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Autore: GretaHorses    18/09/2014    11 recensioni
""Leon ascoltami: non ho detto che devi amare me, devi amare lui!". Indicai tremante il mio ventre. No Vilu, non piangere. Non in quel momento, non davanti a lui. "Non sarei di troppo?". Assunse un'espressione sarcastica e ridacchiò. "Ma cosa stai dicendo? Lui ha bisogno di te". "Ce la può fare benissimo senza di me, un padre ce l'ha già!". Mi urlò contro con una rabbia tale che quasi mi fece paura. "Hai ragione, lui non ha bisogno di te. Diego mi è stato vicino in tutti questi mesi e di certo lo ama più di te che non ci sei mai stato. Amare per te è un optional, giusto? E' sempre stato così, non capirai mai". Decisi di andarmene e mi voltai, non volevo più sentire un'altra parola uscire dalla sua bocca. Erano passati quasi due anni dal nostro ultimo addio, quattro mesi da quella maledetta sera. Ma se non me ne doveva importare più nulla, perché faceva così male?".
Questo è il sequel di "Indovina perché ti odio", vi consiglio di leggere la fanfiction precedente se non l'avete ancora fatto.
Enjoy.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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CAPITOLO 3

 

 

 

Eravamo diretti verso l'aula magna dal nostro coordinatore di classe, il professor Milton. Camminavo fra Diego e Ludmilla silenziosamente, tanto a far caciara ci stavano pensando gli altri. Arrivammo di fronte al portone già spalancato e l'insegnante si voltò per poterci dire un'ultima cosa prima di entrare: “Ragazzi, cercate di tenere un comportamento decoroso. Non mi va di fare il poliziotto e starvi ad osservare per tutta l'assemblea, quindi comportatevi bene. Sia mai che mi tocchi riprendere qualcuno davanti a tutta la scuola, è vergognoso sia per voi che per me. Sono stato chiaro?”. Annuimmo e qualcuno osò dire qualche 'Sì' flebilmente. Si poteva dire tutto della terza B, tranne che fosse una classe casinista. Eravamo abbastanza tranquilli salvo alcuni ed i prof. riuscivano a fare il loro lavoro senza chissà quali impedimenti, tutt'altra cosa rispetto alla precedente. L'uomo si girò e ci addentrammo nella stanza già occupata in gran parte, ma rimanevano liberi diversi posti. Mi guardai attorno e scorsi la figura di Fran, per cui senza pensarci due volte andai a sedermi accanto a lei lasciando gli altri due in balia di loro stessi. “Ciao Fran!”. Alzò lo sguardo e mi sorrise. “Hey, sei arrivata!”. “Ma siete tutti qua voi della D?”. Scosse il capo. “Ma va! Siamo tutti sparpagliati in giro, figurarsi se rispettiamo l'ordine fra classi”. Scoppiammo a ridere. “Okay, allora sto tranquilla perché ho abbandonato la mia per sedermi qua”. “Sì, cosa vuoi che sia”, rispose ridacchiando. “Violetta, è occupato per caso?”. Mi voltai verso la voce proveniente alla mia sinistra: era Alex, un mio compagno, mentre indicava la sedia accanto alla mia. “Sì, mi spiace”. Scrollò le spalle. “Fa niente”. Poi se ne andò seguito da Gery, una sua amica. “Tieni il posto a Leon?”. Annuii. “Stamattina gli ho promesso che se fossi arrivata prima io in aula magna gli avrei tenuto il posto”. Nel frattempo arrivò Marco con Cami per accomodarsi a destra di Francesca, i quali mi salutarono animatamente. “Eravamo andati da Maxi e Broad dall'altra parte della stanza, sono tutti assieme quelli di grafica”, spiega il suo ragazzo. Anche se mi aveva detto che erano tutti sparpagliati, notai che i miei amici erano radunati con le loro nuove classi infatti ero l'intrusa fra loro tre. Camilla ridusse gli occhi a due fessure scrutando attorno a sé pensierosa. “Chi manca ancora?”. “La terza C”, dissi prontamente. “La E è arrivata?”. “Stai chiedendo di Fede indirettamente?”, domandò maliziosa Fran. Cami, dal suo canto, arrossì e le diede una pacca sul braccio. “Ma cosa! Smettila, ho chiesto solo per curiosità”. “Sì, certo”. “La E è arrivata da un pezzo, comunque”, placò gli animi Marco. Non riuscivo a seguire appieno i loro discorsi, ero più concentrata a guardarmi attorno freneticamente nella speranza di vederlo sbucare da qualche parte insieme alla sua sezione. Effettivamente mancavano solo loro, secondo me era per via del loro comportamento perché ogni volta che c'era un evento scolastico arrivavano per ultimi a causa dei discorsi lunghi ed inutili dei loro professori. Inutili perché tanto loro facevano baldoria lo stesso, avvertimento o non avvertimento. Finalmente spuntò Casal dall'entrata seguito dai suoi studenti. Mi costava ammetterlo, ma in quella classe sembrava si fossero radunati i più belli della scuola. Passarono nel corridoio in mezzo uno dopo l'altro, ma non individuai subito il mio ragazzo. Poi lo intravidi e cercai di fargli segno sorridendo, ma il tutto svanì quando lo vidi intento a parlare con una ragazza alta e mora tanto da non degnarsi di guardare altrove. Abbassai il braccio seria, si sedette fra un ragazzo castano e lei continuando a chiacchierare. Non riuscivo a smettere di fissarli, ma non ci eravamo messi d'accordo per sederci vicini? “Chi è quella?”, chiese Francesca confusa. “Non ne ho idea”. “Beh, è carina”. Inutile dire che Marco si prese una bella occhiataccia. “Credo sia sua amica, la vedo spesso con lui ed altri suoi compagni”, disse Camilla. Improvvisamente un rumore fastidioso ci perforò un timpano, odio quando picchiettano col dito sui microfoni. Ci girammo tutti verso un uomo barbuto sulla sessantina che iniziò a salutarci ed a presentarsi, ma non l'ascoltai come stavano facendo i miei amici. Guardai ancora in loro in direzione, non si stavano più parlando. Allora fissai lei intensamente, era seduta a gambe accavallate e teneva le braccia incrociate sotto al petto prosperoso. Con una mano si scostò i lunghi capelli corvini lasciandoli ricadere dietro a sé, dopodiché ruotò il capo ed incrociò il mio sguardo. Un brivido mi percorse la schiena come se mi stessero passando un cubetto di ghiaccio lungo di essa, rimasi ibernata sul posto. Labbra rosee appena schiuse a forma di cuore, colorito marmoreo e perfetto. Ciglia lunghe e sopracciglia ben curate, trucco nella giusta quantità. Ma, soprattutto, occhi magnetici, grigi e freddi capaci di rapirti e gelarti in una frazione di secondo.

 

 

Distolgo lo sguardo deglutendo, fisso il pavimento. Aspetto alcuni secondi prima di rialzare il capo, con la coda dell'occhio vedo che ha raggiunto le macchinette. Non dovevo guardarla così intensamente, mi fa lo stesso effetto da sempre. Congiungo le mani e scruto l'ambiente circostante sentendomi terribilmente a disagio, gli studenti che passano non riescono a fare a meno di lanciare un'occhiata a me, ma soprattutto al mio pancione prominente. Non è bello essere incinta all'ultimo anno di superiori e tanto meno frequentare gli orari scolastici regolarmente come una normale liceale. Sono tutto fuorché normale. Se gli altri non si trattengono dall'osservarmi con curiosità, io non posso non guardare lei. E' poggiata con una spalla al distributore automatico e con un mano giocherella con le punte dei suoi lunghi capelli, con l'altra stringe una mela rossa. Cosa starà facendo? Porta dei jeans a vita alta dentro ai quali è inserita una camicetta rosa antico svolazzante e pomposa, ai piedi ha mocassini scamosciati. Si volta ancora verso di me e prontamente fingo di essere intenta a far altro, sbircio: adesso sbuffa ed estrae una moneta dalla tasca, seleziona un numero ed aspetta che le venga dato il prodotto ed il resto. Una bottiglietta d'acqua. Dovevo immaginarlo, è vegana. C'è qualcosa che le manca per essere più perfetta di così? La prima cosa che ho pensato quando l'ho vista è stato che lei sia tutto ciò che le bambine sognano di essere da grandi: bellissime, alte, magre con le curve al posto giusto ed intelligenti. Come potevo non essere infastidita quando ho scoperto che era amica di lui? Sapevo che non c'era nulla fra loro, ma ugualmente mi scocciava vederli parlare, ridere, scherzare. Forse perché lei possedeva tutto ciò che non avevo mai avuto: famiglia perfetta, soldi, bellezza disarmante e l'ammirazione di tutti. Invidia per lei e gelosia accecante sapendola sua amica. Passavo ore intere nel suo profilo scoprendo molte cose sul suo conto: vegana, pratica yoga e palestra, fa dei servizi fotografici come modella ed è volontaria presso un rifugio di senzatetto. Raquel Marquez è la figlia che ogni genitore vorrebbe. Si sposta a lato accanto al davanzale della finestra poggiandovi la bottiglietta, dà un morso alla mela. Perché è ancora lì e non se n'è andata? Starle a meno di cinque metri di distanza mi disturba. Mentre mangia, prende il suo cellulare che, manco a dirlo, è un iPhone e si distrae con esso. Non è il genere di persona che passa la ricreazione sola, proprio no. E' sempre circondata da gente, non posso fare a meno di guardarmi attorno e notare che nessuno è seduto nei miei pressi. Classico. Improvvisamente due ragazzi le vanno incontro, uno tenta di spaventarla e l'altro le ruba l'acqua. Distolgo lo sguardo, un nodo alla gola. Mi giro, ora lei sorride e tratta su come avere indietro la bottiglia mentre lui ha le braccia avvolte attorno al suo ventre, schiena contro petto. Mi mordo il labbro, fuoriesce sangue e rimpiango di aver lasciato a casa l'elastico. Non riesco a sentire cosa dicono fra la caciara per fortuna. Una risata, però, mi tormenta. Una loro risata. Perché sono qui? Voglio andarmene, ma non posso. Ho un accordo. “Scusa il ritardo!”. Sobbalzo, è Diego. “No, tranquillo”, rispondo flebilmente. Si siede di fronte a me in modo da poter essere faccia a faccia, è sorridente ed apparentemente euforico. Però i miei occhi non riescono a staccarsi dal quadretto poco lontano da noi. Si volta all'indietro, per poi dire: “E scusa anche se nel frattempo hai assistito a brutte scene”. Torno a guardarlo in viso e scuoto il capo. “Fa niente, sul serio”. La mia voce è troppo debole per far risultare l'affermazione vera, così continuo: “Allora, cosa dovevi dirmi di tanto importante?”. Abbozzo un sorriso cercando di essere convincente, la sua espressione seria svanisce per lasciar spazio ad una entusiasta. “Sono stato convocato nell'ufficio di mio padre, me l'aveva già detto stamattina di andarvi perché aveva una grande notizia da darmi riguardo l'università”. Spalanco la bocca piacevolmente sorpresa e vi porto una mano. “C'è un'altissima probabilità che mi ammettano, praticamente un posto è già mio!”. Allarga le braccia e mi esce un gridolino acuto, l'abbraccio di slancio. “Che bello, Diego! Sono così felice per te”. “Grazie, Vilu”. Ho il volto infossato nella sua spalla, alzo la testa sempre stretta a lui e la gioia sparisce. I miei occhi incastrati con i suoi. Ci fissiamo e serra la mascella, è ancora avvinghiato a lei. Fermi per istanti che mi paiono infiniti, il respiro affannoso. Non riesco a smettere di guardarlo. Gli altri due continuano a parlare, lui ha il capo ruotato in mia direzione. Un brivido mi percorre la schiena e lo stomaco inizia a dolermi, m'irrigidisco però non mi muovo d'un ciglio. “Hey, potresti anche smetterla di stritolarmi adesso”, dice Diego ridacchiando. Mi riporta alla realtà, è come cascare al suolo e farsi male il triplo. Mi stacco e sfrego le mani fredde come ghiaccioli, nervosismo. “Che c'è? Non sei più contenta?”. “No!”, urlo. “Sono felicissima, è una gran bella notizia”. Inarco leggermente gli angoli della bocca. “Okay. Scusami, ma sembrava avessi visto un fantasma!”. Perché tutti usano quest'espressione? Forse lui lo è veramente. Un fantasma che continua ad aleggiare nella mia vita e quando lo vedo sbianco. Sì, dev'essere per forza così. “Credimi, sono veramente contenta”. I miei occhi si spostano dal suo volto, lui le sta avvolgendo un braccio attorno alla spalla per imboccare il corridoio ed andare presumibilmente nella loro classe. Mi mordo l'interno della guancia. Si è appena voltato all'indietro guardandomi, per guardare me. Si rigira subito, ma questo basta a mandarmi in tilt completamente. “Oh, Vilu! Mi ascolti?”. Scuoto la testa, Diego mi osserva teso. “Sì?”. Sbuffa e si passa una mano sul viso esasperato. “Cos'hai?”. “Non ce la faccio più”, sbotta. Nel frattempo suona la campana, però non le prestiamo attenzione. Faccio per ribattere, ma mi precede. “Lo so che non devo parlarne, lo so. E' solo che è tremendamente difficile vedere che nonostante tutto preferisci lui a me”. “Ma se non ho fatto nulla!”. Sospira ed abbassa lo sguardo. “Credi che non abbia visto come lo guardi? Neanche se m'inginocchiassi davanti a te con un mazzo di rose riuscirei ad avere lo stesso sguardo che riceve lui quando non fa nulla”. Eccola, una sensazione tanto familiare: senso di colpa. Per tutto ciò che sto per ribadirgli, per tutte le volte che lo faccio soffrire. “Diego...”. “Quando ti guardo negli occhi sai cosa vedo?”. Avvicina la faccia alla mia, deglutisco. Non eravamo mai arrivati ad una tale vicinanza. “Cosa?”. Il naso a pochi centimetri dal mio, il suo respiro s'infrange sulle mie labbra serrate. “Lui”. E' come se mi estirpassero l'aria dai polmoni prosciugandoli, come posso rispondere? Semplicemente non posso. Do una rapida occhiata attorno, è quasi vuoto. Mi faccio avanti e premo la bocca contro la sua, il suo sapore m'invade. Ho gli occhi chiusi, i suoi palmi mi avvolgono il viso. Forse è questo ciò che serve per uscire da questo brutto periodo, devo imparare ad amare ciò che mi fa bene. “Ti amo”. Ma non è lui che l'ha detto, come potrebbe parlare mentre lo sto baciando? “Ti amo”. Lui. Non è il profumo di tabacco e vaniglia, non è il suo tocco sulla mia pelle, non sono i suoi smeraldi. Spalanco le palpebre e lo spingo via lasciandolo attonito. “Scusami, non so che mi sia preso”. Mi alzo in piedi e mi allontano. “Hey, Vilu non...”. “Non sapevo cosa stessi facendo!”. “Ho capito, ma...”. “No! Devi stare lontano da me, più mi starai distante e meglio sarà per te”. Si tira su e mi si mette di fronte. “Sai che non è così, non riuscirò mai a separarmi da te”. “Pensa a te stesso per una buona volta! Pensa al tuo bene!”. Mi accarezza una guancia. “Sto bene solo se ci sei tu”. Gli levo la mano facendola cadere a penzoloni. “Non è vero. Tu stai soffrendo a causa mia, apri gli occhi e renditi conto di che stronza hai davanti!”, gli urlo contro. “No, non lo sei”. “Ti ho baciato essendo a conoscenza dei tuoi sentimenti nei miei confronti, sii realista”. Silenzio. “L'ho fatto nonostante mi aspettassi già cosa avrei provato”. “E cos'hai provato?”. La sua espressione è affranta, ma come biasimarlo? “Nulla”. Gli do le spalle per potermi dirigere in aula, siamo già in ritardo. Poi, però, mi volto all'indietro per potergli dire: “Finiamola qua, Diego. E' meglio così per entrambi”. E me ne vado lasciandolo solo e sofferente, ma delle volte bisogna ferire per poter far capire.

 

 

Posai il capo contro una porta in legno stanca, guardai il cellulare: meno un quarto le sei e nessuna chiamata. Sbuffai e mi presi la testa fra le mani esausta, era un'ora e mezza che stavo aspettando. Già ci ero passata sopra la mattina, tanto che l'avevo invitato io qua però ora stava veramente esagerando. Non l'avevo praticamente mai visto durante la giornata e sembrava quasi mi volesse evitare, era proprio il colmo! Proprio oggi, no. Osservai ancora il display: venticinque gennaio. Rabbrividii e mi rannicchiai su me stessa, faceva freddo ed ero seduta nel gradino di un ingresso. Era con lei. Sicuro che era con lei. Amici di qua, amici di là. Ovviamente di lui mi fidavo, ma delle altre come potevo? Soprattutto se si trattava di ragazze che sembravano un ibrido fra una modella ed un'attrice hollywoodiana. Passavano molto tempo assieme fra ricerche, uscite in compagnia, ore in classe. Ero gelosa marcia. Sì, proprio tanto. Mi parlava spesso di lei e quando lo faceva mi arrabbiavo anche se non lo davo a vedere per non sembrare ossessiva, infondo un po' lo ero. Ogni suo atteggiamento strano mi faceva entrare in paranoia e lo collegavo subito a lei. Non feci eccezione. Un rumore di passi, mi voltai a sinistra. Eccolo. Sorridente, col fiatone ed irreparabilmente in ritardo. “Hey, amore scusa ma...”. “Scusa un cazzo!”. Si bloccò di colpo e sgranò gli occhi. “Che hai detto?”. Mi alzai di scatto ponendomi di fronte a lui. “Scusa un cazzo”.“Non l'ho fatto apposta ad arrivare in ritardo”. Scoppiai letteralmente, dopo un tempo a me infinito passato ad aspettare al freddo era il minimo che potesse accadere. “Eri con lei, vero?”. Aggrottò la fronte. “Lei chi?”. “Chi secondo te?”, gli urlai contro. “Ma cosa stai dicendo?”. Alzò il tono pure lui. “Chi vuoi che sia? La tua amica!”. “Raquel?”. “Sì!”. Si mise a ridermi in faccia, trovava la cosa divertente? Io neanche un po'. “Cosa c'entra? Dovresti smetterla di...”. “Come 'che c'entra'? C'entra eccome! Eri con lei!”. “Ma...”. “Non dire altro! Buon anniversario”. Mi accucciai e raccolsi la mia borsa, poi quando mi rialzai vidi bene il suo volto: la mascella serrata, lo sguardo imperturbabile. “Sai qual è la cosa ironica? Ho ritardato proprio per questo”. Assunsi un'espressione confusa. “Cosa...”. La frase mi si mozzò in gola quando lo vidi dirigersi a passo spedito verso la sua auto poco distante, aprì la portiera e con violenza scaraventò a terra dei fiori. Afferrò una scultura in creta gettando pure quella e facendola andare in frantumi. La stessa sorte toccò ad un cesto dal quale uscirono diverse pietanze e delle bottiglie. Il rumore assordante del vetro che si ruppe. Ed io guardavo la scena attonita e spaventata. Ansimando si voltò all'indietro lanciandomi un'occhiata carica di delusione. “Leon, aspetta...”. “Goditelo da sola”. Gli corsi incontro, ma lui rapidamente entrò in macchina per metterla in moto. Battei forte sul finestrino, ma partì a tutta velocità. Fissai il retro dell'automobile finché non sparì dal mio campo visivo, smarrita. Come avevo potuto comportarmi così da stupida? Perché avevo messo le mie supposizioni sopra alla mia fiducia? Al tutto si aggiungeva la preoccupazione smisurata per la sua tendenza a premere sull'acceleratore quand'era alterato, rischiava veramente di ammazzarsi. Mi misi le mani fra i capelli disperata. Cos'avevo combinato?

 

 

Inserisco le chiavi nella serratura ed apro la porta, poi la chiudo. Mi scrollo la neve di dosso e mi tolgo tutti gli indumenti invernali per poi riporli nell'attaccapanni. Mi sfrego le mani infreddolita, mi avvicino al termosifone e le avvicino ad esso. “Già di ritorno?”. Papà. Non mi volto all'indietro, fisso piuttosto il muro di fronte a me. “Maxi arriverà fra poco”. “Okay”. Silenzio, ultimamente ci parliamo solo se strettamente necessario. A volte ci sto male per questo, mi manca il mio rapporto con lui. Poi ripenso alla situazione attuale e torno nella mia posizione, non sarò di certo io a cedere. Credo se ne sia andato, meglio così. Sospiro. Hanno inventato di tutto, la scienza è un progresso continuo...allora perché devono ancora costruire una macchina del tempo? Tornerei indietro per rimediare a tutti i miei sbagli, alla mia avventatezza. Io, lui e tutto tornerebbe ad essere perfetto. Fitta di dolore, ancora. Poso una mano sopra al pancione e scuoto il capo inclinandolo verso il pavimento. Rimango ancora immobile, poi decido di salire le scale ed andare in camera. Voglio stendermi, sono troppo affaticata. Sembra stupido, ma anche uscire di casa mi strema. Arrivata al piano di sopra, percorro tutto il corridoio ed entro nella mia stanza. Prendo una boccata d'aria e mi dirigo verso il letto per buttarmici a pancia in su. Fisso il soffitto immersa nel silenzio. Come ho potuto baciarlo? Sono una sciocca. Ora ho peggiorato la situazione e, mi scoccia ammetterlo, ho bisogno di lui. Diego è una delle poche persone che mi riesce a strappare un sorriso in una vita ormai diventata cupa e grigia, infondo volevo vedere se con tutto questo qualcosa fosse cambiato in me ed iniziassi a provare qualcosa nei suoi confronti. Nulla è cambiato. Perché ogni volta che mi viene incontro, mi aiuta, mi dice tutte quelle cose vorrei che al suo posto ci fosse lui? Voglio odiarlo, riuscire a fare a meno di lui, ma mi manca come l'aria. E' strano, vero? La persona per la quale piangi tutte le notti è l'unica che potrebbe consolarti. Nessuno capirebbe, nessuno capisce. Mi trattano come se avessi qualche problema, ma perché non comprendono che mi serve solo una cosa per star meglio? Da quando se n'è andato niente sembra aver senso, la mia vita ha perso senso. La rottura non l'ho mai superata. E sono passati due anni. Sono tornata in una campana di vetro: nessuno mi sente, mi ascolta. Ruoto il capo a destra, afferro il cellulare e vi collego gli auricolari. Me li metto alle orecchie, chiudo gli occhi ed accendo la musica. E' come se l'avessi accanto. Mi lascio trasportare dalla melodia, mi pare di avere le sue mani che mi sfiorano. Le sue labbra sulle mie, il suo petto contro il mio. Lui sopra di me, il suo profumo, la sua voce. Il respiro si fa pesante, serro ancora di più le palpebre. Ci stiamo mischiando la pelle, le anime, le ossa. Ci stiamo amando. Improvvisamente sento il materasso abbassarsi a lato, apro gli occhi di scatto e mi volto a sinistra. Metto in pausa la canzone. “Cosa ci fai qui?”. Papà è seduto al mio fianco, le mani congiunte nella sua posa caratteristica. “Se vuoi entrare, devi bussare”. Non mi sta nemmeno guardando, fissa di fronte a sé. Cos'ha? “Non mi hai sentito, ho provato a bussare”. Mi sento un po' in colpa. Stavo ascoltando la musica ad alto volume, è vero. Dal mio canto continuo però a cercare il suo sguardo, ma continua ad essere concentrato da tutt'altra parte. “So che suona strano, ma io lo so”. Rivolge il capo verso il pavimento. “Lo sai?”. Prende un grosso respiro e si volta finalmente verso me. “So cosa provi”. Mi metto goffamente seduta e lo scruto confusa. “So cosa significhi soffrire per una persona che non hai più, che se n'è andata dalla tua vita. Lo so meglio di chiunque altro, Vilu”. Un pugno allo stomaco: mamma. “Almeno lei ti amava”. “Perché lui non ti ha amata?”. Secondo colpo incassato. “Non sono più sicura di niente ultimamente”. Posa una mano sopra la mia. “Il vuoto, la vita che sembra perdere colore, la sofferenza: comprendo tutto. Delle volte bisogna crescere forti anche se è difficoltoso, ma siamo obbligati. Chi meglio di te lo sa? Il tempo passa inesorabilmente anche quando sembra impossibile e sono conscio che si fa presto a dire che andando avanti le cose si sistemeranno, anche se si fa molta fatica a convincersi di ciò. Ma è la verità: il tempo guarisce le ferite. Sì, si può pure tornare ad amare anche se in modo diverso ed io ne sono la prova vivente”. Mi rannicchio come una bambina, anche se ormai non lo sono proprio. “Sarà, ma è tremendamente arduo per una come me. Almeno non eri costretto a vederla assieme ad un altro...”. “Credimi se ti dico che avrei mille volte preferito vederla accanto ad un altro”. Abbassa la testa e, indugiando, lo accolgo fra le mie braccia. Mi stringe forte, il pancione non è più d'ingombro. Con la voce ovattata perché ho il viso infossato nel suo petto, dico: “Manca tanto anche a me”. Mi accarezza i capelli con delicatezza, poi vi posa un bacio. “Oggi sei andata a trovarla?”. Annuisco. “Brava, sono fiero di te”. Da quant'è che non sentivo queste parole, da troppo. “Hai trovato un'altra rosa bianca?”. Mi stacco per poterlo guardare in volto. “No, è sempre la stessa della settimana scorsa”. “E' strano”. “Molto”. Tutto ad un tratto cambia espressione, diventa curiosa. “A proposito: come si chiama questa famosa ragazza che sta con Leon?”. “E chi l'ha detto che c'è di mezzo un'altra?”. “Tu indirettamente”. Giusto. Merda. “Una di scuola nostra, si chiama Raquel Marquez”. Aggrotta la fronte. “Che c'è?”. “Ah, niente. Questo nome l'ho già sentito...”. Come potrebbe? E' una diciottenne del liceo artistico, è quasi impossibile. Sgrana gli occhi e si sbatte una mano sulla fronte. “...ho capito chi è! E' figlia di Miguel Marquez!”. Sono più perplessa di prima. “Sarebbe?”. “Il dirigente dell'azienda per cui lavoro: la 'Marquez Enterprise'”. “Cosa?”. “Sì, è una delle più grandi imprese edili argentine. Sono sparse in tutto il paese, ma il centro è qua nella capitale”. Questo spiega la sua ricchezza ed il fatto che studi architettura. S'infila una mano nella tasca dei jeans, estrae il portafogli e fruga per alcuni secondi, dopodiché mi passa un foglio ripiegato. Lo apro e vi trovo un'immagine grande al centro di un uomo sulla cinquantina dai capelli corvini con qualche sprazzo di grigio. Le braccia incrociate, barba leggera e curata, l'espressione seria e gli occhi ghiaccio puntati verso chi legge il volantino. 'Marquez Enterprise: per una grande abitazione ci vuole un grande imprenditore'. Devo ammettere che nonostante l'età quell'uomo è davvero di bell'aspetto. “E' sposato con Mireya Lopes, un ex modella brasiliana”. E adesso si spiega il fisico e la bellezza della figlia, anche il padre non scherza. “E' andata piuttosto male a questa Raquel”, commento sarcastica. Papà ridacchia, la prima volta che lo vedo sorridere a qualcosa uscito dalla mia bocca dopo mesi. “Proprio”. “Ma quindi tu l'hai visto di persona?”. Scuote il capo. “No, figurati! Lavoro in cantiere, Vilu. Il suo ufficio è quello più in alto di tutti”. “Se ha così tanti soldi, perché mandarla in una scuola pubblica?”. Fa le spallucce. “Non ne ho idea”. Sentiamo il rumore sordo del campanello proveniente dal piano di sotto. “E' Maxi di sicuro”. “Vado io, te lo mando su”. Si alza dal letto, ma l'afferro per un braccio. Si volta e gli sorrido timidamente. “Grazie, papà”. E' stupito, subito mi osserva incerto dopodiché mi dà un bacio sulla fronte e risponde: “Di niente, bambina mia”. Va verso la porta ed esce lasciandola aperta, tanto fra un po' arriverà il mio amico. Come ho fatto a non rendermi conto che forse l'unica persona che potesse capire il mio dolore fosse papà? L'avevo così vicino eppure così distante. Stringo ancora fra le mani il depliant della Marquez Enterprise perciò lo poggio sul comodino. Oh, cavolo. Ora che ci penso non ho continuato la canzone. Sono nella merda. Un lieve battito contro il legno, mi giro di scatto. “Buonsalve giovinotta”. Inutile dire che rido, riesce spesso a mettermi di buon umore. “Maxi, ti prego”. “Pronta per lavorare sodo?”. Mi gratto la nuca. “Mmh sì?”. Si accomoda di fronte a me con un sorriso a trentadue denti, si vede che ci sta mettendo anima e corpo per questo progetto. Beh, non poteva scegliersi compagna peggiore. “Come va?”. “Il solito, te?”. Scrolla le spalle. “A parte il fatto che ha smesso di nevicare, non ho nulla di esaltante da dirti. Ah, forse ne ho una: Lola ha partorito, vuoi un cucciolo di cane?”. Nego con la testa. “Per quanto siano carini i cagnolini, papà non mi lascerà mai tenerne uno, però grazie lo stesso”. Batte le mani con fare entusiasta, odio non aver fatto praticamente nulla per una cosa a cui lui sembra tenere molto. Solo ora mi sono resa conto che questa 'Battaglia di band' lo eccita parecchio, sarà anche perché tiene la sua mente impegnata così da non pensare ai suoi problemi. Chissà. “Mostrami cos'hai fatto, allora!”. “Prima voglio vedere il tuo”, affermo prontamente. “Okay”. Si toglie lo zaino, lo apre ed estrae un quaderno. Lo sfoglia e sorride di fronte alla pagina della sua canzone, detesto pensare che spegnerò quel bagliore nei suoi occhi. “Tieni, dimmi cosa ne pensi”. Lo prendo e comincio a leggere quanto scritto, devo ammettere che non è male. “Oh, bella questa parte: 'Lei era la persona dei miei sogni ed ora è solo un demone dei miei incubi'”. Arrossisce imbarazzato, leggere una canzone composta da una persona è come scavargli dentro e scoprire cosa c'è. “In conclusione posso dirti che mi piace e mi ci rivedo molto, inoltre con l'inglese te la cavi piuttosto bene. Non hai dato un titolo?”. “No, devo ancora pensarci. Avevo pensato di rapparla, dato che sono più portato per quel genere”. “Sì, si potrebbe fare. Io canto normalmente e tu rappi, dovrebbe venir fuori una figata”. Si riprende il quaderno, poi domanda: “E la tua canzone?”. Sul mio viso si estende il classico sorrisetto di chi si trova a disagio. “Posso confessarti una cosa, Maxi?”. “Certo”. Abbasso lo sguardo. “Ho scritto quattro righe di numero...”. Corruga la fronte. “Come?”. “Non ho scritto un cazzo in pratica! Solo due frasi in croce”. Non sembra arrabbiato, per niente. “Fammele vedere”. Scuoto il capo. “No, fanno cagare!”. “Ti ho detto fammele vedere, dopo valuto se fanno cagare o no come dici”. Sbuffo, mi alzo dal letto e prendo un fascicoletto in carta riciclata dalla scrivania. Glielo lancio, l'afferra al volo e torno a sedermi. “Mmh, vediamo...”. Gira le pagine velocemente. “E' questa?”. Mi fa vedere la canzone e, a malincuore, dico di sì. “'Rescue me', salvami”. “Potresti non leggerla ad alta voce per favore?”. “Tanto sono quattro righe!”. “Sì, ma...”. “Lo so, sto trovando difficoltà a respirare e sto annegando nel mio stesso sonno. E sento l'odio infrangersi su di me, perciò salvami”. “Fa schifo, lo so...”, dico. E' ancora intento a fissare la pagina, poi la mette di fianco al suo quaderno e le guarda entrambe alternatamente. “Non fa schifo, per niente”. Roteo gli occhi. “Ma se sono solo delle parole buttate giù alla cazzo di cane”. Si porta una mano al mento con fare pensoso, cos'ha in mente? “Cosa c'è?”. Torna a posare lo sguardo su di me e mi sorride esaltato. “Ho avuto una grandissima idea: fondiamo i testi!”. “Che?”. “L'argomento su è giù è sempre quello. Usiamo la tua strofa come ritornello, aggiungiamo qualche acuto e 'oh, oh, oh' di qua e di là ed il gioco è fatto”. La situazione è talmente paradossale da farmi quasi ridere. “Questo significa che il mio non far niente è stato produttivo in qualche assurdo modo?”. Scoppia in una risata. “A quanto pare sì! Adesso ci lavoriamo, andiamo alla scrivania?”. “Mmh, certo”. Ci alziamo dal letto, ma mi fermo un secondo per guardare se ho messaggi sul cellulare nella speranza che Diego mi abbia scritto. Sblocco ed entro su WhatsApp: nulla. Decido allora di fare il primo passo, vado fra i contatti e scorro velocemente alla ricerca del suo. Quando improvvisamente m'imbatto sul suo numero e non posso fare a meno di leggere lo stato: 'If I could be with you tonight, I would sing you to sleep. Never let them take the light behind your eyes. I failed and lost this fight, never fade in the dark. Just remember you will always burn as bright'. 'Se potessi essere con te stasera, canterei per farti dormire. Non lasciare mai che prendano la luce dietro ai tuoi occhi. Ho fallito e perso questa battaglia, non svanire mai nell'oscurità. Solo ricordati che sarai sempre il fuoco più luminoso'. Guardo quando l'ha messo: ieri. Avevo messo una frase della stessa canzone, 'The light behind your eyes' dei My Chemical Romance, proprio l'altro ieri ossia un giorno precedente al suo. Avevo scritto: 'Sometimes we must grow stronger and you can't be stronger in the dark' che significa 'Delle volte dobbiamo crescere forti e non possiamo essere forti nell'oscurità'. E' una fatalità? E se non lo è, che significa?

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Ciao ragazzi, come state? Io bene, dai u.u Scusate il ritardo di un giorno, ma sono impegnatissima ultimamente e ieri sono stata via tutto il giorno da una mia amica. Terzo capitolo. Bene, bene...che ve ne pare? Ora le cose dovrebbero esservi molto più chiare e stiamo entrando sempre più nel vivo della storia, infatti questo è un mix di 'capitolo di transizione' ed uno che racconta i fatti veri e propri. Avete captato qualche segnale? Ho aperto una gran parentesi sul personaggio di Raquel e scommetto che ora vi sta il triplo sulle palle. Violetta era eccessivamente gelosa, cosa pensate del suo comportamento? A Leon andava a genio? Abbiamo anche assistito al riavvicinamento fra Vilu e suo padre, trovo che sia una scena molto tenera. E il bacio a Diego? Aiuto. Beh, è stato un capitolo pieno! Non aspetto altro che i vostri pareri e le vostre teorie u.u

Grazie per le recensioni alle quali, scusate se non ho risposto, risponderò domani! Grazie anche per aver messo la mia storia fra i preferite, le seguite e le ricordate!

Un bacione,

Gre

  
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