare della zia Johanna.
«No,» sorride, asciugandosi gli occhi «non si piange.»




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!br> Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il decimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

   
 
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