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Autore: _Frame_    20/09/2014    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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4. Spaghetti col cucchiaio e Calici di vino

 

Milano, 19371

 

Le strade di Milano erano intasate. Il traffico bloccato dalla folla aveva smesso di circolare già di prima mattina. L’ammasso di milanesi accaniti ai bordi delle vie schiamazzava ed esultava, facendo a gara a chi cantava più forte l’inno italiano. Le traverse sbarravano le strade. I più piccoli sgusciavano in mezzo alle altre persone e finivano schiacciati con la pancia contro le aste, spinti dal peso della folla. Bandiere italiane e tedesche sventolavano sopra le loro teste. Grandi come lenzuola, appese ai lampioni e alle finestre, e piccole, della misura di un gagliardetto, strette tra le mani. I bambini si aggrappavano alle sottane delle mamme e tendevano le braccia verso l’alto, con sguardi di supplica. Le giovani donne si chinavano a prenderli in braccio e caricavano i figli sulle spalle.

Dei ragazzi erano arrampicati alla fontana centrale della piazza del Palazzo Sforzesco. I vestiti scuri, zuppi di acqua, e i capelli grondanti. Uno di loro si mise in punta di piedi e tenne il palmo aperto davanti alla fronte, lo sguardo teso all’orizzonte.

La grande strada che fiancheggiava il palazzo era l’unica sgombra, recintata dalle traverse. Guardie e soldati sull’attenti erano impalati ai bordi della grossa navata che si apriva dalla fontana. Le divise nere ben fasciate sul corpo, i gradi scintillanti puntati sul collo e i cappelli tirati sulla fronte. I visi nascosti dall’ombra.

Italia sfilò una mano da dietro la schiena e la avvicinò alle labbra. I denti rosicchiarono le unghie, passando da un dito all’altro. I piedi saltellavano, spostando il peso da una gamba all’altra. Uno stivale si sfregò sulla pelle dell’altro, e lasciò una sottile striscia bianca sul cuoio lucidato di nero. Il laccio si stava sciogliendo.

Romano aggrottò la fronte e volse lo sguardo al fratello. Alzò il braccio, il gomito colpì la spalla di Italia e lui s’irrigidì. “Smettila, sei ridicolo.”

“S-scusa.” Aveva ancora le unghie strette tra i denti.

Italia infilò due dita nel colletto della camicia e allargò la stoffa, inclinando il capo di lato. Prese un sospiro, e l’aria fresca gli carezzò la pelle sudata. Italia sollevò gli occhi al cielo. L’arcata del palazzo lo copriva con la sua ombra, la grande torre d’entrata si perdeva, immersa nella luce del sole. Le lancette dell’orologio si spostarono. Quella più lunga toccò il numero nove, la più corta rimase sull’undici. Italia deglutì e le sue labbra ebbero un lieve tremito.

“Ci sta mettendo tanto.”

Le dita di Romano, intrecciate dietro la schiena, si strinsero. Romano separò i piedi, mettendosi a gambe leggermente divaricate. I suoi occhi scuri fissi davanti a sé, rivolti alla folla.

“Starà ritardando per il traffico. La folla avrà intasato l’entrata in città.”

Italia mugugnò e diede un altro morso all’unghia del suo indice. Tolse la mano dalle labbra e sfregò le dita tra i capelli, dietro la nuca. La mano corse, passando sulla pelle arrossata del collo e sopra la stoffa della giacca, grattò tra i bottoni e le medagliette. La divisa prudeva. Rimaneva incollata al corpo come una fastidiosa seconda pelle. I piedi immersi negli stivali iniziavano già a sudare insieme ai polpacci. Era come avere le gambe immerse in una fornace.

Altre grida di gioia, altri urli e altri canti si alzarono dalla folla. Italia sollevò gli occhi tremanti, stordito dai colori delle bandiere che si agitavano. Due bambini sgusciati dalle gambe della folla si appesero a una delle transenne. Le testoline non superavano la sbarra di legno colorato. I due si tenevano per mano. Gli occhi sgorganti di meraviglia puntavano l’entrata della stradina, oltre il muro dei soldati. Il bimbo più grande chiamò vicino a sé il minore, lo avvicinò a un suo fianco tenendogli la mano stretta. I capelli biondi splendevano come un fascio di grano dorato. Nell’altra mano, quella appesa alla transenna, stringeva una bandierina italiana. Il bimbo più piccolo gli strattonò un lembo della maglia e indicò la strada, superando la transenna con il braccino. Le sue dita tenevano stretta una bandiera tedesca. Il bambino biondo annuì e gli disse qualcosa. Le parole si mescolarono agli schiamazzi della folla. Gli pose una mano sulla testa e arruffò i capelli castani del più piccolo con una carezza. Sorrisero entrambi.

Italia ebbe un brivido. Si strinse le spalle e chinò lo sguardo, mordendosi un labbro.

“Credi che mi parlerà?” disse.

Romano fece schioccare la lingua. Diede un calcio a terra, sollevando una nuvola di polvere, e voltò il capo di lato. La schiena rigida come un palo.

“Sta venendo qua solo per quello. Che domande idiote fai, Veneziano?”

“Ma se...” Italia tornò a rosicchiarsi le dita. Un’unghia si incrinò sotto la pressione dei denti tremanti. “E se non volesse nemmeno guardarmi negli occhi? E se in realtà dicesse che ha cambiato idea e che non vuole più allearsi? Forse è per quello che è in ritardo, e non lo rivedrò più perché –

“Piantala, Veneziano.” Romano sollevò un tallone e colpì Italia sulla caviglia.

Italia si morse il labbro inferiore e ammutolì. Romano prese un sospiro, gonfiandosi il petto. La fronte aggrottata, gli occhi scuri, e la bocca arricciata in una smorfia di disprezzo.

“Credimi, tra tutti sono io quello che più spera che quel crucco bastardo non si presenti.”

Italia fece un piccolo gemito e abbassò lo sguardo. Rimase zitto.

Le urla della folla aumentarono, le bandiere sventolarono con più foga.

Il canino di Romano affondò nella carne del labbro. “Veneziano...”

Italia ruotò gli occhi verso il fratello. Lo sguardo di Romano era in ombra. L’unica cosa che scintillava erano i rettangolini dorati appesi al collo della divisa scura e le stelline sul petto.

“Ormai l’incontro di oggi non può essere cancellato, e sono costretto a sorbirmelo, ma non hai idea di quanto mi stia bruciando.”

Italia intristì lo sguardo. Strinse le mani sul grembo e giocherellò con le unghie rosicchiate. “Sì, lo so.”

“Sarò io a non rivolgergli una sola parola. Sono qui solo per rappresentare il mio paese, e non voglio avere niente a che fare con lui.” Romano strinse i denti. Sollevò il mento, e un piccolo raggio di sole gli illuminò la fronte. Il ciuffo arricciato gli ricadde dietro la spalla. “Siamo ancora in tempo.”

Italia sbatté le palpebre e sollevò lo sguardo verso quello di Romano.

Romano inspirò. “Non dobbiamo ancora firmare nulla, perciò ti consiglio di prendere questo incontro solo come un grosso errore e di rifiutare qualsiasi cosa ti proporrà Testa di Patata.”

“Dovrei scappare di nuovo?” squittì Italia. Le labbra tremarono come stessero trattenendo il pianto.

Romano scosse la testa. “Non si tratta di scappare, questa volta.”

Gli occhi dei fratelli si incrociarono. Quelli di Romano splendettero nell’ombra del viso.

“Si tratta di scegliere ciò che è bene per l’Italia, e non quello che è bene per te.”

Italia gemette. Fu come se un pugno gli stesse stritolando lo stomaco, mozzandogli il fiato. Italia strinse le mani all’altezza del petto e chinò le spalle in avanti.

“Io... io so quello che faccio.” Riaprì gli occhi, guardandosi le punte dei piedi. “Dovresti fidarti di più di me.”

“Io mi fido di te, Veneziano.” Il tono di Romano divenne più profondo. “È di lui che non mi fido. Se me ne sto qui impalato come un idiota è solo per te.”

Italia sollevò piano gli occhi, ritornando con la schiena ingobbita. Il cuore batteva lento sotto le mani giunte sul petto. Ogni colpo era una martellata che risuonava fino in gola. Romano sbatté le palpebre, e la fronte si appiattì. Prese un piccolo sospiro e alzò la punta del naso verso la folla, gli occhi lontani da quelli di Italia.

“Adesso sono io che ti chiedo di prendere una decisione pensando anche a me.” Sbuffò e gettò lo sguardo di lato. “Non capirò mai perché tu tenga tanto a quel bastardo.”

“Perché so cosa vuol dire perdere qualcuno per colpa delle mie paure.”

Italia affondò le unghie nei dorsi delle mani, la pelle rimase graffiata da sottili lineamenti rossi. Le mani e il collo sudavano, la gola tornò secca, la bocca asciutta. La furia sul viso di Romano si sciolse. Il ragazzo voltò il viso verso Italia e sbatté piano le palpebre. Le sopracciglia s’inarcarono lievemente, in un’espressione malinconica. Romano separò le labbra, ma le parole gli morirono in gola.

Il coro di urla si levò dalla folla. Tutte le braccia si tesero, le bandiere sventolavano sopra le teste e le lunghe ombre si proiettarono sulle strade. Le persone schiacciate sulle traverse si aggrapparono, poggiandosi con la pancia, e saltarono sul posto sporgendosi sulla via. Gli sguardi di tutti puntavano l’entrata della strada.

Italia fece un balzo sul posto ed emise un’esclamazione. Il cuore sprofondò in fondo allo stomaco. Gli occhi spalancati ruotarono verso l’apertura della via. I balzi della folla rallentarono, tutto divenne grigio e silenzioso, i suoni ovattati.

Il muso della limousine nera sbucò dall’angolo dell’edificio. La bandiera tedesca e quella italiana sventolarono sulla punta. Italia prese un forte sospiro dalla bocca. Il cerchio attorno alla testa si restrinse, le orecchie tappate fischiarono, i colori grigi e spenti si appannarono. Vorticavano attorno all’auto nera. Italia si spinse in avanti tenendo gli occhi spalancati incollati alla limousine che avanzava nella strada sgombra.

Le dita di Romano gli sfiorarono il gomito. “Veneziano, ferm – 

La voce si perse in un mugugno ovattato.

Italia corse verso la fontana. Gli stivali di pelle erano pesanti, stringevano i piedi, e la divisa fasciata sul petto e sulle gambe gli ingessava i movimenti. Italia non sentiva niente. Correva e basta, come se non avesse avuto nulla addosso. Il rumore della folla era un brusio in lontananza, una trottola grigia che ruotava attorno alla limousine. L’auto aggirò la fontana. Gli schizzi e i ragazzi in piedi sui bordi la coprirono. Il muso tornò a sbucare da dietro gli spruzzi d’acqua e si fermò. Le bandierine si ammosciarono sulle aste e sfiorarono la carrozzeria.

Una fitta al petto fece rimanere Italia senza fiato. Le gambe correvano da sole, le braccia piegate sui fianchi lo spingevano in avanti. Italia tese il braccio verso la bolla grigia che accerchiava la limousine, il cerchio attorno alla testa si stringeva, le orecchie fischiavano, il collo e la fronte sudavano. Il cuore martellava fin dentro il cranio.

Vicino. Così vicino...

Le dita di Italia si allungarono verso lo sportello, i polpastrelli sfiorarono la maniglia che si abbassò senza che lui l’avesse toccata. L’immagine distorta di Italia si riflesse sul vetro oscurato. Lo sportello scattò, la porticina si socchiuse, avanzando verso di lui. Il riflesso di Italia sul finestrino s’ingrandì. Italia si aggrappò al bordo dell’auto e chinò la schiena, abbassando la fronte. Il cuore fermo in gola, la testa ovattata, le orecchie fischianti.

“Germ – 

Le punte dei due nasi si sfiorarono. Il vortice grigio si fermò, tornarono i colori.

Due forti scintille rosse incontrarono lo sguardo di Italia. Il cuore riprese a battere. Lo scrosciare della folla tornò a riempirgli le orecchie e il cranio. Italia lasciò andare la presa sullo sportello della limousine, le mani scivolarono lentamente verso il basso.

Buttò fuori l’aria con una sola boccata. “P-Prussia?”

Prussia sbatté le palpebre. I suoi occhi sorvolarono la spalla di Italia e guardarono fuori.

“Che accoglienza.”

Italia fece un passo indietro. Prussia si aggrappò al tettuccio della limousine e guardò verso la folla. Prese un forte sospiro che gli gonfiò il petto ed estese il ghigno sulle labbra. Un raggio di sole gli carezzò la divisa, la croce di ferro puntata sul collo emanò una scintilla. Un bagliore argenteo gli attraversò i capelli, come un’onda. Prussia si mise il fianco della mano sulla fronte e spalancò gli occhi scarlatti.

“No, dico davvero. Non mi aspettavo tutta questa fanfara di gente solo per un incontro informale.” Rivolse lo sguardo all’indietro e sollevò un angolo della bocca. “Lo prendo come un buon auspicio.”

Italia tirò un sorrisetto tremolante e annuì. Tornò ad abbassarsi verso lo sportello della limousine e si tenne aggrappato sul tettuccio. Chinò il capo, tendendo la punta del naso verso l’interno. Un dolce profumo di pelle aleggiò verso di lui. Una macchiolina gialla saettò in mezzo ai sedili. Frullio d’ali, un piccolo cinguettio. Gilbird sfrecciò di fianco all’orecchia di Italia e svolazzò verso l’alto, incontro alla luce. Si posò su una spalla di Prussia e becchettò l’interno dell’ala.

“Ehm, Prussia...”

Italia sollevò lo sguardo. Prussia si tenne appeso all’auto e inclinò il collo all’indietro. I gradi pinzati sulla divisa blu splendettero sotto i raggi del sole.

“Dov’è Germania?” chiese Italia, quasi con tono di supplica.

Prussia fece roteare gli occhi al cielo. “Ah, West.” Balzò giù dal rialzo della limousine e si lisciò la divisa. Gilbird sbatté un paio di volte le ali. “Oggi non è venuto, aveva degli affari urgenti da sbrigare con la principes – con Austria, e ha preferito mandare solo me.”

Prussia poggiò un pugno sul fianco e rivolse di lato un’espressione infastidita. Il tono divenne ancora più aspro. “In ogni caso è solo una visita confidenziale, non c’è niente da firmare o da trattare.” Storse il naso, inarcando un sopracciglio. Fece schioccare la lingua e annodò le braccia al petto. “Come se io non contassi abbastanza per occuparmi anche di quello. Dov’è finita l’autorità del fratello maggiore?”

Italia incrociò le dita dietro la schiena e mugugnò qualcosa tra le labbra. La punta dello scarpone tornò a strofinare sopra la pelle dell’altro. “Io credo che...”

Il rumore di passi dietro di lui gli fece morire le parole in bocca. Italia si voltò, trovandosi di fianco al viso imbronciato di Romano. Respirava a grandi sorsate, le spalle e il petto s’ingrossavano a ogni boccata. Aveva corso.

Prussia lanciò un’occhiata a Romano. “Oh, ci siete tutti e due?”

Romano aggrottò la fronte e digrignò i denti. Un sottile ringhio gli uscì dalle labbra contorte. I pugni stretti sui fianchi tremavano. Prussia si cinse i fianchi e sollevò la punta del naso verso l’alto. Chiuse gli occhi, e il ghigno infastidito si ribaltò in un sorrisetto che gli scoprì la punta del canino.

“Tanto meglio, così faremo vedere a West che anche noi facciamo sul serio.”

Romano fece una smorfia e sbuffò una soffiata d’aria dalle narici. Gettò lo sguardo di lato, lontano da Prussia. Lontano da Italia.

Italia sollevò le sopracciglia, con sguardo malinconico. Gli occhi ruotarono verso la limousine aperta, vuota, e la piega di tristezza divenne ancora più profonda. Si posò la mano sul petto e strinse la stoffa della divisa. Il dolore non svanì.

 

♦♦♦

 

Il polso del cameriere s’inclinò, il panno di stoffa stretto sul gomito rimase fermo sul braccio. L’uomo piegò il polso, il collo della bottiglia sfiorò il bordo del bicchiere di cristallo. Il vino rosso sgorgò dalla sottile bocca, scivolando dentro la pancia del bicchiere, e un’onda rossa si rimescolò dentro il vetro. Il cameriere sollevò la bottiglia e fece un piccolo inchino, spostandosi di lato. Prussia sollevò il calice tenendolo per il sottile gambo di cristallo. Sulla superficie del vino si era formata una sottile schiuma rosa che frizzava un dolce profumo speziato.

Prussia socchiuse un occhio e guardò attraverso il vetro. La punta del suo naso si storse. “Niente birra?”

Romano agguantò il suo calice e si voltò di profilo. Appoggiò un braccio sullo schienale della sedia e inclinò il collo all’indietro. Tutto il contenuto del bicchiere andò giù per la sua gola come acqua fresca.

“Niente birra,” gorgogliò con tono aspro.

Romano si strofinò le labbra con la manica della giacca e sbatté il calice sul tavolo. I suoi occhi fulminarono Prussia. “Siamo in Italia, e in Italia si beve vino. Se vuoi la birra tornatene in crucconia, Testa di – 

“Romano.”

Italia gli prese un lembo della giacca e gli diede un leggero strattone. L’altra mano era stesa sul tavolo, aperta. Gilbird becchettava le molliche di pane sbriciolate sul suo palmo. Italia sollevò le sopracciglia, guardando il fratello con aria di supplica.

“Ti prego, non fare il maleducato.”

Romano tirò via il braccio dalla presa di Italia e si voltò dall’altro lato. Premette un gomito sul tavolo e sollevò il bicchiere vuoto, laccato di uno strato di vino. Il polso si piegò in avanti.

“Riempi ancora.”

Il cameriere tornò a inclinare la bottiglia, facendo sgorgare il nettare scuro. Romano buttò giù il vino con due sorsate e stette di profilo, dando le spalle a Italia.

Altri tre camerieri si avvicinarono alla tavolata. Le fiammelle delle candele rosse fecero brillare i piatti di ceramica bianca appoggiati sulle loro mani sollevate. Due bottiglie d’acqua ancora piene vicino agli steli di cera incastrati nei candelabri, e tre fiaschi di vino mezzi vuoti vicino ai centritavola di margherite e mughetti. I camerieri si inchinarono e posarono i piatti fumanti in mezzo alle posate d’argento disposte sulla tovaglia. Un groviglio di spaghetti al sugo, con piccoli pomodorini tondi e una foglia di basilico adagiata in cima.

Prussia scollò il bordo del calice dalle labbra e sgranò gli occhi. “Oh, gli spaghetti!”

Posò il bicchiere appena sorseggiato e afferrò la prima forchetta che gli capitò a tiro – la più lunga – tra quelle alla sinistra della fondina. Gli occhi luccicanti bruciarono per i vapori roventi del piatto di pasta.

“Erano anni che non li mangiavo.”

Italia fece un piccolo sorriso e lasciò cadere sulla tovaglia le ultime bricioline di pane per Gilbird. Il canarino si appollaiò sul tavolo e finì di ripulire le molliche. Italia prese la forchetta e la tuffò fra gli spaghetti, sollevò i primi fili di pasta fumante e li arrotolò alla posata, densi e colmi di sugo. Prussia affondò i denti della forchetta nel suo piatto e sollevò il manico. Gli spaghetti scivolarono via come vermicelli. Prussia inarcò le sopracciglia e ritentò, scavando nel piatto con più forza. Gli spaghetti scivolarono di nuovo.

“West e io vi abbiamo osservato parecchio negli ultimi anni.”

Italia sollevò gli occhi senza togliere la forchetta dalle labbra. Anche Romano voltò lo sguardo. Lui aveva già mandato giù un primo boccone e stava arrotolando un’altra forchetta di pasta. Prussia sollevò la sua posata e vide gli spaghetti tornare a cadere. Del sugo schizzò sul bordo del piatto, intaccando la ceramica candida.

“State andando forte, davvero.” Prussia appoggiò il gomito sul tavolo e puntò il manico della forchetta verso Italia. Abbassò una palpebra e accennò un ghigno. “Siamo colpiti, non ci aspettavamo una ripresa così veloce da parte vostra.”

Romano sbuffò e cacciò in bocca il gomitolo di spaghetti gocciolanti di pomodoro. Si gonfiò la guancia, masticandoli come se avesse tra le fauci una gomma americana. Italia sorrise e tenne la forchetta alta, di fianco al viso. Le guance si imporporarono.

“Grazie, è davvero un bel complimento.” Abbassò gli occhi e i denti della forchetta s’inclinarono. “In realtà Francia e Inghilterra non la pensano così e l’hanno presa abbastanza male. Loro due non sono rimasti per niente contenti delle nostre espansioni.”

“Lascia perdere quei due.” Prussia sventolò la mano come se stesse scacciando una mosca. Si mise la forchetta tra i denti, assaporando con le labbra i rimasugli di sugo che erano rimasti tra gli spuntoni. “Quando abbiamo firmato l’Anschluss con il signori – con Austria, loro due non hanno battuto ciglio. Abbaiano tanto, ma alla fine non muovono dito.”

“Oh.”

Italia sollevò due fili di spaghetti e arrotolò la forchetta. La posata rimase ferma sul bordo del piatto.

“Avete iniziato anche voi a riprendere i territori?” chiese Italia.

Prussia sollevò il mento e il sorriso si distese. “Ovvio che sì. Come avremmo potuto rimanere con le mani in mano in questa situazione?” Infilò due dita sotto il colletto della giacca e sbottonò la cima, proprio sopra la croce di ferro che rimase immobile sul petto. “Ma quei due continuano a rompere le palle. Non appena i giornali diranno del nostro incontro, sono sicuro che daranno rogne anche per questo.”

Italia strinse le dita attorno al manico della forchetta. La pelle iniziava a inumidirsi di sudore e scivolava sull’acciaio. Italia deglutì, i piedi sotto il tavolo cominciarono a dondolare.

“È perché credono che vogliamo allearci?”

Il ghigno di Prussia svanì. Prussia ruotò gli occhi verso i camerieri e sollevò le sopracciglia. Anche lo sguardo di Italia balenò verso i quattro uomini. Il cameriere che aveva servito il vino fece un piccolo balzo sul posto e si voltò tenendo la schiena dritta. Gli altri tre lo seguirono, e uscirono dalla sala. La porta si richiuse, la serratura scattò. Per un attimo ci fu solo il rumore della forchetta di Romano che ticchettava contro il piatto di ceramica.

Prussia si schiarì la voce e si appoggiò sul bordo del tavolo con entrambe le braccia. La forchetta gocciolante di pomodoro era ancora stretta tra le dita.

“Il punto è questo...”

Italia posò la forchetta e guardò Prussia negli occhi. I piedi dondolanti si scontrarono contro le gambe del tavolo.

Lo sguardo di Prussia s’intensificò e lui proseguì. “Io e West abbiamo in mente di riappropriarci di tutti gli spazi vitali che ci sono stati strappati e spartiti con gli altri paesi. Ce ne siamo stati buoni fin troppo a subire, e ora abbiamo deciso di reagire, riprendendoci ciò che è sempre stato nostro di diritto.”

“Oh, quindi voi volete,” Italia si strinse le spalle, “volete violare Versailles.”

Prussia sghignazzò. “Violare è una parola grossa. Per quanto mi riguarda, quello stupido trattato non sarebbe mai dovuto esistere, dunque noi non stiamo facendo assolutamente nulla di sbagliato o ingiusto.” Chinò il manico della forchetta vicino al bicchiere ancora pieno di vino e lo passò piano sul bordo. Il colore del vino si confuse con quello delle sue iridi. “Questo è solo il giusto prezzo che dovranno pagare per averci umiliato in quella maniera.” Fece trillare il cristallo e il vino traballò, attraversato da piccole onde.

Prussia sospirò e si gonfiò il petto. Il sorrisetto tornò a piegargli la bocca. “In pratica, visto gli obiettivi comuni, proponiamo un’alleanza per – 

“Accettiamo!” Italia si sollevò dalla sedia e premette i palmi sul tavolo. Le braccia tremarono, gli occhi lucidi di gioia si spalancarono. “N-noi accettiamo l’alleanz – 

“Fermo.”

Il braccio di Romano si tese davanti al suo petto, la mano si aggrappò alla stoffa della giacca. Romano non si spostò, rimase di profilo, con lo sguardo basso, nascosto nell’ombra. Accavallò le gambe, e il braccio alzato restò rigido sul petto del fratello. Gli occhi scuri ruotarono verso Prussia, la fronte si aggrottò.

“Noi cosa c’entriamo con tutto questo?” disse.

Prussia sollevò un sopracciglio.

Romano ritirò il braccio e piegò il gomito sul tavolo. Tese il collo verso Prussia e inacidì il tono. “Se tutto quello che vi interessa sono i territori, perché ci state proponendo un’alleanza?”

Prussia restò in silenzio per un attimo. Romano ebbe il tempo di agguantare il collo di una delle bottiglie di vino e di tracannare due sorsate gettando il capo all’indietro. Sbatté la bottiglia sul tavolo e i riflessi violacei colorarono il pizzo della tovaglia. Gilbird fece un piccolo saltello e sbatté le ali.

Prussia si passò una mano tra i capelli, le dita scesero e si fermarono sul petto, proprio sopra la croce di ferro. Un sorriso arrogante stampato sulla bocca. “Per farvi onore con le nostre gesta e con la nostra presenza.”

Le dita di Romano strinsero attorno al vetro della bottiglia, le unghie stridettero e scollarono un angolo dell’etichetta dorata. Romano piegò le spalle in avanti, schiena e labbra tremarono. Tirò verso l’alto un angolo della bocca e lasciò uscire una risata amara che gli fece vibrare tutto il busto.

“Presenza?” sbraitò. Romano prese una sorsata di vino e un rivolo di nettare scuro gli scivolò giù dal mento. Tese il braccio che stringeva la bottiglia e alzò un indice contro Prussia. “E dov’era la vostra presenza quando noi stavamo marcendo dentro le trincee, eh? Dov’era la vostra presenza quando il nostro paese stava cadendo in rovina? Dov’era la vostra presenza quando – 

“Fratellone!”

La mano di Italia gli toccò il pugno stretto sul tavolo. Romano s’irrigidì e voltò lo sguardo di scatto, fulminandolo con un’occhiata di fuoco. Due macchie di vino grandi quanto una moneta si allargarono sulla stoffa della tovaglia.

“Che cazzo vuoi, Veneziano?”

Italia strinse la presa sul pugno del fratello e tese il collo, con aria di supplica. “Romano, ti prego, non dobbiamo litigare.”

Romano sfilò il pugno di scatto da sotto la mano di Italia. Lo ritirò e barcollò all’indietro.

“Litigare?” Romano si prese il polso e si sfregò la pelle sotto la stoffa della camicia. Lo sguardo puntava già la porta. “Al diavolo, te l’avevo detto che era una stronzata.”

Si strofinò il braccio e camminò verso l’uscita della sala. Barcollò di lato e si tenne aggrappato a una delle sedie. Si diede una spinta e ricominciò a marciare.

Italia fece un passo verso di lui. “Aspetta. Fratellone, non andare via.”

“Arrangiati, Veneziano.” Si appese alla porta e la spalancò, trascinandosi dietro il cigolio dei cardini. Romano rivolse un’ultima occhiata di disprezzo a Italia e arricciò il naso in una smorfia. Le guance erano rosse di rabbia e di alcol. “Mettiti pure di nuovo insieme a questi crucchi bastardi, ma non venire a piangere da me quando ti trascineranno con loro nella fossa.”

Romano sbatté la porta facendo tremare le pareti. I cristalli dei bicchieri tintinnarono e la superficie del vino vibrò. Gilbird frullò le ali sollevandosi con le zampette e tornò a posarsi sul tavolo, vicino al braccio disteso di Prussia.

Italia chinò lo sguardo e si rimise a sedere. Gli spaghetti nel suo piatto avevano smesso di fumare, il sugo raffreddato li aveva resi collosi e impastati.

“Scusalo,” disse Italia.

Prussia sbatté le palpebre e spostò lo sguardo dalla porta a Italia.

Italia strinse i pugni sulle gambe e si raggomitolò tra le spalle. “Non si comporta così perché è cattivo, ma solo perché è arrabbiato, e anche un po’ spaventato.” Intrecciò le gambe sotto il tavolo e le fece dondolare. “Ultimamente, poi, il fratellone Spagna sta passando un brutto periodo, e credo che Romano sia preoccupato che possa succedere la stessa cosa anche a noi, o forse è solo triste per lui.”

Prussia abbassò le palpebre e riprese in mano la forchetta. “Già, Spagna.” Tuffò i lunghi e sottili denti d’argento tra gli spaghetti e sollevò la posata. “Là c’è ancora la guerra civile, giusto? Ho sentito che – maledizione a questi spaghetti che non stanno su!”

Prussia impugnò uno dei coltelli alla destra del piatto – il più lungo – e affettò il groviglio di spaghetti. Li ridusse a una pastella rossa e gialla, tiepida e collosa come un impasto crudo. Prussia agguantò il cucchiaio da minestra e lo immerse nel suo piatto. Buttò giù la poltiglia senza quasi masticare e ne prese un’altra cucchiaiata. Gli spaghetti affettati gli riempirono la guancia.

“Non accadrà nulla del genere, te lo garantisco.” Ingollò e puntò il cucchiaio lucido contro Italia. “Né a noi né a voi.”

“A-aspetta.” Italia strinse i pugni. Le unghie affondarono nei palmi. “Romano forse ha un po’ esagerato, ma è vero che noi non siamo pronti per un’altra guerra. Non siamo così potenti, e poi...” Si morse il labbro e scosse la testa. “E poi io non voglio che risucceda quello che è capitato l’altra volta. Se l’alleanza serve solo a prepararci a un’altra cosa del genere, io...” Italia prese un forte respiro. Chiuse gli occhi e sollevò la fronte. Sii forte, sii coraggioso. Il cuore smise di battere. “Allora io devo rifiutare.”

“Nessuna guerra.”

Italia riaprì gli occhi. Prussia aveva di nuovo il cucchiaio stretto tra le labbra. Il piatto era mezzo vuoto.

“Nemmeno West è intenzionato a intraprendere un’altra guerra, voleva che tu lo sapessi fin da subito.”

Italia esitò. Il fiato gli rimase incastrato in gola per un attimo. Voleva che lo sapessi?

“Niente battaglie di logoramento, o lunghe campagne militari e tutta quella roba lì.” Prussia strinse il pugno attorno al cucchiaio e batté le nocche sul palmo dell’altra mano. “Operazioni di recupero ‘lampo’, sarà tutto molto veloce in modo che nemmeno Inghilterra o Francia possano rendersi conto di quello che stiamo facendo. Te l’ho detto,” intinse la punta del cucchiaio tra gli spaghetti spezzettati e rigirò il cibo nel piatto, prese con due dita uno dei mozziconi intrisi di pomodoro e lo allungò a Gilbird, “quest’ alleanza non ha nulla a che vedere con quella che avevamo stretto prima. Gli accordi saranno completamente diversi, ma allo stesso tempo più forti.”

“D-davvero?”

“Mhm.” Prussia annuì. Si distese sullo schienale e incrociò le mani dietro la nuca. “Ha detto che vuole chiamare l’alleanza ‘Asta’, o ‘Stecca’.” Sollevò un occhio al cielo e inarcò il sopracciglio. “Qualcosa di simile. Poi sta trafficando qualche accordo anche con Giappone, quindi è possibile che entri anche lui.”

“Con Giappone?” Italia strinse le mani davanti al petto e sorrise. Gli occhi luccicavano. “Davvero ci sarà anche lui?”

“Forse. È ancora da decidere.” Prussia gorgogliò un ghigno di disapprovazione e fece roteare gli occhi. “West mi lascia sempre in disparte quando bisogna discutere delle cose serie. Dannazione, io non sono diventato quello che sono perdendo tempo dietro alle faccende serie.”

Italia accennò una risata e la soffocò subito tra le labbra.

“Comunque...” Prussia si sporse sul tavolo. Intrecciò le dita sotto il mento, i gomiti fermi sul tavolo, e poggiò il capo sulle nocche. “Prima ci serve la vostra collaborazione.”


 

1.L’incontro in realtà è avvenuto nel maggio del Trentanove. Ho deciso di anticipare la data per bilanciare al meglio gli avvenimenti. La data riguardo la firma del Patto d’Acciaio rimarrà invariata.

   
 
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