Capitolo 14
Di nuovo insieme
-
Eternamente tua, eternamente mio -
“Lasciami libere le mani e il cuore, lasciami libero! Lascia che
le mie dita scorrano per le strade del tuo corpo”.
Pablo Neruda
Massimo
Girotti e Lucia Bosé
Engel era davvero su
tutte le furie. Con uno scatto, voltò le spalle a suo marito e si avvicinò ai
fornelli per preparare la cena. “Sai benissimo che non è così. Nadine fa parte
del mio passato.” ribatté Kurt e, sorridendo ironicamente, continuò: “Sono passati
dieci anni, Engel. La tua gelosia è assurda.” “Ma certo! Adesso sarei io la
pazza! La moglie isterica che vede le amanti del marito dappertutto!” urlò la
donna, fuori di sé. “Ti rendi conto delle stupidaggini che stai dicendo?” fece
Kurt irritato “E non urlare che potrebbe sentirti.” “Non m’interessa!” rispose
Engel in modo altero. E, in quel preciso momento, squillò il telefono. Andò a
rispondere Engel e, quando ritornò in cucina, aveva sul viso un’espressione
stravolta. Mise le mani fra i capelli e, dopo un lungo sospiro, disse: “Ci
mancava solo questo … Mia zia … Zia Klara sta molto male e devo andare subito
da lei.” Poi abbracciò suo marito con un’improvvisa dolcezza e gli sussurrò
all’orecchio: “Scusami se a volte mi comporto come una stupida … è che ti amo troppo e non voglio
perderti.” Kurt sorrise e l’abbracciò più forte. “Anch’io ti amo tanto, Engel.”
rispose e la baciò con passione …
Engel era scappata ad
assistere la zia gravemente ammalata, la piccola Brigit dormiva già da tempo e
Kurt era rimasto da solo a casa con Nadine. Tante cose aveva ancora da
raccontarle e tante altre desiderava ascoltare dalla sua bocca. Il nostalgico
ricordo del loro ritrovarsi alla rete di filo spinato gli attraversò il cuore
e, senza indugio, bussò alla camera degli ospiti. Nadine era in piedi davanti
al comò in un vestito a campana nero a pois bianchi che metteva in risalto la
pienezza armoniosa del suo corpo; dai suoi lunghi capelli neri che, sciolti
posavano morbidi e ondulati sulla schiena, s’intravedevano dei bellissimi
riflessi rossi e Kurt si fermò ad ammirare la sua immagine riflessa nello
specchio dal quale lei stessa si guardava. Nadine indossava una collana e un
bracciale di perle e sul braccio sinistro nudo si vedeva chiaramente il marchio
indelebile della sua prigionia a Ravensbrück; il suo viso era truccato ma non
la faceva sembrare volgare, al contrario, quel rosso che le colorava le labbra
esaltava la sua eleganza, la sua bellezza … la sua sensualità. Aveva davanti
l’immagine di una donna raffinata e affascinante, l’esatto opposto di Engel troppo
spesso trasandata e vestita da maschiaccio. “Hai chiarito con tuo marito?” le
domandò, interrompendo i propri pensieri che altrimenti sarebbero andati troppo
oltre. “No, non ancora. Non ce l’ho fatta a richiamare. Ho bisogno di un po’ di
tempo. Sono troppo confusa, troppo delusa.” rispose, voltandosi lentamente e
poggiando le mani sul comò. Poi fece un lungo sospiro e, all’improvviso,
scoppiò in lacrime. Kurt la strinse in un abbraccio consolatorio e Nadine si
lasciò abbracciare, ricambiando. Ma l’uomo iniziò ad accarezzarla dove e come
non avrebbe dovuto e lei lo respinse bruscamente. “Ti faccio così ribrezzo?!”
reagì Kurt per farsi commiserare e per farla sentire in colpa. “No … non è
questo.” ribatté Nadine mortificata. “Tuo marito non ha fatto un buon lavoro.”
“Ha fatto sicuramente quel che poteva.” “Perché ti ostini a difenderlo?! Dopo
tutto quello che ti ha fatto! Dopo che ti ha trattato come uno straccio
vecchio! Non vedi come ti ha ridotto?!” affermò l’uomo fuori di sé. Nadine non
rispose e, con espressione sfinita, sedette sul letto. Dopo alcuni secondi,
Kurt si pose in ginocchio davanti a lei e, addolcendo il tono di voce,
continuò: “Ti sei mai chiesta come sarebbe stata la nostra vita insieme, se
quella notte fosse andato tutto bene?” Ma la donna perseverò nel suo silenzio. “Nadine,
ascoltami bene. Adesso abbiamo la possibilità di ricominciare tutto daccapo, di
rivivere quella notte che non abbiamo mai vissuto. Andiamo via, Nadine.
Scappiamo insieme, come decidemmo dieci anni fa. è inutile che fingi, io lo so che non mi hai mai
dimenticato.” Nadine ruppe il suo silenzio e, confusa, disse: “E tua figlia? …
E mio figlio?” “Suvvia, Nadine! Non sono neanche carne della nostra carne,
sopravvivranno senza di noi.” E, prima che potesse controbattere da buona madre
di famiglia qual era, Nadine si ritrovò tra le braccia di Kurt travolta da un
improvviso e violento vortice di passione. “Vedrai che insieme saremo felici …
Fidati di me.” le promise, baciandole ripetutamente il collo e inebriandosi del
profumo dei suoi capelli. I due erano di nuovo insieme, stretti l’uno
all’altra, uniti da un amore che dopo dieci lunghissimi anni ritornava
prepotente alla luce, rivendicando tutte le promesse di eternità e facendo
battere i loro cuori e fremere i loro corpi. E, improvvisamente, i due si
ritrovarono giovani sulla brandina dell’infermeria di Ravensbrück. Nadine era
ritornata nel suo camicione a righe da prigioniera, esile, pallida, senza
trucco, senza capelli e le cicatrici che deturpavano il volto di Kurt erano
scomparse. “Prendimi … E portami via.” sussurrò la ragazza e si sdraiò,
attirando l’amato su di sé. Intanto, dalla finestra di quella che era diventata
la baracca dell’infermeria del lager, giungeva in lontananza “Habanera”, la
loro canzone. “Te lo prometto …” ribatté Kurt “… Tu sei mia.” E la fede nuziale
scivolò dal dito di Nadine, cadendo rovinosamente sul pavimento …
Questo è il tempo di vivere te,
fino all’ultima parte di me.
Perché il mondo ha deluso anche te,
ora devi fidarti di me.
Michele Zarrillo, L’alfabeto degli amanti