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Autore: Sephta    03/10/2008    2 recensioni
Una piccola oneshot, scritta per un contest, sotto il tema della "gabbia".
Il testo che accompagna la narrazione è "Never Alone".
Spero vi piaccia, buona lettura!
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«I waited for you today

Free, in the air

«I waited for you, today.

But you didn't show.

No, no.»

«Ti ho aspettato, oggi.

Ma non ti sei fatto vedere.

No, no.»

Sfioro con due dita il metallo gelido.

Non so come mai, ma oggi mi sembra più freddo del solito. Okay, lo so che è una cosa stupida da dire, in fondo stando all’aperto è ovvio che sia sempre un po’ freddino, ma oggi… è strano che mi sembri così ghiacciato?

Forse no, non è così strano. Perché tu non ci sei.

Sbatto le ciglia e mi sposto dall’altra parte, senza potermi muovere granché, cercando di intravederti, ma è inutile.

Tu non sei qui.

Mi siedo, e aspetto. Ferma, immobile, nonostante il mio corpo, in tutte le sue parti, frema dal desiderio di muoversi, anche in uno spazio ristretto come quello.

Il mio sguardo è verso il cielo, azzurro e limpido, e capisco che è mattina presto. Lo scintillio del sole riverbera sul metallo dorato, e devo socchiudere gli occhi per non farmi accecare.

Guardo altrove, spostandomi, l’aria speranzosa, ma il risultato è identico a prima.

Tutto è vuoto, completamente vuoto, attorno a me, neanche il minimo segno che anticipi il tuo arrivo, o che segnali la tua presenza nelle immediate vicinanze.

Tu non sei… qui.

Sospiro, abbassando la testa.

Allungo una mano verso la ciotola con alcuni biscotti, e ne frantumo un paio tra le dita, prima di portarmi le briciole al viso.

Mangio, anzi sgranocchio, o meglio ancora rosicchio. Non ho realmente fame, mangio perché è il mio corpo a chiedermi, stremato, di farlo.

Pian piano, mentre continuo a frantumare e ingurgitare briciole di biscotti, un’idea si fa strada nella mia testa. Non è la tua assenza in sé, che mi fa del male, che mi fa perdere le forze.

È… l’attesa. L’attesa di vederti, incontrarti, accarezzarti, parlarti. Di farmi vedere, toccare, sentire da te. Di farti capire che io ci sono e che non ti abbandonerò mai.

Ecco, forse è un po’ elementare il concetto che mi faccia più male il vuoto che non il pieno, però non so spiegarlo in altra maniera.

Quando ci sei… è tutto a posto.

Al contrario, quando sono sola è quasi lacerante. Davvero, non sto scherzando: perché in qualche modo so che tu tornerai da me, verso sera, il giorno dopo, ma tornerai; solo che è proprio l’incertezza del non sapere quando ti vedrò a riempirmi d’ansia, perché non c’è niente attorno a me, non c’è il calore della tua mano, del tuo viso, del tuo sguardo, che mi dia la sicurezza che annunci un tuo imminente arrivo.

Niente.

Solo… queste sbarre di ferro.

Che mi afferrano il cuore, stringendolo, soffocandolo, fino a farlo sanguinare.

E tu non ci sei.

Ancora non ci sei.

«I needed you, today.

So where… did you go?»

«Avevo bisogno di te, oggi.

Ma dove… sei andato?»

Mi giro, in posizione tale da avere il sole alle spalle e poter guardare il cielo senza averlo direttamente e fastidiosamente negli occhi, le mani mollemente appoggiate ai lati della piccola altalena, le gambe penzoloni, la testa appena appoggiata ad una delle due catenelle.

Il viso è rivolto impercettibilmente in alto, più palese è invece la direzione dello sguardo: verso il cielo, da sempre anelato, da sempre amato, l’unico che mi facesse sempre compagnia, eppure il solo che riuscisse a farmi sentire ancora di più la solitudine, quando tu non c’eri.

Ho notato che l’azzurro chiarissimo di quella mattina si è fatto via via più scuro, come se qualcuno vi avesse steso diverse volte un velo trasparente che aveva pian piano offuscato quel ceruleo così limpido e perfetto, però so che il pomeriggio era ancora lontano.

Riuscivo a distinguere la differenza molto semplicemente: di mattina, la luce del sole era bianca, di un bianco così puro e semplice da farmi quasi vergognare della mia esistenza così complicata e turbolenta, nonostante fossi sempre relegata dietro quelle sbarre di ferro dorato.

La luce pomeridiana, invece, è arancione, forte, potente e feroce, simbolo del giorno che pian piano va concludendosi ma con grande stile, senza perdere il proprio candore mattutino ma anzi accrescendolo con una vitalità che ricopre tutto, soffocandolo e insieme esaltandolo.

E adesso, la luce che mi accarezza le spalle e che si riflette appena sulle sbarre davanti a me è pura e candida, appena un po’ dorata, ma forse è un effetto ottico dovuto al metallo.

Sospiro.

In maniera malinconica e con una punta di profonda tristezza, forse, perché so che se non arrivi di mattina presto, non arrivi affatto. Quindi, dovrò aspettare che le ore arrivino e passino, da sola, senza di te.

Alzo di nuovo lo sguardo al cielo.

«Dove sarà andato? Tu lo sai, forse?», bisbiglio, rivolta a quell’enorme distesa azzurra che sembra guardarmi, indifferente alla mia ansia ma allo stesso tempo compagna nella mia solitudine.

Chiudo gli occhi, magari aspettandomi una risposta, forse cercando di concentrarmi per udirla, o cercando di raggiungere quello stato di meditazione tale da poter udire la voce del vento, le parole delle nuvole e le calde rassicurazioni del sole.

Ma… non sento nulla.

Socchiudo gli occhi, verso un punto imprecisato del lago d’erba verde chiaro che circonda le sbarre, e allungo una mano a sfiorarle, come se volessi raggiungere quei fili che ondeggiano appena, al vento, che mi scompiglia i capelli e mi accarezza la pelle.

«E tu invece? Lo sai?», domando, questa volta mi rivolgo all’erba, quella che tu calpesti sempre, quando vieni da me. Magari riconosce i tuoi passi, e può aiutarmi a capire dove sei, e se stai tornando.

La guardo intensamente, sporgendomi appena dall’altalena.

«Allora? Proprio niente?», la incito, mentre pian piano la determinazione scivola via dal mio viso, sostituita ancora una volta dall’inquietudine.

La presa sulle sbarre di metallo si stringe, come in preda ad un improvviso moto di rabbia. Digrigno i denti e abbasso la testa, poggiandola contro il freddo acciaio, sperando di sbollire. Chiudo gli occhi e mi accorgo di star tremando.

Una lacrima, una sola, sfugge alle palpebre serrate – come, lo ignoro – scivola lungo la guancia, arrivata al mento abbandona la mia pelle e cade, senza emettere alcun suono, infrangendosi in mille piccoli frammenti sul fondo dell’intrico di sbarre.

Mi ripeto di calmarmi. In fondo è sempre stato così, no? Ti aspettavo, entravo in crisi, mi calmavo… e poi tu arrivavi. Arrivi sempre, non appena riesco a calmarmi.

Presa da questa piccola speranza, un’illusione, forse, magari anche un po’ sciocca e ingenua, però è l’unica speranza che ho, inizio a respirare con profondità, riprendendo il controllo di me stessa. Stacco una mano dalle sbarre, portandomela al viso e cancellando le tracce di quell’unica goccia salata sgusciata via dai miei occhi.

Quando mi sarò calmata… tu arriverai, vero?

«You told me to call

Said you'd be there

And though I haven't seen you

Are you still there?»

«Mi avevi detto di chiamare
Che saresti stato qui
E anche se non ti ho visto
Sei ancora qui?
»

Le ore arrivano, restano, mi fanno compagnia, e poi vanno via.

Un ciclo continuo.

E tu… ancora, non ci sei.

«Ieri sera avevi promesso, avevi promesso che saresti tornato presto.», mi lamento, dondolandomi con leggerezza, la punta dei piedi che urta contro il metallo, le mani sulle barre laterali dell’altalena, che si muove appena, aiutata dalla spinta. «E allora perché ancora non ti vedo? Perché ancora non sento i tuoi passi? Perché non c’è la tua voce a farmi compagnia?», continuo, alzando di nuovo gli occhi al cielo, nello sguardo un’accusa velata.

«…e perché tu non mi parli?», mormoro infine, alzandomi in piedi sull’altalena. Allungando le braccia riesco a toccare il punto in cui le barre si incontrano, al centro, formando un cerchio fatto di tanti piccoli spicchi, che vanno allargandosi man mano che la stanza prende forma.

Ma in realtà non è il metallo che sto toccando. Le mie intenzioni erano di sfiorare il cielo… anche simbolicamente, ma mi sarebbe piaciuto accarezzare quell’immenso azzurro che mi circonda da ogni parte, insieme al verde dell’erba e il giallo del ferro. Mi sarebbe piaciuto stringerlo a me, per ringraziarlo, mi sarebbe piaciuto schiaffeggiarlo per quelle volte in cui mi guardava senza dire niente, incurante delle mie preghiere e della mia sofferenza, mi sarebbe piaciuto ringraziarlo e baciargli le mani per tutte quelle volte che mi ha rinfrescata con la pioggia, o riscaldata con il sole, o rinfrancata con il vento, o divertita con la neve.

Purtroppo, però, non mi è possibile farlo, come tante altre cose.

Perché io sono qui dentro, partecipe del mondo ma allo stesso tempo esclusa dal suo movimento inarrestabile, violento e così tremendamente affascinante.

Io sono… superflua.

«I cried out with no reply,

And I can't feel you by my side.»

«Ho pianto senza risposta,

E non ti posso sentire al mio fianco.»

Resto ferma e silenziosa in piedi, sopra l’altalena, una mano appoggiata alle sbarre davanti a me, l’altro braccio alzato, le dita che sfiorano la sommità delle sbarre.

«Cielo, ascoltami.», dico, dopo qualche attimo di indugi e riflessioni mute. «So che sei lì, che mi stai guardando e che sentirai quello che ho da dirti.», premetto, nell’intenzione di smuoverlo, di costringerlo ad udire le mie parole.

«Tu che di lassù assisti a ogni cosa che mi riguardi, rispondi alle mie preghiere.», alzo anche l’altra mano, aggrappandomi alle sbarre superiori, quasi con disperazione, cercando comunque di contenere espressione e tono. «Ti prego, parla con me. Dammi un segno della tua presenza accanto a me, fammi sentire che non sono totalmente sola, fammi capire che presto lui tornerà e che nell’attesa tu resterai con me… ti prego…», alle ultime parole, è impossibile infine contenere la voce, che alla fine mi esce coinvolta, rotta, tremula.

Resto in attesa, nonostante il tremolio del corpo e della voce, ma tenendomi in piedi grazie alla ferrea convinzione che presto o tardi sentirò una risposta, che mi riempirà l’anima e mi aiuterà a non cadere nella disperazione, mentre continuo stoicamente ad aspettarti.

Le ore passano, mi scivolano addosso e non c’è traccia della risposta del Cielo.

E ancora una volta capisco quanto io sia insignificante, ai suoi occhi. Mi rannicchio sull’altalena, in equilibrio, raggomitolata su me stessa, e piango fiumi di amarezza.

«So I'll hold tight to what I know.

You're here and I'm never alone.»

«E così mi aggrappo a ciò che conosco.

Tu sei qui ed io non sono mai sola.»

Non so dire quanto tempo è passato da quando ho iniziato a piangere. So solo che quando ho alzato il viso, la luce che vibrava sul metallo era aranciata, e se spiavo il cielo alla mia destra, potevo vedere tentacoli rosa avvinghiarsi all’azzurro, divorandolo a poco a poco.

Il pianto mi aveva arrossato gli occhi, che mi bruciano, e infradiciato il viso. Mi porto le mani al volto, cercando di asciugarmi o almeno di nasconderlo, come facevo sempre. Faccio girare l’altalena, che cigolando mi permette di costatare che tu non sei ancora arrivato, e io sono ancora in tempo per celare i miei pianti segreti.

Proprio mentre mi strofino gli occhi – arrossandoli ancora di più – da qualche parte, spira un venticello fresco, che mi avvolge in poco meno di un istante, rinfrescandomi gli occhi e asciugandomi le guance bagnate.

Resto immobile, seduta sull’altalena, sentendo la brezza correre verso di me, abbracciarmi e poi fuggire via, in un ciclo continuo.

Poi sorrido, e guardo il cielo.

«Sei stato tu… vero?», dico, sicura delle mie parole. Chiudo gli occhi, il vento che rinfresca le palpebre rovinate dal pianto, e il viso rigato dalle lacrime. Mi stringo nelle mie braccia, nel calore che quell’alito di cielo mi porta. «Vuoi farmi capire… che mi stai accanto mentre piango?», tento, in realtà io stessa insicura delle mie parole. «Vuoi farmi capire che lui sta arrivando e che io non dovrò attendere a lungo?», ipotizzo ancora, più vado avanti, più il sorriso si allarga. «Ora capisco… non devo aspettarmi parole da te, vero?», annuisco appena, quasi a confermare da sola la mia teoria. «Da te devo aspettarmi… cose che conosco già, e che non smetteranno mai di starmi accanto.», concludo, riaprendo gli occhi. La luce, adesso, è già completamente arancione, e il rosa fondendosi col rosso lambisce quel che resta dell’azzurro, già in procinto di diventare violaceo e infine bluastro. Il pomeriggio sta passando, pian piano.

E io, non sono mai sola.

«And though I cannot see you,

And I can't explain why,

Such a deep reassurance

You've placed in my life.»

«E anche se non posso vederti,
E non so perché,
Hai inserito nella mia vita
Una profonda rassicurazione.
»

Le ore camminano davanti a me, mi pare quasi di vederle, eleganti, un po’ stanche forse di tutto quel movimento, ma mantenendo la loro pacata raffinatezza che le differenzia da qualunque altra cosa.

Passano e non si fermano, continuando a scivolare con leggerezza trasportando con sé la notte.

…Ed io che non riesco nemmeno… a parlare con te…

Mi rattristo, per un breve istante, abbassando gli occhi a guardare le mie mani. Mani che possono sfiorarti, ma che non possono toccarti davvero.

Tu, cielo.

L’unico che mi abbia mai realmente compreso fino in fondo, in silenzio.

Perdonami, per non aver capito davvero che la pioggia, il vento, il sole, la neve, non erano altro che i tuoi modi per farmi capire che eri vicino a me.

Ti accusavo di guardarmi, dall’alto della tua indifferenza, assistendo al mio dolore senza prenderne parte, senza neanche venirmi vicino per consolarmi, o abbracciarmi.

Pensavo che tu, così come tutti gli altri, volessi ostinarti a guardarmi al di là delle sbarre, divertito dalla mia sofferenza per non poter correre via, ma allo stesso tempo sorridendo dolcemente, quando avvicinando una mano io la sfioravo con la mia.

Invece mi sbagliavo, e mi sbagliavo clamorosamente.

Tu sei l’unico che è riuscito davvero a toccare il mio cuore.

Non fraintendermi, però.

Lui… è un’altra cosa. Lui è la persona che mi tiene in vita e non potrei mai fare a meno di lui. Però lui mi porta ansia, lui che aspetto sempre, lui che arriva quando gli pare e se ne va senza preavviso.

Tu invece… sei sempre qui.

Ti percepisco accanto a me. Non posso toccarti, e non posso realmente vederti, posso solo perdermi nel tuo azzurro infinito.

Tu, cielo, che sei sempre qui e che mi rassicuri, a te io dedico la mia canzone.

«We cannot separate,

'Cause you're part of me.

And though you're invisibile,

I'll trust the unseen.»

«Noi non ci possiamo separare,
Perché tu sei parte di me.
E anche se sei invisibile,
Crederò a ciò che non vedo.
»

Le prime note sono limpide, e un po’ incerte, ma a poco a poco il canto va sempre più riempiendosi di sicurezza di pari passo con l’avanzare della melodia, con i suoi alti e bassi, le scale e gli arpeggi.

Ed è a metà della mia armonia… che lo vedo arrivare.

Lui.

Illuminato di arancione dal sole che, tuffandosi dietro la montagna, mi sorride.

Mi interrompo, guardando prima il disco aranciato, poi lui, e sorridendogli quasi ispirata dall’astro.

«Ehilà.», mi dice, tranquillo, come al solito.

«Ciao!», replicò, felice, saltando in piedi sull’altalena, in preda all’euforia.

Lui mi guarda, infilando poi un dito fra le sbarre. Mi avvicino, e prima lo sfioro con la fronte, poi con leggerezza, un bacio leggero sull’unghia. Lui ridacchia, come sempre.

«Quasi mi dispiace tenerti sempre qui dentro.», dice. Inizialmente non capisco. Poi vedo la sua mano, e il cuore si ferma.

Lo vedo aprire la gabbia, e infilarla all’interno.

No.

No.

No.

Cosa…?

Cosa sta facendo?

Avvolge le dita attorno al mio corpo, con leggerezza, senza farmi male, ma con decisione. Mi tira fuori e all’improvviso ho freddo.

Mi sento debole, inerme, indifesa, ficcata così a forza nel mondo senza avere il tempo di abituarmi ad esso con calma.

«Però tutti vogliono sempre vederti, quindi non posso far altro che tenerti rinchiusa.», aggiunge, concludendo, aprendo il palmo della mano e lasciandomi zampettare sulla sua pelle.

Resto immobile.

Quindi… mi tenevi con te solo perché tutti vogliono sempre vedermi?

Non perché sono la tua preferita?

Non perché lo vuoi tu?

Non perché mi vuoi bene così come io ne voglio a te?

…perché io sono ancora qui?, mi chiedo.

Sorride e fa per rimettermi nella gabbia.

Ma io… non posso permettermelo.

Alzo gli occhi verso il cielo.

Se lui mi rimette là dentro… non potrò mai toccarti. Perché non potrò uscire da lì mai più.

E il mai… è un concetto che non posso sopportare.

A un niente dalla gabbia, spalanco le ali e mi sollevo dalla mano.

Lui, sorpreso, fa per riprendermi: «ehi, che cosa combini? Su, torna qua.», dice, la voce gentile, ma è tutta un’illusione, io lo so.

Mi libro più in alto.

Lui allunga una mano, facendo quel verso insensato con cui si pretende di attirare l’attenzione di chi non può rispondere.

Ma io non ci casco più.

Continuo a sbattere le ali, continuando a salire.

Lo guardo dall’alto, con quell’espressione confusa sulla faccia, mentre cerca di portarmi di nuovo nel raggio delle sue mani. Sorrido, con tristezza, ma è diversa da quella che provavo prima.

«Addio…», sussurro, anche se lui non mi capisce, ne sono sicura.

Mi volto, e per la prima volta assaporo il vero e semplice gusto della libertà.

Tutto il mio corpo viene travolto dal vento e assorbito da quella moltitudine di colori che sta esplodendo nel cielo.

Allungo le braccia, continuando a sbattere le ali, freneticamente, per quanto il mio piccolo corpo possa permettermelo. Infondo tutte le mie energie nella salita.

E mentre continuo ad avvicinarmi al cielo, sorrido, e piango insieme.

Non poteva… separarci. Perché io avevo bisogno di te. Anche se non ti vedo mai, so che ci sei.

Io lo so.

Io credo… nel Cielo.

E per la prima volta in tutta la mia vita, sono finalmente libera.

Free.

In the air.

«Tu sei qui ed io non sono mai sola.»

Fine.

  
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