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Autore: Clockwise    17/09/2014    3 recensioni
«Sicura di non aver ucciso il gatto di nessuno, rubato qualche fidanzato, avvelenato qualcuno, fatto ritratti offensivi, non so… Sei piuttosto pericolosa quando ti ci metti.»
Mel finse di pensarci su.
«No, non negli ultimi tempi.»
«Beh, dovremmo cominciare a indagare sulle tue passate e presenti relazioni, allora, e cercare di scoprire chi è che hai mortalmente offeso.»
«Suona bene, Sherlock. Ci vediamo domattina a Baker Street?»
«Ah, no, domani mattina devo fare un salto al Bart’s, poi ho merenda con Moriarty, ma potrei essere libero per le tre.»
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Martin Freeman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 12
Chiaroscuro
 
 
 
Domenica 28 aprile, ore 4.45
La porta della cella si aprì. Benedict sbatté le palpebre più volte, uscendo dal suo dormiveglia, cercando di riconoscere chi era arrivato.
«Non è un cliché quello dei doughnuts dei poliziotti, è la triste verità» disse Mel, una scatola di ciambelle in equilibrio sulla mano mentre un agente chiudeva la porta dietro di lei.
«L’ufficio di McConaghan è pieno di questa roba: lui non ne mangia perché ha paura della carie» raccontò, sollevando le sopracciglia in una buffa espressione eloquente. «Quindi ho pensato che un paio in meno non gli avrebbero fatto né caldo né freddo, ammesso che se ne accorga, non è esattamente un’aquila, se vuoi sapere come la penso, non capisco come abbia fatto a diventare addirittura Ispettore, Sherlock ha ragione, Scotland Yard è piena di idioti…»
Benedict la osservò in silenzio, inebetito, mentre posava i doughnuts sulla branda su cui si trovava lui e si sedeva a sua volta.
«Allora, quale vuoi? Questo dovrebbe essere ripieno di cioccolato mentre questo alla fragola… Vada per la fragola» disse, prendendo una ciambella rosa e addentandola. Si accorse dello sguardo perplesso di Ben.
«Oh, la volevi tu? Guarda, dovrebbe essercene un’altra…»
«Non me ne importa un cazzo dei doughnuts» disse lui, calmo. Mel sollevò le sopracciglia, masticando la sua ciambella. Deglutì.
«Se non ti piacciono basta dirlo.»
Ben spalancò gli occhi e sollevò le mani. Poi esplose.
«Sono in prigione! Da tutta la notte! E tu pensi ai doughnuts?» gridò, stizzito e incredulo. Si alzò e prese a passeggiare agitato avanti e indietro per la piccola cella. Il poliziotto al di là delle sbarre si limitò a lanciargli un’occhiata pigra.
«Mh, ok» fece Mel, alzando le spalle. «Preferisci che mi metta a fare l’isterica, l’offesa, l’arrabbiata, la ferita o…»
«Mel, ti prego» implorò lui, tornando a sedersi, la testa fra le mani. «Che sta succedendo? Puoi spiegarmi, puoi…»
«Prendi una ciambella» disse lei, dolcemente stavolta – basta giocare, lui era esausto, si era divertita abbastanza. Si sistemò più comodamente sulla branda, appoggiando la schiena al muro.
«Sai, francamente, dopo il caos di ieri sera e il mistero di queste settimane, mi sarei aspettata come minimo un pedinamento, un rapimento, un ricatto, invece è stato tutto merito di Martin» iniziò, con una smorfia di disappunto.
 
°°°
 
Sabato, ore 19.45
Era sul punto di uscire da gabinetto quando sentì la porta aprirsi con violenza ed un uomo correre nel bagno. Non sentì aprirsi alcuna delle porte dei gabinetti. E poi, distintamente, Martin sentì piangere.
Da bambino detestava vedere gli adulti piangere, gli sembrava ingiusto; forse una reminescenza di quel sentimento era rimasta, perché aprì la porta d’impeto e si portò accanto all’uomo, appoggiato al lavandino. Questi lo guardò, il viso rigato di lacrime, deformato dai singhiozzi. Si immobilizzò, terrificato, quando vide Martin.
«I-io… Non sono, non ho…»
Lui corrugò le sopracciglia, in un cipiglio da vero dottor Watson.
«Cosa succede, signore…?»
«Ho sbagliato, figliolo. Ho sbagliato.»
Martin non avrebbe mai pensato che si sarebbe ritrovato in quella situazione, mai, nemmeno per un ruolo: nel bagno di una Galleria d’Arte, a fare da confessore ad un uomo disperato che gli raccontava la sua storia.
Storia di un padre che vuole aiutare suo figlio quando questi è nei guai – perché non gli importa se il ragazzo sta andando “sulla cattiva strada” e frequenta cattive compagnie e si urlano in faccia e non si parlano per giorni: è suo figlio, e questo basta; storia di un ladro, un falsario, che lo aiuta, se di aiuto si può parlare, a rubare tre quadri di Melancholia Tipperary, sua ex-allieva.
Qui l’uomo si fermò, tornò a piangere, e Martin si disse che poteva bastare. Gli parlò piano, a lungo, con fermezza, gli raccontò dell’imbroglio in cui il suo amico era finito e lo convinse, alla fine, a costituirsi. Lo aiutò a risollevarsi e a ricomporsi e lo condusse fuori, sorreggendolo fino a Scotland Yard.
Gli parlò, durante il tragitto, lo rassicurò, gli promise che avrebbe dato una mano a suo figlio, che non tutto era perduto. L’uomo lo ringraziò.
Martin vide McConaghan scortare dentro un Benedict rassegnato e stanco, ma non poté avvicinarsi né far notare la sua presenza all’amico o visitarlo più tardi.
L’uomo che era con lui confessò ogni cosa, ma ebbe qualche ritrosia nel rivelare il nome del ladro, temendo una vendetta una volta uscito di prigione. McConaghan fece del suo meglio per assicurargli la protezione di Scotland Yard, ma non ci fu bisogno di molte moine: il ladro, sulla lista dei ricercati da tempo, era morto due giorni prima, per un aneurisma improvviso.
Gerard Keane si lasciò ammanettare dopo essersi fatto assicurare da Martin che avrebbe portato le sue scuse a Mel e a suo figlio e Martin promise, la mano sul cuore. E con un ultimo sorriso mesto, Keane si lasciò condurre via.
 
°°°
 
«Quindi è stato lui, il professor Keane?»
«Già» annuì Mel, addentando il doughnut. «Poi sono tornati alla mostra e mi hanno detto tutto e sono passata qui verso le undici, per vederlo, ma non ho potuto.»
«Niente Rottenberg?» chiese Ben, sollevando un sopracciglio. Mel sorrise, stringendosi nelle spalle.
«Nope. A quanto pare la brillante teoria di McConaghan ha fallito. Probabile che nemmeno esista questo povero Rottenberg.»
Ben scosse la testa, sbuffando una risata.
«Vuoi dirmi che dovrò ringraziare Martin, alla fine?»
Mel stiracchiò un sorriso ad alzò le spalle. Poi il suo viso tornò serio e a lui tornò in mente il motivo per cui si trovava lì.
«Cosa c’è?» le domandò, inquieto. Lei abbassò la testa, nervosa.
«Ruth ti ha parlato di sé?»
Benedict sbatté le palpebre, traendo un respiro. Si era chiesto quando sarebbe arrivata la domanda.
«Sì.»
 
°°°
 
Sabato, ore 19.09
Ruth, con uno sguardo amaro, si alzò e iniziò a passeggiare per la stanza, le mani dietro la schiena, la testa alta, simile ad un felino. Raccontò, la voce flautata.
«2005, Almeida Theatre. Una ragazza, diciassette anni. Sua madre lavora come costumista, la porta con sé a vedere le prove per Hedda Gabler. La ragazza è molto interessata al teatro, le piaceva recitare, da piccola, anche se adesso ha capito che la sua strada è un’altra. Comunque, accompagna la madre, guarda alcuni stralci delle prove. È una ragazza socievole, chiacchiera con gli attori, i tecnici, i colleghi della madre. In particolare, con questo ragazzo, che interpreta George Tesman; si prendono un caffè, chiacchierano del più e del meno. Lei pensa che lui sia davvero affascinante, ed è lusingata che un bel ragazzo come lui, molto più grande di lei, per giunta, le dedichi attenzioni. Chiacchierano durante una pausa, ridono, poi lui torna sul palco, lei torna a casa, la cosa finisce lì. Lei continua a pensare a lui, a fantasticare, ma si costringe a dimenticarlo: è solo un ragazzo gentile e amichevole, lei non è niente per lui.»
Tacque, si fermò. Benedict non riusciva a staccarle gli occhi di dosso mentre un ricordo, lento, iniziava a tornare nebuloso verso di lui. Sì, sì, rammentava vagamente di una ragazza con i capelli rossi e un caffè al distributore automatico, ma…
«La compagnia organizza una festa, la vigilia della prima. La ragazza ottiene il permesso di andarci, in compagnia di una sua amica.» Gli occhi le brillano, sorride al ricordo. «È così elettrizzata! Può rivederlo! E lui è lì.» Il sorriso si allinea in una riga tesa, il volto torna una maschera.
«Ubriaco marcio, sprofondato in una sedia vicino al buffet. Riesce a parlare, in qualche modo, con quelli che si avvicinano – in fondo è il co-protagonista, non certo una comparsa qualunque – ma è così triste
Benedict chiude gli occhi. Ora ricorda.
«Olivia mi aveva lasciato, si era presa una pausa...»
«Oh, beh, questo spiega tutto, suppongo: perché hai bevuto e perché siamo finiti a pomiciare e abbiamo concluso… Uh, era casa tua mi pare?»
Benedict spalancò gli occhi, inorridito.
«Che cosa?»
«Già» fece lei, sollevando le sopracciglia e battendo le mani. «La mattina dopo mi sono svegliata da sola, come una vera puttana. Molto poco galante. Molto poco da Benedict
Ben affondò il viso nelle mani.
«Non è possibile, io…»
Deglutì, chiudendo gli occhi. Ricordava una ragazza addormentata al risveglio, un’orribile senso di colpa che l’aveva spinto fuori di casa per tutto il giorno, che l’aveva fatto stare fisicamente male oltre ad una nausea tremenda – la minima punizione.
«Non avevo idea fossi tu, non ricordo nulla, e so che non vale niente, ma mi dispiace…»
«Hai ragione, non vale niente. La mia relazione più lunga, in questi anni, è durata sei mesi. Hai rubato la mia fiducia negli altri, Benedict.»
Lo guardò, gli occhi azzurri taglienti come vetro.
«Non puoi riportarmela.»
Gli sorrise triste e amara.
«I capelli… erano rossi» mormorò Ben, lo sguardo perso, la voce tremante.
Lei annuì, chiudendo gli occhi.
«Una gloriosa chioma rossa. Era il suo vanto. I capelli sono stati neri da quel giorno. Chissà, forse non voleva assomigliare a lui.»
 
°°°
 
Mel annuì.
«A me ne ha parlato giovedì scorso, ma mi ha chiesto di non dirti nulla. Ero così arrabbiata con te… per questo ti ho tenuto il muso» spiegò. Ben deglutì.
«Sono io quello che deve scusarsi. Non avrei dovuto comportarmi così. Sono stato uno stronzo, è imperdonabile.»
«Beh, nemmeno lei è stata clemente» sospirò Mel, osservando la ciambella smozzicata fra le sue mani.
 
°°°
 
Domenica, ore 3.31.
Non riuscivano a dormire. Erano ore, ormai, che stavano in quello stato catatonico, senza sapere che fare, in quella notte interminabile.
«Mel, devo parlarti.»
Mel alzò lo sguardo verso di lei. Non l’aveva mai vista così preoccupata, tormentata, sconvolta. Insomma, sarebbe dovuta essere lei quella che si stropicciava le mani e passeggiava avanti e indietro, invece di rimanere seduta su pavimento con lo sguardo perso, vuota.
«Dimmi» mormorò. Ruth si sedette davanti a lei, le gambe incrociate. Trasse un grande respiro, poi chiuse gli occhi.
«Benedict è innocente. Sono stata io.»
Riaprì gli occhi, timorosa di scoprire la reazione alla bomba che aveva sganciato. Mel era pietrificata. Deglutì.
«Io…» iniziò, tremante. Sentiva le lacrime minacciarla; si arrese.
«Volevo proteggerti. Dopo quello che era successo a me, sapevo che tipo fosse, non volevo che tu soffrissi, Mel…»
Il bel volto rigato di lacrime nere di mascara, le labbra martoriate fra i denti.
Mel chiuse gli occhi per un attimo.
«Perché non hai voluto che lo affrontassimo e basta? Perché mi hai costretto a non dire niente?» chiese dolcemente. Ruth socchiuse le labbra, ma non trovò la risposta.
«Forse, volevi vendicarti tu? Fargliela pagare?» suggerì. Ruth si strinse nelle spalle.
«S-suppongo di sì, io…»
Le lacrime la tradirono di nuovo. Sembrava una bambina.
«Mel, mi dispiace così tanto.»
Mel l’abbracciò e le carezzò i capelli, lasciando che piangesse sulla sua spalla.
«Che cosa ho fatto, che cosa ho fatto…» continuava a mormorare, soffocata dall’abbraccio dell’amica.
Mel stava in silenzio, senza sapere cosa pensare, e le batteva pacche sulla spalla.
 
°°°
 
«L’hai perdonata?» domandò Ben, piano. Mel si strinse nelle spalle.
«Non lo so. Forse sì, forse devo ancora pensarci, forse mi serve un po’ di tempo. Sono successe tante cose nel giro di una serata. Sai, ero così sollevata alla conferma che non fossi stato tu che… quasi non mi importava più d’altro» disse, abbassando gli occhi.
«Hai dubitato di me?» chiese Ben, lo sguardo basso, prima di potersi frenare. Lei alzò gli occhi, sulla difensiva.
«Cerca di capirmi, Ben: tu eri in ritardo, e non sei mai in ritardo, e avevano rubato il quadro e queste ultime settimane sono state così difficili, avevamo litigato, mi sembrava di non potermi più fidare di te, Ruth mi aveva raccontato quelle cose e anche se il solo pensiero che tu potessi aver fatto una cosa del genere mi faceva venire il voltastomaco, io… cerca di capirmi, non sapevo che pensare, stava andando tutto a rotoli, io…» due lacrime solitarie le rotolarono giù per le guance; le mani erano troppo impegnate a torturarsi a vicenda per asciugarle. «Mi dispiace, mi dispiace così tanto, ma ti giuro, è stato solo per un po’, finché non ho realizzato che tu non mi avresti mai, mai, fatto una cosa del genere, che doveva essere un malinteso, e continuavo a ripetermelo e a sperare di svegliarmi presto da quell’incubo…»
E poi l’ansia, il dubbio e la paura accumulati durante la notte la sopraffecero, e fece del suo meglio per nascondere i singhiozzi dietro una mano. L’abbraccio avvolgente di Ben fu più efficace tuttavia.
«Non è niente, è tutto finito, tranquilla…» sussurrò sui suoi capelli. Voleva baciarli, ma non osava. Non si sentiva alla sua altezza, non lo sarebbe stato mai.
Mel si calmò e sciolse l’abbraccio, asciugandosi gli occhi. Trasse un gran respiro e tirò su con il naso. Rimasero in silenzio per un po’, ciascuno immerso nei suoi pensieri.
«Ha detto che andrà per un po’ da sua madre, in Cornovaglia, Ruth. I suoi sono separati» disse Mel. Ben annuì poi corrugò le sopracciglia.
«Aspetta, e io come faccio ad uscire da qui? Voglio dire… Mi hanno già interrogato e io ho negato tutto, ma non me la sentivo di accusarla…»
«Grazie» disse lei, riconoscente. Sospirò. «Ho parlato con McConaghan, gli ho spiegato tutto quanto, gli ho chiesto di lasciarti andare e non prendere ulteriori provvedimenti. Tecnicamente non avevo sporto denuncia e il quadro è tornato sano e salvo… Mi toccherà uscire a cena con lui, ma non c’è altro da fare» si strinse nelle spalle. Ben fece una smorfia, adirato.
«Se quel… se quell’idiota di un Ispettore da quattro soldi che ha meno intuito di Topolino prova a fare qualunque cosa che non mi aggradi, puoi star certa che gli infilo la licenza su per il…»
«Ben!» lo bloccò lei, allarmata e divertita. «Siamo a Scotland Yard, è praticamente casa sua, non urlare!»
Un piccolo sorriso affiorò sul volto contrariato di lui, che incrociò le braccia. Lei continuò a ridacchiare dietro una ciambella finché il sorriso non svanì lentamente nel silenzio.
«Tu… Davvero non ti ricordavi? Di Ruth, intendo» gli chiese poi, titubante.
«No!» si affrettò a rispondere lui. «E mi sento così male per quello che è successo e se avessi ricordato tutto questo non sarebbe accaduto, avrei cercato di appianare lei cose e sono stato una tale testa di…»
«Ehi» lo fermò lei, posandogli una mano sul braccio. «Non importa.»
«Importa a me! Ho finalmente la prova di essere una persona orribile che non ti merita e che…»
«Smettila» ordinò lei, la presa ferma sul suo braccio, lo sguardo duro, cancellato il sorriso indulgente.
«Sono passati quasi dieci anni. So che sei cambiato e non faresti mai più una cosa simile, perché mi fido di te. E anch’io ho il mio carico di scheletri di cui occuparmi. Ma va bene. È passato. E sai, se c’è una cosa che ho imparato da tutta questa storia, è che dobbiamo accettare il nostro passato, venirci a patti e non tentare di nasconderlo, perché è parte di noi. E magari, così, diventerà meno doloroso e più semplice lasciarcelo alle spalle e guardare avanti. Non siamo solo bianchi, c’è un po’ di nero in noi ed è quello che ci dà spessore, ci rende umani. Come… sai, il chiaroscuro, in disegno: se non dai la giusta quantità di nero all’oggetto, non tirerai mai fuori il volume, rimarrà piatto.»
Benedict la guardò, con gli occhi stanchi e rossi di pianto e così bella e così forte nella sua fragilità: stava imparando a non scappare dai suoi fantasmi, a sistemare le crepe invece di ignorarle, gli si stava mostrando per come era veramente, paure, dubbi ed errori compresi e Ben non avrebbe mai potuto ringraziarla per un privilegio simile. Era annientato da lei e non sapeva che fare.
«Grazie.»
Lei sorrise.
«Siamo pari, no?» disse, prendendo il rimanente della sua ciambella e sistemandosi meglio sulla branda per finirla.
Ti ci vorranno anni per metterti in pari con lei.
Rimasero in silenzio, riflettendo, cercando di raccapezzarsi sugli avvenimenti della serata.
«Mi sembra così irreale, davvero è stato Keane? Sai, all’inizio sospettavo addirittura di Reeves…» disse Ben, piano, pensando ad alta voce.
«Reeves?» Mel sospirò, stringendosi nelle spalle. «Sì, suppongo che tutti abbiamo sospettato di tutti: ho pensato a Bruce, addirittura a Martin, perfino a te» disse Mel, con un sorrisino amaro e dispiaciuto. «E sì, è stato Keane. O almeno, è stato un complice. Sai, alla fine non lo biasimo nemmeno così tanto: ha avuto le sue ragioni. Mi dispiace per i quadri, ma McConaghan ha detto che faranno il possibile per ritrovarli.»
«Cioè non li troveranno mai» completò Ben, cupo. Mel rise, alzando le spalle.
«Come fai ad essere così?» le chiese lui, guardandola con ammirazione.
«Così come?»
«Così… Voglio dire, li hai davvero perdonati? Ruth e Keane? Dopo quello che ti hanno fatto?»
«Certo che li ho perdonati, Ben, e se non l’ho ancora fatto, lo farò» disse lei, serena. «Keane… è un uomo disperato e se fossi stata nella sua stessa condizione avrei probabilmente fatto lo stesso. E Ruth…» sospirò.
«Non giustifico quello che ha fatto e so che avrei tutte le ragioni del mondo di essere arrabbiata con lei, ma… Non ci riesco. Sono così sollevata che tutta questa faccenda sia finita e la capisco. Ha sbagliato, avrebbe dovuto parlarti. Ma non posso odiarla. Suppongo che non la rivedrò per parecchio tempo, e sarà meglio così, ma se solo penso in quale stato debba trovarsi lei in questo momento… Vedi, mi dispiace troppo per lei, come posso essere arrabbiata? Se ha bisogno del mio perdono, glielo concederò. È tutto finito, e, come dice il vecchio Shakespeare, tutto è bene quel che finisce bene, no?»
Benedict l’abbracciò di nuovo, con foga, tanto stretta che poteva a malapena respirare, mandando all’aria la scatola di doughnuts.
«E io? Mi perdonerai mai?» bisbigliò, esitante.
Mel sentì il suo petto vibrare quando parlò, e sorrise.
«L’ho già fatto» sussurrò, e Ben non attese oltre per baciarla, finalmente, a lungo. Senza alcuna intenzione di lasciarla andare.
Grazie, grazie, grazie.
«Insomma! Non è una camera d’albergo, questa!»
Il poliziotto li fissava seccato dall’altra parte delle sbarre, le mani sui fianchi. Si separarono di scatto, rossi in viso. Mel allungò un dito verso Benedict, con aria da santarellina.
«Ha iniziato lui, è lui quello dietro le sbarre.»
Ben cercò di mantenersi impassibile, con scarso successo, mentre le faceva il solletico sui fianchi con le sue lunghe dita sottili. La ragazza si contorse come un’anguilla, cercando allo stesso tempo di sfuggire alle dita di lui e di non scoppiare a ridere. Il poliziotto rivolse loro un’occhiata minacciosa.
«Uscite di lì, forza» abbaiò. Mel e Ben non se lo fecero ripetere due volte, e scoppiarono a ridere appena misero piede nel corridoio.
 
 
Camminarono a lungo per la Londra sonnolenta nell’ora prima dell’alba, parlando. Ben le raccontò della sua storia con Olivia, durata dieci anni; Mel gli parlò di Bruce, di come fosse venuto la sera precedente, con i fiori e tutto. Gli disse che aveva intenzione di mantenersi in contatto con lui, perché meritava un’altra occasione. Gli chiese dei suoi quadri e Ben arrossì, imbarazzato, e si scusò per non averglieli mai mostrati prima, intimidito dalla bravura di lei.
Si trovavano sul Waterloo Bridge; si fermarono e si voltarono verso Est, ammirando abbracciati il Sole che tornava alla vita.
«Non oso pensare a che ramanzina mi farà mia madre appena la rivedo…» mormorò Benedict, suscitando le risa nella ragazza.
«Non ridere, sono serissimo. Ho paura. Anche del tuo gatto, adesso che ci penso. Mi spellerà vivo. E Martin mi ricatterà a vita.»
Mel, intrappolata fra le sue braccia, rise.
« Vuoi dipingere?»
«Oh, ma non sono un granché, nonostante quello che pensa mia madre…»
«Perfetto, ho giusto una tela bianca a casa: ricominciamo» disse, tornando a guardare il Sole che sbatteva le palpebre ed apriva gli occhi, inondando il cielo di colore.
Ben sorrise, la strinse a sé ed abbassò la testa fino a poggiare le labbra sui capelli di lei.
Ricominciare. Con lei. Non vedeva l’ora.
 
Here comes the sun,
Here comes the sun
And I say “It’s alright”…
 
«Ehi, aspetta!» esclamò Ben, rompendo bruscamente l’idillio.
George Harrison ti sta guardando storto. Non si interrompe George Harrison.
«Sì?»
Mel lo guardò interrogativa dal dolce nido delle sue braccia.
«“Falso d’autore”, la scritta, quella che avevano trovato sul muro vuoto sotto uno dei tuoi quadri alla prima mostra… Cos’era?»
La ragazza corrugò le sopracciglia cercando di ricordare, poi sorrise scuotendo la testa.
«Un’opera dell’artista scozzese Pete MacTen, la cui mostra era terminata proprio quel giorno. Aveva scritto direttamente sul muro, non chiedermi perché, forse un tentativo di protesta o di far sentire la sua voce in modi alternativi – arte moderna, sai come sono questi artisti, valli a capire.»
Ben sbatté le palpebre, incredulo. Mel strinse le labbra, sollevando le sopracciglia e alzando le spalle, con aria di finto compatimento.
«Il povero McConaghan non è il brillante detective che si aspettava di essere. Forse dovrebbe staccare i suoi poster di Sherlock Holmes dal muro ed imparare che si trova a Scotland Yard che, come ripete il suo idolo, altro non è che un ritrovo di idioti, quindi lui è fondamentalmente il più idiota degli idioti.»
Ben scosse la testa e finalmente scoppiò a ridere.
Mel sorrise, pensando che avrebbe voluto sentire solo quella risata per il resto della sua vita e che aveva una tela bianca davanti a lei che non vedeva l’ora di riempire e sapeva che non sarebbe stato facile ma ciò nonostante si sentiva elettrizzata e tremante e piena di adrenalina ed entusiasmo e gioia e allegrezza pura e pensava che non voleva più nemmeno immaginare un giorno o un quadro senza Ben – ma ovviamente non poteva dirglielo: aveva una reputazione da difendere, lei – e poi, chi avrebbe sopportato Matisse, a casa?
La risata di Ben si spense e lui abbassò il viso su di lei.
«A che pensi?» le domandò, notando che non aveva riso e lo guardava pensierosa.
«A Picasso.»
Lui corrugò le sopracciglia.
«Picasso? Mh. Io avrei detto Monet. È un’alba molto alla Monet.»
Mel rise.
 
 
 
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Art is a lie that makes us realise the truth.
–Pablo Picasso
 
 
 
 
 
 
 
 


Ultimo capitolo. Ce l’ho fatta.
Prima che mi linciate, spiego: adoro Benedict Cumberbatch e non ho alcuna intenzione di offenderlo o altro, ci mancherebbe; tuttavia, ho scelto di farlo agire in quel modo perché intendevo creare un personaggio a tutto tondo, con pregi e difetti, non un eroe affascinante e basta che, francamente, trovo poco credibile – spero di esserci riuscita; se così non fosse, vi prego ditemelo =) Spero di non aver deluso nessuno con questo finale, sono stata a lungo indecisa.
Ora i ringraziamenti:
Grazie a Mr Cumberbatch, che illumina e rovina le nostre vite con il suo essere adorabilmente affascinante e dolorosamente irraggiungibile (ma la speranza non morirà mai!).
Grazie alla Musa, a cui dovrò sacrificare una torta, per non avermi abbandonato.
Grazie al mio libro di disegno (e a chi me l’ha regalato) su cui ho imparato la tecnica del chiaroscuro.
Grazie a B, che mi ha aiutato tanto e ha scelto il font per il titolo.
E grazie con tanto di abbracci virtuali coccolosi a tutte le meravigliose persone che hanno letto fin qui, hanno preferito, seguito, ricordato e lasciato le splendide recensioni: è per e grazie a voi se ho continuato con tanto entusiasmo. E complimenti per il coraggio. :3
Per i più arditi, un segreto: potrebbe esserci un seguito, un paio di one-shots, massimo mini-longs (dipenderà anche dalla risposta a questa storia: se vedo che vi siete stufate di sentire le mie scemenze su questi due, me ne faccio una ragione e smetto di intasare il fandom e tutti felici =)
Me ne vado, perché ho rotto abbastanza.
Alla prossima, ciao!
-Clock



Desclaimer: con questo scritto non si intende in alcun modo offendere o dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone realmente esistenti. Tutti i fatti sono inventati dal mio cervellino fantasioso.
  
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